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VIII.
Di una insinuazione dell'Atto di Accusa, che mi dà luogo a chiarire le sofferte ingiurie per la parte della Polizia.

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All'Atto di Accusa bastò l'animo toccare la storia delle disoneste persecuzioni da me sofferte nei tempi trascorsi. Poco tempo addietro non s'incontrava anima viva, che volesse accettare la trista eredità del Potere Economico; la ricusavano tutti, anzi aborrivanla; però che a così fare persuadessero alcuni pudore, altri la usanza. Adesso, sembra che si pentano della improvvida renunzia, e mettono innanzi non so quali restituzioni in integrum, come pei pupilli si costuma fare! Io mi era astenuto favellarne; parevami decoroso per la fama della nostra civiltà non ridestare memorie, che a tutti noi dovrebbe essere grato lasciare nell'oblio: ed io, a cui avrebbe dovuto tornare più ardua la dimenticanza, dimenticava mosso da patria carità. Pensava, che evocare coteste memorie deplorabili si uguagliasse allo agitare che fece Marcantonio, davanti agli occhi del Popolo, la camicia insanguinata di Cesare! Quantunque io considerassi qual tesoro di pietà mi schiuderebbe appo l'universale la esposizione dei patiti dolori, io non ardiva discorrerne, — mi vergognava..... in verità mi vergognava....! Temeva mi si dicesse: tu vuoi commuovere le nostre menti con gli affetti per mancanza di ragioni. Adesso, mercè l'Atto di Accusa, mi è fatta abilità di favellarne, e di ciò grazie gli sieno, imperciocchè io deva credere, ch'egli in bel modo mi abbia voluto porgere occasione di rivelare anche in questa parte le vicende della mia vita. Ecco pertanto le parole dell'Atto di Accusa. «Questo imputato ha interessato altre volte, e sempre per cause politiche, ora l'Autorità Governativa, ora la Giustizia, ora la Grazia.[59]» Cinque sono le piaghe di cui porto le stimate, ed è questa la sesta.

Nel 1821, fanciullo di quattordici anni, attendevo agli studii forensi nella Università Pisana. Cotesto anno andò famoso per rivoluzioni italiane, specialmente di Napoli. Da cotesto Regno erano mandate Gazzette, le quali, oltre al racconto dei casi, che alla giornata vi succedevano, referivano i discorsi tenuti nel Parlamento da personaggi per chiarezza di fama prestantissimi. La lettura delle Gazzette si permetteva nei Caffè, ed è facile immaginare se la curiosità od altro più nobile affetto le menti giovanili invogliassero a sapere di cotesti successi e di coteste orazioni. Non bastando però una sola copia a soddisfare la impazienza degli scolari, fu stabilito che a turno uno di noi salisse sopra luogo eminente e leggesse. A me toccò la mia volta come agli altri, e voglio confessare più spesso che agli altri, forse perchè avessi o migliore voce, o migliore garbo nel leggere. — Questo fatto mi fruttò la perdita di un anno accademico per Risoluzione Economica del Buon Governo. — Se cotesta era colpa, perchè consentire che le Gazzette si esponessero alla lettura nei Caffè? Non pareva insidia tesa a inesperti fanciulli? E se non era colpa, perchè punirci? E chiunque pensi che coteste pene cadevano sopra famiglie numerose, la più parte scarse di averi, e come a molti giovani venissero ad essere rotti per sempre gli studii, ad altri con inestimabile danno ritardati, non dubiterà affermare, che potevano reputarsi veri omicidii intellettuali. Ho narrato altrove[60] come, venuto a Firenze, reclamassi della ingiustizia presso il Presidente del Buon Governo, il quale mi disse: A lui non appartenere la facoltà di graziare; egli non potere fare altro che punire. Alla quale proposta risposi: Io vi compiango, Signore, se occupando un posto dove anche senza volere fate del male, e al mal fatto non potete riparare nè anche volendo, la vostra coscienza vi consente rimanervi. — Come si chiama questa Grazia o Giustizia? Lo dica l'Atto di Accusa, chè per me io me ne lavo le mani.

