Читать книгу Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 13

IX.
Esame dei §§ VI, VII, VIII dell'Atto di Accusa, e Comento alle parole del Decreto del 7 gennaio 1851: «che con mezzi riprovevoli ero giunto a impossessarmi del potere.»

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Investigando con intenzione nemica la passata mia vita, l'Accusa mi porge occasione ad esporta, fondandomi sopra Documenti e sopra la testimonianza dei miei concittadini. Reduce a Livorno, io trassi vita più solinga che prima non aveva fatto, non cruccioso, ma mesto della ingiuria patita; chè la nuova benevolenza non toglieva l'amarezza dello strazio passato:

Piaga per allentar d'arco non sana.

Gli emuli miei, vedendo tanta mansuetudine, la reputarono viltà, e tornarono più baldanzosi che mai a procedermi avversi nelle prossime elezioni, continuando nelle calunnie, che vorrei dire infami, se non fossero state ridicole.[69] Per la quale cosa schivando diventare argomento di litigio, e maledicendo in cuor mio lo infame seme della discordia, che mai non quieta nei petti umani, deliberai di un tratto abbandonare la città e ricovrarmi in qualche appartato asilo.[70] E rallegrato dall'amicizia, splendido delle bellezze della Natura e dell'Arte, io mi ebbi queto asilo nella villa di Scornio. Colà io riposava all'ombra delle antichissime piante, e leniva con gli affetti domestici, le cortesie dell'amico e i cari studii, l'animo offeso, quando lo egregio Niccolò Puccini mi avvisava come la banda cittadina avesse deliberato venire a farmi festa, e come la banda del Borgo non sembrasse disposta a patirla, correndo fra loro emulazione grande, e quasi nemica. Conobbi invidiarmi la fortuna anche cotesto ricovero, onde senza por tempo fra mezzo io mi partii, pauroso sempre che il mio nome diventasse soggetto di contesa, e mi condussi a Firenze. — Intanto accaddero le elezioni in Livorno, e quantunque sommando i voti dei quattro Collegi io ottenessi numero di gran lunga superiore a quello degli altri candidati, pure singolarmente in ogni Collegio lo ebbi minore, e non rimasi eletto. — La operosità non contrariata degli emuli conseguiva un fine per loro desideratissimo, e poichè vedevo che tanto gli soddisfaceva, anche io ne godevo. Adesso la Curia Fiorentina mi scriveva su l'Albo dei suoi Avvocati; e questa larghezza non mi ha ritolto finora, almeno credo. Più tardi l'Accademia della Crusca mi creò Accademico; ma altri pensando forse che in me si avesse a rinnuovare lo esempio di Nabuccodonosor, voglio dire che cadendo di seggio diventassi bestia, mi ha radiato dal ruolo degli Accademici. Deus dedit, Deus abstulit, fiat voluntas Dei! Intanto tre Collegi, San Frediano in Firenze, Dicomano e Rosignano, mi elessero Deputato: estratto a sorte rimasi di Rosignano; nè dal maggio in poi misi più piede in Livorno. Fra la mia patria e me, rimaneva non dirò rancore, ma un cotal poco di ruggine a cagione dei fatti del gennaio; e partendo, io la lasciava in balía degli emuli, i quali la dominavano intera con la Guardia Civica, di cui erano principali e caporioni. Correva il 22 agosto 1848, quando i destini condussero a bordo del Piroscafo l'Achille il Padre Gavazzi a Livorno. Altre volte soggiornò in Toscana. Uomo di spiriti accesissimi era egli, per professione del sacerdozio, per impeto di eloquio e per vasta corporatura potente sopra le turbe, molesto ospite al Ministero nostro. Il Ministero, che si perdeva dietro ai bruscoli e non avvertiva le travi, dapprima volle impedire lo sbarco al Barnabita tribuno; quando il Popolo lo volle in terra, gli concesse e sbarco e transito traverso Toscana per Firenze. La mattina del 23 agosto giungeva col mezzo del telegrafo cotesto Dispaccio a Livorno, e in quella mattina stessa a mezzogiorno il Padre partiva alla volta indicata. Dodici Livornesi lo accompagnavano per fargli onore. Arrivati a Signa, trovarono apparato di Guardia Civica e di Carabinieri commessi a non permettergli il passo per Firenze: andasse a Pistoia, quinci a Bologna. Con la milizia venivano ancora contadini armati. Non sembra che succedessero accoglienze oneste nè liete, conciossiachè vi fossero ingiurie e percosse ricambiate; si disse ancora di una bandiera tricolore arsa; degli accompagnatori, dieci andarono a Firenze, due proseguirono il viaggio per a Bologna col Frate. Il Popolo per queste notizie montò su le furie, ruppe il telegrafo, corse ad armarsi; il Governatore L. Guinigi relegò in Fortezza Nuova, i Dispacci governativi sorprese. Artatamente o a caso, si sparse rumore una mano di soldati muovere contro Livorno; a crescere il tumulto, le sentinelle avanzate scaricano gli schioppi; allora presero a suonare le campane a stormo, il Popolo corse ad armarsi, la Civica occupò le porte; gli Artiglieri disposero in battaglia tre pezzi di artiglieria; ma il Governatore mandava ordine nessun corpo armato s'inoltrasse contro la città, la bandiera supposta arsa tornava sventolante a Livorno, deputati spediti al Principe ne riportavano parole benigne: «Rincrescergli si dubitasse della sua fede e del suo affetto verso Livorno, del quale aveva dato sempre prove non dubbie; non avere mai avuto pensiero di mandare forze contro la città.» Pegni certi di restaurata