Ci era una volta..... e forse vi è ancora, in Livorno un'Accademia dall'antico Ercole Labrone appellata Labronica. Me vollero ascritto alla medesima, e, quantunque non mi sentissi troppo tagliato a diventare Accademico, per non comparire scortese mi lasciai fare. Tenevano allora in cotesto collegio il primato uomini antichi e presuntuosi, usi a convocare una o due volte l'anno i cittadini, perchè ascoltassero i vieti sospiri in rima di qualche pastorello di sessant'anni suonati. Pazze cose invero, ma innocenti fin qui. — Certa sera, ch'era caduta copia di neve, mi chiamavano a consulta per urgenza; andai, e trovai che mandavano a voti certo partito per fissare se di ora in avanti il candidato accademico dovesse proporsi da dodici o piuttosto da tredici Accademici. Aspettai udire cose di maggiore importanza e rimasi deluso, imperciocchè col voto del partito ogni negozio cessasse. Allora io mi attentai avvertire modestamente, ma francamente, che sarebbe stato bene indirizzare l'Accademia a più utile scopo, come a modo di esempio, allo studio della patria amatissima, sia per provvedere alla educazione del Popolo affatto abbandonata, sia per promuovere i commerci e le comodità capaci ad ampliare la floridezza del nostro emporio. — Risposero acerbi, si tennero per ingiuriati, e in brevi accenti dissero, avere fin lì durato in quel modo, ed aborrire da ogni novità. Deliberai congedarmi dall'Accademia; e lo faceva senza porre tempo fra mezzo, se Giuseppe Vivoli, adesso per meriti diuturni eletto Cavaliere, non mi avesse invitato caldamente a dettare lo Elogio di Cosimo Del Fante, valoroso soldato livornese, e a leggerlo nell'Adunanza solenne solita a tenersi nel 19 marzo di ogni anno. Studiosissimo di tutto quanto può ridondare a decoro della patria comune, il signor Vivoli mi conduceva a vedere i vecchi genitori di Cosimo, i quali a cagione della morte dell'unico figliuolo traevano desolati gli estremi giorni verso il sepolcro. Piangeva il padre mostrandomi i documenti delle rapide promozioni del figlio, le insegne e il ritratto; non piangeva la madre, perchè la sventura le aveva offeso il bene dello intelletto. Composi lo Elogio e lo lessi, plaudenti i cittadini benevoli, alla presenza dello stesso Governatore Venturi. I Regolamenti dell'Accademia ordinavano, il manoscritto della composizione letta nelle mani del Segretario si depositasse, ed io trasgredii a questa disciplina, conciossiachè, essendo determinato a licenziarmi, non mi paresse essere più tenuto ad osservarla: e qui fu il danno. Tre Accademici, il nome dei quali taccio, però che uno sia morto e due vivano acciaccati dalle infermità e dagli anni, presi, dirò, da tentazione del Demonio, mandarono scritto al Presidente del Buon Governo, com'io recitando lo Elogio di Cosimo del Fante ne avessi tolto pretesto a predicare massime sovversive al trono e all'altare (allora correva la usanza di coteste parole); a tanto ardire farmi audace lo affetto, che con bontà grande, ma prudenza poca, mi aveva mostrato il Governatore Venturi. Dal Presidente vennero istruzioni per informare segretamente della cosa; e subietto della indagine fu ancora il contegno del Governatore, il quale avendolo subodorato ne sentì inestimabile cordoglio. Egli primieramente, col mezzo del signor Direttore Pistolesi, mi richiese del manoscritto, che subito gli consegnai, e riscontratolo prima, lo inviava a Firenze, affinchè esaminassero la verità, e della calunnia si persuadessero. Tanto poteva bastare; ma sopportando acerbamente la ingiuria che gli pareva avere ricevuta, il Marchese Venturi scrisse lettere minatorie al Presidente, non ostante il mio consiglio a rimanersene, però che le minaccie destituite di effetto, anzichè tutelare dalle ingiurie, le provochino; e gli presagiva ancora, che la burrasca, passando di sopra ai suoi poderi, sarebbe scoppiata sul campicello mio. E fui profeta. Trascorsi parecchi mesi, allo improvviso, senza essere udito nè citato, senza che fatto alcuno mi contestassero, ecco giungere dalla Presidenza ordine al Governatore stesso, che m'intimasse la relegazione per sei mesi a Montepulciano. Mio era il danno, la umiliazione del Marchese. Giovane allora e del futuro improvvidissimo, manifestai volontà di ridurmi in Inghilterra; ma il Governatore, baciandomi con molte lacrime e profferendomi quanti desiderassi danari, mi scongiurò ad obbedire; lasciassi a lui la cura del resto; essersi prevalsi dell'assenza del Principe, allora recatosi a Dresda, per dargli quel colpo; dove abbisognasse, si sarebbe deciso corrergli dietro fino a cotesta città per chiarirlo del fatto; stessi di buono animo, chè tutto questo aveva a ridondare in mio maggiore benefizio. Comecchè dubitassi forte dello esito presagito alla trista ventura, pure andai a Montepulciano, repugnando rincrescere all'ottimo vecchio, che mi si era mostrato tanto benevolo. Egli poi non istette saldo nel suo proponimento, e a me toccò consumare i sei mesi nella relegazione di Montepulciano. Il Vicario di cotesta città, se non isbaglio chiamato Marini, mi veniva persuadendo a fare istanza onde la relegazione cessasse; si assumeva egli indirizzarla e raccomandarla, mi assicurava il fine felice: fui grato al buon volere, non accettai il consiglio, e dopo sei mesi tornai a Livorno.[61]

Prima che passi ad altro, mi giovi ricordare come arrivato in patria mi s'ingiungesse di non partirmi senza licenza; così nel giro di sei mesi io era cacciato prima, poi confinato in Livorno! — Ora è da sapersi come i promotori del mio infortunio non rifinissero da sussurrare, che il manoscritto da me consegnato fosse tutt'altra cosa da quello letto; ma il tempo ha chiarita la menzogna, imperciocchè da prima fosse stampato a mia insaputa a Marsilia, poi liberissimamente in Toscana mentre durava la Censura preventiva; le quali due edizioni, dove si collazionino col manoscritto, che so trovarsi negli Archivii della cessata Presidenza, si conoscerà essere uguali per l'appuntino. Uno dei miei segreti denunziatori prima di morire commise al Cavaliere Vivoli d'impetrargli perdono da me, ed io lo concessi di cuore; pregato inoltre a dettargli lo epitaffio, lo feci senza adulazione, perchè invero egli era stato uomo di molta scienza e benemerito della mia città nella moría del 1804. Un altro non aspettò cotesto estremo punto per acquietare la sua coscienza, ma venne cristianamente per mercede, e cristianamente fu accolto; e ci baciammo in bocca, dannando all'oblio la ingiuria fatta e patita. Il terzo, un giorno pretese giustificarsi appo me, profferendo mostrarmi lettere donde resultava la pressura fattagli di unirsi agli altri due. Fosse vero o no il suo dire, cotesta era ignobile ricerca: la ricusai, invitandolo a dare al fuoco le carte, come io avevo dato alla dimenticanza il caso. — «Bruciate cotesti fogli, raccomandavagli istantemente, onde i nostri figliuoli non li trovino e si vergognino di noi.» — Durante il Governo Provvisorio, il Presidente del Buon Governo, che di questi e di altri travagli aveva contristato la mia giovanezza, fu il primo che a scadenza di mese mandò la ricevuta per riscuotere la paga. I miei orecchi sono stati saziati di encomii, e non gli ho avvertiti; ma questa fiducia posta nell'animo mio mi toccò nel profondo: grande era dunque la opinione della mia generosità! I miei compatriotti giudichino se io l'abbia meritata.

Che cosa fosse questa o Grazia o Giustizia, lo dica l'Accusa, perchè io mi professo incapace a chiarirlo. —

E passo alla terza piaga. Talvolta, non sempre, per sollevare l'animo e il corpo stanchi dalle continue fatiche, mi recava per qualche ora la notte in certa compagnevole brigata dove cenavamo, fumavamo e novellavamo a nostro agio. Convenivano quivi giovani appartenenti alle principali famiglie della città, ora uomini che il Governo annovera meritamente tra i fidatissimi suoi. Un bel giorno siamo chiamati davanti il Commissario di Polizia io e Domenico Orsini, persona dimostratasi sempre amica di quiete, onorata d'impieghi, tenuta anch'essa in conto di devota alla Monarchia Costituzionale; e ad ambedue noi il Commissario di Polizia fece motto di cospirazioni, di sètte e di simili altre fatuità. Rovello della Polizia a quei tempi era volere da per tutto cercare congiure: sentii dire, che gliele pagassero quando le aveva trovate, sicchè i bracchi tenevano sempre il muso a terra, e, non volendo tornarsi mesti ed anelanti a casa, quando non levavano congiure abbaiavano per far credere ch'elle fossero nel macchione. Fummo ritenuti due mesi in carcere: per questa volta vidi un Decreto, ma invano cercai il motivo della condanna; se ben ricordo, la breve scrittura conteneva una frase equivalente al causis nobis cognitis. — E se vuolsi aver saggio del caso che a quei tempi facevasi della libertà dell'uomo, si sappia come mio fratello Temistocle venisse a visitarci quasi quotidianamente. Certo giorno, su l'andarsene, il soprastante alle carceri gli diceva che bisognava si trattenesse là dentro; e il mio fratello rispondeva: rimarrei volentieri, ma i miei negozii mi chiamano altrove; — e l'altro: ho ricevuto poco anzi l'ordine di non lasciarla partire. — Oh! allora è differente la cosa. — Insomma anche il fratello un mese in prigione per colpa di visitare il fratello. Male incoglieva a quei tempi praticare le opere di misericordia corporale! —

Ho udito raccontare come nei tempi antichi corresse usanza di allevare al fianco di regio alunno un fanciullo di piccolo stato, onde quante volte il primo cadesse in colpa, tante potessero bussare il secondo, onde quegli con la sola vista della pena si emendasse, e questi il dolore (ch'è retaggio plebeo) sofferisse. La Polizia, sospettosa del consorzio innocentissimo degli spettabili giovani, io penso che percuotesse sopra di me, come persona di minore importanza, per incutere negli altri salutare terrore. — Intanto un senso di molestia per tutta la Toscana diffondevasi; in ogni classe di cittadini era ansietà affannosa, sgomento crescente, e un domandare quando cotesti incomportabili arbitrii avrebbero fine, e uno instare continuo affinchè il mostruoso instituto cessasse. Fu reputato colpa dell'uomo quello che era vizio del maestrato, e il primo dimisero, il secondo conservarono. Noi uscimmo di carcere punto lieti della caduta del Presidente, poichè si manteneva in piedi la Presidenza.[62]

Se questa fosse Grazia o Giustizia, l'Accusa avrebbe potuto informarsene da qualcheduno di quelli che porsero grazie pubbliche al Principe di avere affrancata la Toscana dal turpe giogo della Potestà Economica.