pace erano quelli: se non che quando ormai pareva sicura, come il destino volle, ecco prorompere più tremendo motivo di guerra. Cadde in alcuni il pensiero malaugurato di dispensare fucili alla Guardia Civica attiva in Porta Murata; il Popolo minuto, che avea sempre sopportato a malincuore trovarsi escluso dalla Guardia, accorre e pretende le armi pur egli. — Una sezione di Civici muove a comporre il subuglio, e vi riusciva, quando il comandante della sezione ordinava facessero fuoco; lo fecero, e tre rimasero morti, quattro feriti, di cui uno dopo poche ore spirava. Il Popolo adesso inferocisce a mille doppii più terribile di prima; i Civici tutti correvano pericolo presentissimo di vita, se molti di loro non si nascondevano, e se l'esortazioni di sacerdoti e di spettabili cittadini non avessero placato gl'incrudeliti animi, persuadendoli a deporre ogni proponimento di privata vendetta, e aspettare il fine del processo, che ormai s'iniziava contro i colpevoli di cotesta immanità. Fu in quella occasione, che me, assente e inconsapevole, posero a formare parte di una Commissione intenta a mansuefare il Popolo e a condurlo a miti consigli,[71] e furono anche spediti uomini a posta in Firenze per far prova di menarmi a Livorno; alla quale istanza io mi ricusai, sì perchè temei la calunnia di provocare coteste turbolenze a danno del Governo, sì perchè seppi formare parte della Commissione uomini i quali io reputava largamente bastevoli di provvedere al bene della patria comune.[72] Mentre però ricusava andare, confidando nell'antica amicizia del Presidente Capponi, seco lui mi restringeva, scongiurandolo a palesarmi quali deliberazioni intendesse prendere riguardo alla mia patria; ed egli dicevami, avrebbe mandato Leone Cipriani Commissario straordinario; alla quale notizia io mi turbai e risposi: Leone Cipriani essermi amicissimo, conoscerlo uomo risoluto, capace d'immaginare od eseguire forti proponimenti, ma appunto per queste sue ottime qualità disacconcio alle parti di conciliatore. Leone Cipriani non dissimula nè sopporta uno insulto, e siccome prevedo probabilissimo che qualche oltraggio gli facciano, così riesce agevole del pari il presagio, che simile negozio non possa sortire lieto fine. — Queste cose ho voluto dire, perchè so che a Leone Cipriani furono riportate diversamente; dal 1848 in poi noi non ci siamo più visti: egli andando in California, io rimanendo prigione, forse in questo mondo noi non ci rivedremo: ma desidero che di me conservi quel buon concetto, che io (tranne la sua infelice commissione livornese) serberò, vada certo, finchè io viva, di lui. — Altre pratiche feci presso il Presidente Capponi e i suoi Colleghi per impedire la sciagura imminente; sopraggiunse S. A., ed io mi allontanai con la promessa, che se taluna delle mie proposte avessero accettato, me ne avrebbero porto avviso prima del mezzogiorno a casa. — Venne mezzogiorno; aspettai fino al tocco; allora uscii disperato di ogni buono esito delle mie premure. Incontrando il signor avvocato Menichelli, mi domandava perchè non assistessi alla Tornata straordinaria del Consiglio Generale tenuta in cotesta mattina per discutere intorno ai poteri eccezionali da conferirsi al Ministero per ridurre a partito la città di Livorno: accorsi sollecito alle Camere, ma trovai discussi e votati due Articoli della Legge del 27 agosto 1848; allora discutevasi il terzo, e se non erro, orava il Trinci.[73] Mi ritirai col cuore chiuso da funesti presentimenti. Mi sia permesso trapassare correndo sopra i casi del 2 settembre. Sangue fraterno versavasi e da mani fraterne! Dopo la scellerata battaglia, ecco come rimaneva una città floridissima, emporio unico del commercio toscano: Autorità fuggite, uffizii vuoti, Municipio disperso, cittadini trepidanti, milizie incerte del proprio destino, Fortezze rese, avventurieri audacissimi a capo del Popolo; plebe insanguinata, e orribilmente sospinta agli estremi delitti. Orribili detti si udivano, ma peggiori fatti si temevano; da per tutto affanno e paura; gl'incendii, le rapine e le stragi immaginate nel gennaio, adesso paventavano davvero. In tanto stremo, la Camera di Commercio mandava J. Moore, O. Lloyd, P. Pate e G. Nesi, a scongiurare il Ministero inviasse a Livorno Don Neri Corsini e me, per impedire la rovina della città.[74] Il Ministero rispose acerbamente, non accogliendo la istanza. Allora si volsero a Don Neri Corsini. Io non ricordo bene se questo signore non reperissero, ossiovvero si recusasse; però se lo rinvennero, ed ei rifiutò, io non lo biasimo: disperata impresa era quella di andare a gettarsi nella fossa dei leoni, e per di più, col Governo non bene disposto.[75] Finalmente, smaniosi si fecero alla mia dimora, e grandi e reiterati furono gli scongiuri perchè non consentissi che la mia patria, il luogo della mia nascita, sobbissasse; la Provvidenza apprestarmi prodigiosa occasione di potere salvarla da quei danni medesimi, che indegnissimamente l'odio di parte mi aveva imputato; afferrassi la occasione, la benevolenza degli amici mi confermassi, quella degli avversarii conquistassi, benemeritassi della Patria e della Umanità. Cotesti scongiuri bastavano, anzi erano troppi, non però vincevano le difficoltà che andavo loro esponendo: — temere grandemente ch'essi esagerassero il mio credito sul Popolo di Livorno; ignota la plebe a me, io alla plebe, e, se ricordavano, averla io provata più di una volta contraria: non sapere come venire a capo di superare gli avventurieri armati, che soffiavano in cotesto incendio: pericoloso sempre darsi in balía del Popolo commosso, insania adesso, ch'era montato in delirio. Dall'altra parte, non isperimentare il Governo benevolo, e la opera mia non pure egli non seconderebbe, ma l'avrebbe forse aborrita. — In questa condizione di cose prevedere la perdita della fama certa; forse della vita, e benefizio nessuno per la patria. — Ma per queste ragioni non si ristavano, e tanto meno consentivano lasciarmi andare, in quanto me tenevano suprema tavola nel naufragio, onde fervorosamente incalzavano: «non essere sagrifizio quello che calcola così sottile; vederlo pur troppo, covarmi riposto nell'anima il rancore contro la patria per la memoria dell'antica offesa; bene altro concetto avere essi formato di me; adesso a prova trovarmi non generoso, non magnanimo siccome mi avevano tenuto.» Non vi ha cosa al mondo che tanto mi ponga paura, quanto il sospetto che altri mi abbia a trovare inferiore alla estimazione che mi onora; non so se a caso o ad arte coteste parole adoperassero, ma certo elleno erano tali a cui non poteva e non potrò mai resistere io; però, tronco a mezzo ogni ragionamento, uscii in questo discorso, il quale sarà sempre, io non ne dubito, presente a quei Signori: — A Dio non piaccia, che io non abbia a meritarmi la vostra stima: verrò, come volete; e se mi accadrà sventura, farete testimonianza che non fui cieco nè imprudente, ma che prevedendola io mi vi sottoposi, perchè voi reputaste che per me si potesse avvantaggiare la patria. — E partimmo; fra Pisa e Livorno rovesciò la carrozza e andammo sottosopra dentro una fossa: quale più quale meno, rimanemmo ammaccati tutti. Mentre versavamo in cotesto pencolo io dissi: — questa è la prima, non la più grave delle disgrazie che mi attendono. — Venuti alla meglio in prossimità di Livorno, trovammo sentinelle avanzate che ne circondarono, e per un laberinto di barricate dopo lunga ora ci fecero pervenire nel centro della città. Sporsi il capo dallo sportello della carrozza, e vidi con apprensione non piccola, come moltissimi degli armati camminassero senza scarpe e in capelli; eravamo arrivati in fondo davvero! La mattina per tempo, consigliai uno dei due Priori rimasti a mandare inviti al Clero, ai Collegi Legale e Medico, alla Camera di Commercio, alla Guardia Civica, alla Milizia di linea, ai Possidenti e a parecchi del Popolo minuto, perchè intervenissero ad una adunanza nella sala terrena del Municipio; intanto io facevo opera perchè i buoni cittadini gli smarriti spiriti ricuperassero; mostrassero buon viso alla fortuna; si aiutassero insomma se volevano che Dio gli aiutasse;[76] pubblicai proclami, adoperando parole di lode verso il Principe per deliberato consiglio.[77] Io mi era accorto presto che la grandissima maggiorità del Paese, affezionata al Principe Costituzionale, da una parte deplorava la inettezza del Ministero che l'aveva condotta a questo estremo; dall'altra stava paurosa della plebe armata, indigente, infellonita, e dei capi che si era messi alla testa. Invero non era affare di lieve momento cotesto. Torres, che si chiamava Generale, uomo rotto ad imprese arditissime, il quale mescendosi fra il Popolo, fino dal 3 settembre si era fatto dichiarare Comandante della forza armata di Livorno, aveva costretto la Commissione di sicurezza a dimettersi; capitolò per la resa del Forte di Porta Murata;[78] seguíto da una turba di gente sinistra svillaneggiava, minacciava, incuteva terrore. A questa gente non tornava conto la pace; usa a pescare nel torbido, voleva permanente la tempesta e la provocava. — Due cose erano da farsi, e presto: dare animo alle menti sbigottite di manifestare voto solenne di volere stare congiunte alla famiglia toscana e rifuggire da ogni mutamento politico; togliere al Torres la male usurpata autorità: così veniva a spuntarsi la speranza alla turba del Torres di sopraffare la maggioranza dei cittadini con violenti partiti. Aperta la seduta, io incominciai, e lo ricordano tutti, proclamando essere intenzione universale, starci uniti alla Toscana e al Principe Costituzionale, imperciocchè volere diversamente sarebbe stato non pure empio, ma assurdo. Unanime consenso approvò la proposta, e i pochissimi che sentivano diversamente ebbero a tacere. Poi trapassando a discutere intorno alle cose necessarie per ricondurre stabilmente la pace nella città, furono con buone ragioni respinte le intemperanti richieste e ridotte a queste quattro: 1º Oblio per tutti, e di tutto. 2º Cambiamento dello Stato-maggiore e dei primi Capitani della Civica. 3º Organizzazione e armamento della Riserva. 4º Revoca dei poteri eccezionali. E finalmente fu deliberato una Deputazione di 20 Cittadini si recasse a Firenze a esporre le domande dei Livornesi al Ministero; un'altra di 12 governasse provvisoriamente la città: il comando della forza armata si confidasse all'ufficiale Ghilardi giunto in Livorno in quella stessa mattina.