Eccomi alla quarta piaga. La Polizia non aveva punto deposto lo antico sospetto, dacchè ella appartenesse a quella maniera di bestie, delle quali si dice che perdono il pelo, il vizio mai. Erano suoi fantasimi le sètte segrete. La svegliatezza degl'ingegni, la pratica degli umani negozii, la indole espansiva, non meno che certo costume antichissimo, ormai fra noi diventato natura, di aprire l'animo nostro a libera indagine intorno agli atti governativi, hanno impedito sempre che siffatte congiure allignassero in questa terra;[63] nè altrove abbiamo potuto intendere di che cosa sieno state capaci. Eranvi in Francia sètte segrete nel 1830, ma senza le ordinanze di Carlo X nulla avrebbero potuto operare; eranvi anche nel 1848, ma se Luigi Filippo consentiva ad alcuna modificazione su la Legge Elettorale, o più tempestivamente rassegnava il potere a favore del nipote, le sètte rimanevano impotenti. Le sètte, e la esperienza lo ha chiarito, non sono mai da tanto di rivoluzionare gli Stati. — Le rivoluzioni nascono dagli errori dei Governi, dallo scontento dei Popoli, e dal cumulo di molte cause che troppo lungo sarebbe discorrere. Fiorenza non si muove, se tutta non si duole, dicevano i nostri antichi, e con ciò vollero significare che il Popolo non è portato, ma porta, nè corre dietro alle voglie o alle passioni altrui, ma per le proprie unicamente si agita; e dissero bene. Le sètte, nello scompiglio universale, possedendo il vantaggio di un tal quale organamento, s'impadroniscono, su quel subito, delle faccende pubbliche; ma scemata la improvvisa caldezza, non corrispondendo quasi mai ai desiderii comuni, forza è che cadano come, senza andare tanto oltre, osservammo espressamente in Francia nel 1848. Se ai Governi importa, pei loro fini, mostrarsi atterriti di queste congiure, sì il facciano; ma che uomini politici se ne preoccupino, davvero non è cosa facile darsi ad intendere a chi conosce queste arti. Io di segrete congiure non ebbi mai paura, però temei moltissimo l'universale accoramento[64] del Popolo. Insomma, per me le sètte sono la jena che seguita da lontano le traccie, ma non precede mai il leone della rivoluzione. — Però la Polizia toscana non guardava tanto pel sottile; e perlustrando ogni cosa col microscopio alla mano, le venne fatto di scuoprire una sètta. Davvero, senza microscopio la non si sarebbe potuta vedere; andava composta di poche persone di stato piuttosto misero che mediocre, senza reputazione, senza seguito, prive d'ingegno, destituite di aderenze; la Polizia riputò che elle fossero comparse, e i veri attori stessero dietro le scene. Senza porre tempo fra mezzo, stese le immani braccia, e fatto fascio di gente, la gittò in carcere; tutta lieta di avere trovato il bandolo, già si augurava dipanare la matassa; e che così fosse, si manifesta dalla confusione delle persone arrestate. Infatti all'Elba fummo mandati il Conte Agostini, l'Avvocato Angiolini, Carlo Bini, io, e Carlo Guitera. Incominciate le procedure, alla prima scossa di vaglio e' fu mestieri scevrare gli Ebrei dai Sammaritani. Guitera rinvenuto colpevole con altri di sètta segreta, presto ricondotto in terraferma, subì giudizio, e fu condannato con altri parecchi. A noi rimasti, per la parte della Presidenza, dichiaravano: non essersi trovato fatto capace di appuntarci; però, reputarsi minacciato il Governo, ed ogni Governo minacciato avere diritto di provvedere alla propria sicurezza; noi poi conoscere uomini di mente a lui avversa, e tanto bastargli perchè in tempi difficili dovesse assicurarsi delle nostre persone: nonostante stessimo di buona voglia, chè appena cessati i torbidi, saremmo rimandati alle nostre case.

Credete voi novella quanto io vi dico? Dei molti, che ebbi a compagni in cotesto infortunio, mi basti rammentare uno solo, l'Avvocato Generale di Cassazione, Venturi; egli non è capace di mentire, ed egli vi chiarirà se io abbia detto il vero. —

Eccomi alla quinta piaga. — Quantunque scrittori consapevoli del pericolo in cui io verso del diuturno carcere, e della colpa appostami, abbiano profferite deliberatamente a mio danno parole peggiori delle siche romane; quantunque vaghi della opera e della infamia del vile Maramaldo, essi non abbiano aborrito da ammazzare un uomo morto; quantunque io mi trovi inseguito da oscena caccia, che a cane arrabbiato non si farebbe più atroce; quantunque tremendi diritti mi desse la difesa, e sentissi anima da gittarvi nella faccia il mio sangue innocente onde fosse di maledizione nuova ed aperta a voi, ai vostri figli e ai figli dei vostri figli, pure mi rimango, e desidero tôrre ogni amarezza al mio Scritto, onde alle tante miserie della patria non si aggiunga quella suprema di presentare lo spettacolo turpe di morti che non sanno posare in pace neanche dentro il sepolcro! — Io parlo al mio Paese come davanti un Tribunale di Giurati; io non recuso a giudicarmi nessuno, nè anche i miei nemici, purchè non codardi nè venduti, nè ciechi per la smania di avvantaggiare uno Stato italiano a cui nuocciono pur troppo; questi io gli ho provati senza coscienza, come senza pietà. I generosi, comunque nemici; si rendono giustizia, ed anche questi ho provato. Nella esposizione di questa quinta piaga mi studierò non offendere persona: comprendo sarebbe stato meglio tacere; e che così credessi, lo provi avere taciuto fin qui; ma adesso il silenzio non giova più, dacchè l'Accusa pubblicava la storia da me scritta dei casi dell'8 gennaio 1848, e da me per amore di patria lasciata inedita. L'Accusa non ha voluto rispettare nemmeno il sacrifizio del mio silenzio! Uscito dal carcere di Portoferraio (il quale duole a taluno dei benevoli scrittori ricordati qui sopra che non fosse più lungo), attesi allo esercizio della mia professione con assiduità maggiore di quello che avessi fatto fino a quel punto, inducendomi a prendere questo partito lo abbandono degli amici, l'amara povertà, e poco dopo il retaggio dei miei orfani nepoti. Dio eterno! Parevami questo esercizio di virtù; e nonostante a coro sento attribuirmelo a vizio di cupidigia, di avarizia, e ad altro peggiore. E bene m'incolse essermi armato di provvidenza, perchè una angosciosa infermità mi sorprese, tenendomi travagliato, ora più, ora meno, per bene tre anni. Schivo di compagnia, chiuso, ai miei studii tutto, pervenni al 1847. In cotesto anno principiarono le Riforme, e i moti delle Riforme; vedeva i successi, e tacito considerava; non era cercato, e mi stava da parte. Allo improvviso gli emuli miei (e poi furono nemici), che fin lì avevano posto una tal quale ostentazione ad obliarmi, ecco cercarmi premurosi, e volere anzi costringermi che seco loro mi accompagnassi. Biasimo o laude che ne ridondi, questo s'intenda bene, e si riponga in mente, che altri, non io, anzi me inconsapevole e repugnante, prese ad agitare il Popolo livornese; e le prove abbondano più che non si crede, e le direi se una cosa sola non si opponesse, ed è l'alto, invincibile aborrimento che sente in sè ogni anima, che non sia fango affatto, di adoperare anche a necessaria difesa le arti usate dagli emuli miei per offesa spontanea. — Che cosa gli muovesse, e perchè? Poco importa indagarlo; il fatto sta che vennero in casa mia, mi obbligarono a vestirmi, mi presero per le braccia e pel petto, e a forza mi trassero ad arringare il Popolo nella Piazza di Arme, a forza mi trassero a Pisa. Passate le prime effervescenze, pensai, e scrissi quello di cui tenni proposito nella pagina 21 di questa Apologia. Intanto fu chiesta la Guardia Civica a Firenze, e Guardia Civica si volle immediatamente a Livorno. Mi sia permesso dirlo: il modo col quale essa venne composta in Livorno seminò la discordia nel Popolo, e fu origine di tutti i mali. Alcuni individui, certamente rispettabili, ma allora per inesperienza più che non conviene in simili congiunture imperiosi, stesero una nota di loro amici, o aderenti, disegnarono i gradi, distribuirono gli ufficii; poi recatisi al Governatore Don Neri Corsini, la fecero firmare; il Gonfaloniere Conte de Larderel costrinsero (secondo ch'egli stesso mi referì) a sottoscriverla senza pur leggerla. Di qui nacque che la Guardia Civica in Livorno sorse opera non dirò di un Partito, ma piuttosto di una consorteria, ed anzichè istrumento di concordia fosse motivo d'ingiuria da un lato, di offesa dall'altro, di litigio per tutti. Chiunque più tardi (non ora che la rabbia di parte non lo consente) si farà a dettare storie meritevoli della dignità del nome, troverà come il modo della istituzione della Guardia Civica in Livorno partorisse guai, che altri va stortamente attribuendo a cause diverse. — Ora avvenne che il Popolo escluso dalla Guardia concepisse maraviglioso rammarico, e togliendo pretesto dalla guerra imminente si facesse a domandare armi. Qui è da sapersi come parecchi cittadini, e della Guardia Civica la massima parte, opinassero dovesse il Popolo contentarsi delle ottenute Riforme, e della guerra avesse a deporre il pensiero; opinione, che, a quanto sembra, seguitò poi il conte Pellegrino Rossi, e come ottima viene in questi ultimi tempi sostenuta dal Cousin: altri all'opposto dichiaravano insufficienti le Riforme, inevitabile la guerra; e consigliare prudenza che le prime si estendessero con animo spontaneo fin dove pareva convenevole, ovviando al pericolo che il Popolo si spingesse a quel termine, e nell'impeto sregolato lo trapassasse, e alla seconda si facessero per tempo gli opportuni apparecchi. Devo per verità confessare come taluno dei Civici che procedeva allora schivo d'ingaggiare la guerra, fosse poi dei meglio animosi a combatterla, e per sagrificii di ogni maniera sofferti, e pel valore singolare dimostrato su i campi di battaglia, non si mostrasse a nessuno dei commilitoni toscani secondo. Al Governo si paravano davanti due strade: la prima consisteva nel negare le armi risolutamente, dicendo: «Le armi si domandano e si danno per due motivi, per la difesa interna od esterna dello Stato. In quanto allo interno non ci minaccia alcuno; moti contrarii alle Riforme non sono a temersi; coazioni al Governo, oltrechè non si sopporterebbero, non sarebbero giuste, come quello che volentieri è disposto di compiacere ai diritti desiderii dei Popoli. In quanto alla difesa esterna, non ci potrebbe offendere che Austria; ma avendo essa dichiarato astenersi da prendere parte nelle faccenda altrui, possiamo starcene in pace: dove poi s'intendesse dichiararle la guerra, il Governo al tutto si opporrebbe per questi motivi: — sono i soldati nostri pochi, non bene addestrati negli esercizii militari, della disciplina impazienti; i Popoli miti, repugnanti dalla guerra; e mentre di lieve momento sarebbe il soccorso nostro, troppo grande avventureremmo la posta nel giuoco periglioso, conciossiachè vincendo guadagneremmo nulla o poco, restando vinti perderemmo del tutto indipendenza e libertà.» — Io però confesso di leggieri che in tanta esaltazione di animi, cotesto partito sarebbe stato a praticarsi impossibile. Ma il Governo, procedendo nell'opposto concetto della guerra, a liberarsi da ogni improntitudine poteva dire: «Volete guerra, e guerra sia; e Dio protegga la causa migliore. Però voi tutti, che chiedete armi, nè soldati siete, nè volete diventarlo; ora, le armi sono sempre arnesi di costo grande, oggi poi pel bisogno preziose, per l'uso sante; noi sì le daremo, ma a chiunque voglia adoperarle davvero in benefizio della patria, non già a pompa vana, o ad altro uso più reo. Pertanto chi intende essere armato e vestito soldato per la Indipendenza, venga, e si arruoli per tutto il tempo che durerà la guerra. Gli arruolati saranno spediti senza indugio ai campi disegnati, onde si addestrino negli esercizii, alla soldatesca vita si accostumino, e così portino negli scontri che si apparecchiano, non solo lo ardore che fa i martiri, ma ancora la disciplina che fa i vittoriosi.» Per questo modo i millantatori avrebbero cagliato, i generosi rinvenuto la via a soddisfare gli spiriti bollenti, ai tumulti tolto il pretesto. Il Governo non seppe abbracciare speditamente alcuno di questi partiti; più tardi disse non avere potuto riporre fiducia nei toscani uomini, e ben per loro; però che la molta civiltà acquistata gli rendesse inetti al combattere;[65] parole, che fecero parere bella la stessa barbarie, avvegnadio, che cosa possa essere un Popolo incapace a rivendicare la propria independenza non sappiamo vedere, dove non sia il somaro che porta, lo schiavo che diletta, il buffone che percosso ringrazia per fare ridere il suo signore: tra i flagelli di Dio bisognerebbe allora annoverare la civiltà.