Prima di proseguire nella narrativa, giovi trattenermi un momento su quelle operazioni. I due fini erano conseguíti; impedire sommosse repubblicane e violenze, remuovere il comando delle armi dal Torres. — E qui importa sapere, che il Ghilardi, come soldato agli stipendii toscani, e spedito dal Ministero Ridolfi con una colonna dei nostri alla guerra lombarda, inspirava fiducia. Le domande dei Livornesi non parevano esorbitanti, considerati i tempi, e paragonate con quelle di cui si fecero portatori nei giorni decorsi, in meno difficili congiunture, il Deputato Malenchini e il Prete Zacchi, e che pure il Ministero aveva promesso esaudire.[79] L'organizzazione e l'armamento della Riserva fu concertato per questo motivo: impossibile appariva levare le armi al Popolo; tanto era strappare i denti al leone! E le armi indisciplinate atterrivano; col partito proposto incominciava ad operarsi lo scevramento fra Popolo e plebe, piaga vergognosa di ordinata città; e amicato il primo, poteva ricorrersi alla forza per disarmare la seconda; le armi composte in mano al Popolo cessavano apparire pericolose; nei regolamenti erami avviso determinare per pena ai falli di disciplina la perdita temporaria o perpetua delle armi; pel quale ordinamento ne veniva di due cose l'una: o il Popolo si disciplinava, e meglio che mai; o non si disciplinava, e perdeva le armi. Nè mi sembrava impossibile riuscire a questo, perchè costringere la universalità a rispettare il comando, massime in tempi torbidi, è arduo, ma agire partitamente sopra i singoli diventa agevole. L'Atto di Accusa, nel § VI, riporta certe espressioni di un Manifesto che nel 25 settembre m'indirizzarono i cittadini: «È incontrastabile, che voi avete diritto alla riconoscenza dei Livornesi, ed è pure incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere ogni movimento; compite dunque l'opera, e fate deporre le armi.» Ahimè! In mano dell'Accusa le fronde di alloro diventano cipresso; non dubitate, no, che cotesto elogio ella saprà bene convertire in ronciglio, e ne trarrà la benevola conseguenza, che a senso dei miei stessi concittadini potendo io dirigere a mia posta ogni moto del Popolo, segno è certo che tutto quanto successe di reprensibile fu da me provocato, o da me non impedito; e stringendo in brevi termini, fui complice o impotente, però adesso non per peccato originale, ma per volontà![80] — O miei concittadini, il fato vuole che voi mi abbiate a nuocere e quando mi lodate e quando mi redarguite! E sì che l'Accusa doveva sapere che lo elogio non corrisponde quasi mai alla vera verità; che difficile è sempre potere ciò che si vuole, e che la fortuna del favore popolare