Intanto i provvedimenti del Governo parevano scarsi ed erano; la fiducia del Ministero nella vittoria, giovanile jattanza; la sfida di guerreggiare una Potenza famosa in armi, e pertinace nei propositi, con sassi e bastoni, fanciullesco vanto. Le armi promettevansi prima senza prefiggimento di tempo, poi a giorno designato e le promesse riuscivano invano; sicchè alla impazienza si aggiungeva il sospetto, al sospetto il furore, e rendevano procellosi tempi già abbastanza turbati. Sopra la fede di commissioni date e di solleciti arrivi, il Generale Sproni livornese, governatore provvisorio di Livorno, e Celso Marzucchi, assessore, promisero le armi a posta fissa più volte, e più volte, loro malgrado, mancarono. Il Popolo notte tempo circonda il Palazzo del Governo, e prorompe in contumelie bruttissime, e in minaccie: tentano ogni via per placarlo, ma il furore vince ogni riguardo; già molto era cotesto, e si temeva peggio: fatto sta, che il Popolo, occupate le porte, impediva la uscita. In tale estremo, o interrogato o spontaneo, chè io non so questo, il Popolo domanda una Commissione di cittadini, affinchè esamini se le incette delle armi sieno vere, ed essendo, ne solleciti lo invio; il conte Larderel, me, ed altri parecchi nominano membri di cotesta Commissione; se il Governo locale assentisse in quel punto ignoro, — chè io stavo giacente in letto per abituale infermità intestinale, inaspritasi, come suole, nella rigida stagione; — quello che so, è, che il Popolo impetuoso mosse in traccia del conte e di me. Percossa duramente la porta, e referitomi quello che da me si volesse, sorgo tosto in piedi, mi getto addosso una pelle, e mi sottraggo per le scale segrete; il Popolo ricusando fede ai servi, che mi dicevano assente, invade la casa, e fruga camere e sale; parte del Popolo stanziava giù nel cortile, sicchè a me era preclusa la via di uscire, nè la condizione delle vesti lo consentiva. Vedendo che il Popolo non se ne andava, e incominciando a travagliarmi il freddo, deliberai tornare in casa, dove arrivato domandai che cosa volessero da me; e uditolo, significai ai circostanti apertamente: la mia salute inferma non concedermi poterli soddisfare; e schivo di subugli, non volere che il mio nome fosse tolto per segno di opposizione al Governo. Allora essi risposero essere appunto il Governo quello che mandava per me, perchè bloccato in Palazzo non rinveniva la via di uscirne. «Se così è, soggiunsi, il Governo scriva, o invii qualche ufficiale, e potendo mi renderò alla chiamata.» Infatti, non andò guari che lo Aiutante Baldanzi venne a invitarmi per parte del Governatore di condurmi al Palazzo, ed io andai. Quivi erano il Governatore, Marzucchi assessore, Bernardi colonnello, ed altri moltissimi, i quali, se io non erro, mi parvero più che mediocremente pensosi di cotesta tempesta popolare. Salutato il Governatore, lo richiesi di quello che da me desiderasse, ed egli non senza qualche commozione rispose: «Io nulla; il Popolo è quello che la vuole.» — «Non è così, risposi; io mi mossi, dacchè ebbi il suo invito, e venni per farle piacere; stando diversamente la faccenda, permetta che io mi ritiri.» Allora egli ed altri con modi cordiali mi esposero la condizione in cui si trovavano, riusciti vuoti di effetto i tentativi per allontanare le turbe tumultuanti; e poichè sembrava che in me ponessero fiducia, mi adoperassi a sovvenirli in quel duro frangente. E con tutto il cuore lo feci. Infermo, curante il freddo che m'inacerbisce i nervi, nel mezzo di una notte d'inverno, forte soffiando il rovaio, vado sul terrazzo, e parlo in questa sentenza: «Il Popolo avere ragione delle armi tante volte promesse, e non mai consegnate, ma non avere ragione di trascorrere a vilipendii, se il mare e i venti contrarii tenevano il naviglio vettore lontano dal porto. Dio dominare gli elementi; non gli uomini. Tutto il momento della lite consistere a verificare se gli ordini per comprare fossero stati dati ed eseguiti. Questo affermare il Governo, e di questo non potersi dubitare; nonostante, la Commissione riscontrerebbe, profferendo il Governo ogni schiarimento desiderabile, e darebbe fedele ragguaglio il giorno prossimo. Per ora non rimanere altro che ritirarci nelle nostre case, obliando gli avvenimenti deplorabili della serata.»

Il giorno veniente mi condussi, per tempo, appo il Generale Sproni, al quale mi legavano vincoli di cittadinanza e di benevolenza (e come i primi non si possono, così confido che neanche i secondi siasi voluto sciogliere in questa procella), e con parole aperte gli favellai: la sera innanzi essermi mosso unicamente per aiutarlo a tôrsi dalla difficoltà nella quale versava; la mia salute, le condizioni di famiglia, il desiderio, e il bisogno di vita pacata dissuadermi da prender parte in cotesti ravvolgimenti. Ma il Governatore, a grande istanza, mi pregava a non ritirarmi dalla Commissione: stessi sicuro; del mio buon volere informerebbe il Governo; lo aiutassi a ricomporre in quiete l'agitata città. Sopraggiunse il Venturi assessore, e mi animava con simili conforti a rimanermi con loro; ogni dubbio deponessi dall'animo: «Ed io, egli dicevami, mi pregio di onestà, e tu da molti anni mi conosci; sicchè non vorrei nè potrei indurti a cosa che ti scemasse reputazione o ti arrecasse danno.» Persuaso a non dimettermi, esposi loro i miei pensieri per trovare modo che la città posasse; e prima di tutto si voleva mettere a parte della Commissione certe persone, che, da qualche tempo, procedevansi piuttosto che poco amorevoli, avverse; e così togliere a un punto le gozzaie tra spettabili cittadini, e lo esempio al Popolo della discordia.[66] — Inoltre, ad impedire il rinnuovarsi dei tumulti, appellati dimostrazioni, che precidendo ogni nervo allo Stato facevano il governo impossibile, la Commissione i desiderii del Popolo ascoltasse, e ne riferisse al Governo in forma di supplica o di petizione. Il Popolo poi avrei desiderato che non si presentasse tumultuante alla Commissione, ma col mezzo di deputati eletti a conferire. Sembravami questa medicina acconcia al male, perchè considerava come il Popolo avesse preso il costume di assembrarsi in moltitudine, ed una volta raunato, gli agitatori ci soffiavano dentro, commuovendolo a modo di venti contrarii, per cui ne usciva un domandare discorde, spesso assurdo, sempre violento. Deviare cotesta tribolazione dal Governo per attirarla addosso a noi, non sarebbe stato rimedio plausibile; lo importante stava in sopprimere affatto il subuglio. Insinuando, come io suggeriva, al Popolo di radunarsi nelle chiese per discorrere delle loro faccende, si toglieva di piazza, e questo era primieramente un bene grande; poi l'assembramento diventava minore per la capacità del luogo, lo univoco impulso era remosso, lo equilibrio di varii centri stabilito. Inoltre, la santità della chiesa avrebbe raffrenato la violenza degli atti e le disoneste parole. Molte esigenze popolari sottoposte a discussione sarebbero comparse assurde. Uomini probi in adunanza di simile sorta, avrebbero adoperati a fine lodevole l'autorità del nome, il credito della condizione, la efficacia delle parole. Gl'impronti agitatori non si sarebbero mostrati, conciossiachè sia facile a comprendersi quanta differenza corra tra aizzare il Popolo passionato e inesperto durante la notte, e sostenere una opinione alla luce del giorno con bontà di discorso. — Quando si possa chiamare la gente in parte dove sia costretta a vergognarsi delle sue enormezze, ella, se eccettui pochi perdutissimi, tace. La Commissione ancora avrebbe avuto a trattare con uomini dabbene, padri di famiglia, conduttori di negozii, per indole e per interesse amanti di riposato vivere; nè intemperanze dalla parte loro erano da temersi; in ogni caso agevole adoperare con essi gli argomenti medesimi ch'eglino avrebbero impiegato con gli altri. Insomma, intendeva convertire il tumulto in sistema regolare di petizione. Le carte perquisite fecero fede di cotesto mio concetto; il quale forse sarà stato intempestivo, ma non disacconcio; ed anzi, neppure intempestivo, dove si avverta, che contro il Popolo non si voleva, nè si sarebbe potuto, senza pericolo, ricorrere alla forza.[67] Dei due partiti, reprimere o concedere, bisogna pure valerci di uno nelle perturbazioni politiche; peggio di tutto è la inerzia, che, come non ti sottrae ai danni di chi combatte, neanche ti acquista la benignità solita praticarsi verso chi cede a tempo. In ogni caso ell'erano proposte le quali potevano accettarsi o ricusarsi, non già leggi che per me si volessero imporre. All'Autorità locale parve avessero a sospendersi, e rimasero senza effetto. — A me non giova suscitare adesso tristi memorie, nè, adoperando io quello che in altrui massimamente detesto, staccherò serpi dal capo della Discordia, per gittarli a turbare la comunanza solenne della sventura. A me basti dire, che fui vilmente calunniato, che (stupendo a narrarsi!) Livorno intero mi suscitarono contro con l'accusa di macchinati incendii, di rapine e di stragi! Ben quattromila cittadini armati vennero ad arrestare e a incatenare la bestia feroce. Predicazioni acerbissime, stampe infami, governative insanie cospirarono ad alienarmi in un punto tutta la mia patria che ho amato sempre come la pupilla degli occhi, per cui mi piacque la fama, offerendo a lei, in tributo filiale, quel poco di onore che mi veniva procurando con i miei scritti! Allora, come adesso, perfide parole mi filtravano dall'alto del carcere sopra il corpo e sull'anima come stille di pece infiammata. Allora, come adesso, smarrito ogni senso di morale, di religione e di pudore, uomini (che se ne pentiranno amaramente un giorno) si fecero cagne studiose e conte per latrare e per mordere. E adesso, come allora, la mia maladizione saprà perdonarvi.

Lo egregio uomo Scipione Bargagli, venuto Governatore a Livorno, presto si accôrse della oscena persecuzione: i miei concittadini, pieni d'inestimabile rammarico, per essersi lasciati così stupidamente ingarbugliare, domandavano ammenda della commessa ingiustizia. Alla Catilinaria era mancato il Catilina; nè Marco Tullio aveva potuto ripetere il verso famoso:

O fortunata nata, me consule, Roma!

I Giornali erano rientrati nell'otre di Ulisse. I Municipii, che simili ai montoni di Panurgo furono uditi uno dopo l'altro belare Indirizzi di congratulazioni, per la patria liberata dagli Unni, tacevano; solo si dibatteva il Partito a me avverso, e agitato da molte passioni, cresceva di violenza. Questo Partito, che aveva proceduto ardentissimo contro la Commissione, la quale si era proposta di secondare il Governo, col pretesto che creava uno Stato dentro lo Stato, adesso sorgeva tra il Governo e me; e al Governo diceva: «Guai se egli si attentasse a farmi tornare!» Da me ardiva pretendere un atto di contrizione delle colpe commesse, poi si contentava di un atto di fede, che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni tempo la mia futura condotta; altrimenti minacciava mi avrebbe fatto durare fino a dieci anni in carcere. Artificiosa era cotesta improntitudine del pari che temeraria; però che il Partito intendesse strapparmi uno scritto qualunque, che poi, interpretato con la solita carità, gli servisse a dimostrare che non senza motivo si era mosso ai miei danni. Intanto il Governo, liberati i compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole riparazione; e il Principe nel 22 marzo 1848 dichiarava, che gli atti a me obiettati si riducevano ad una preordinazione per ispingere possibilmente verso una meta, cui le sopravvenute mutazioni politiche in Italia hanno a noi permesso di pervenire senza pericolo del nostro Popolo; aggiungendo che la loro illegalità era sparita dopo che lo Statuto ne aveva assicurato il conseguimento con letizia comune del Governo e dei governati. Onoratissime parole, almeno in cotesti tempi, ma non meritate affatto, imperciocchè, come ho avvertito, le mie erano proposte da accettarsi o da ricusarsi, non già leggi da imporsi; pure tacqui, avendo promesso non suscitare imbarazzi al Governo con importuni reclami.

Forse per questo il Partito quietavasi? No. Persone non vili andavano dal Governatore Bargagli, e lo ammonivano che della quiete di Livorno non gli rispondevano, se io vi fossi comparso; e siccome il Bargagli, ormai infastidito, disse loro: «che gli ringraziava dei consigli, e che io sarei tornato ad ogni modo,» poco dopo egli si vide comparire davanti una persona vile, che minacciò mi avrebbero ucciso a furore di Popolo, se avessi posto piede a terra. Queste cose confidò poi lo egregio conte Bargagli a me e a Giovanni Bertani, ed io le riporto con la maggiore discretezza che posso, e per necessità di difesa; onde io spero ch'egli, gentilissimo com'è, non solo vorrà compatirmi, ma deplorare lo estremo in cui mi trovo di doverle rendere palesi. Alla fine il Governo spediva il piroscafo Giglio a riprendermi con onore, e venivano con esso taluni autori od esecutori del mio non degno arresto. Io gli accolsi come se mai mi avessero fatto oltraggio: arrivammo di notte; il Comandante del Porto attendevami per accompagnarmi a casa; io gli chiesi in grazia di accompagnare lui, e mi ridussi solo alla mia stanza. Gli autori del mio arresto, in parte si erano allontanati; in parte, dubitando della loro sicurezza, si tenevano nascosti; nei loro cervelli balzani già già le proscrizioni sillane attendevano. — Io fui Ministro, e non volli leggere cotesto Processo per non avere motivo di concepire rancore contro coloro che per avventura avessero deposto a mio pregiudizio. Io ebbi il potere, e lo adoperai a difendere, a beneficare, e perfino impiegare quelli che avevano cospirato a mio danno. Se motivo alcuno di ambizione mi fece desiderare il potere, fu questo: trovarmi in parte ove io avessi facoltà di mostrare quanto fossi diverso da quello che gli emuli per vizio di parte mi avevano calunniato.[68] — Prima di usare parole di obbrobrio contro di me, perchè non gittava l'Accusa uno sguardo sopra cotesto Processo? Essa avrebbe veduto che non fu grazia il Decreto del 22 marzo 1848 in quanto a me, ma benigno risguardo all'onore di un uomo atrocemente, quanto indegnamente, offeso. Essa avrebbe appreso, che non fu esatta quando le piacque designarmi come: individuo, che altre volte ha INTERESSATO la Grazia... e le Accuse quando posseggono tanta copia di carte, e di occhi, che le leggono, e di bocche, che referiscono, avrebbero l'obbligo di essere esatte.

Se l'Accusa avesse udito gli scorticatori di San Bartolommeo muovere querela contro il povero Santo per averlo scorticato, che cos'avrebb'ella detto? In verità, a me sentendo rimproverarmi le sofferte piaghe, parve essere San Bartolommeo accusato di crimenlese per non avere più pelle.....

Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi

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