è color d'erba,

Che viene e va, e quei la discolora

Per cui ell'esce della terra acerba.

Ad ogni modo, in quanto alle armi, io aveva provvisto prudentemente e con partito possibile; se questo non avvenne, l'Accusa ne incolpi il Ministero, che ad ogni punto che io cuciva per rammendare i suoi strappi, mi cresceva la mercede di avversione. Necessaria mi pareva la rassegna dei poteri eccezionali, perchè essendo stati provati e riusciti male, ormai bisognava ricorrere alle provvisioni conciliatorie; e così essendo, a che convocare Popoli di Toscana a Pisa come i Sette incontro a Tebe? Perchè, desiderando che il tumulto cessasse, le cause del tumulto mantenevansi? Era, non dirò savio, ma cristiano, educare figli della famiglia medesima ad odiarsi fra loro? Lo so che fu detto, tale non essere il fine dell'adunata, e voglio crederlo: ma intanto appariva così, e le apparenze bastavano perchè effetti pessimi partorissero. — Ora proseguo la storia.

Difficile cosa era che i partiti deliberati non si disfacessero per opera degli agitatori; e la fortuna ne porse loro terribile occasione. Ad un tratto corre voce di agguati tesi ai cittadini per le campagne adiacenti, di vie solcate di polvere, di mine, di feriti, di morti. Ribollono le ire, i persuasi rompono i patti, gli agitatori si scatenano. Accorsi su la ringhiera del Palazzo Municipale, e vidi un mare di capi in tempesta, e la mia voce appunto si udiva come se io l'avessi alzata su la costiera quando vi si rompono i frangenti. Alle ore cinque circa, alcuni barrocci sboccando dalla Via Ferdinanda lenti lenti, traversano diagonalmente la Piazza di Arme piegando all'ospedale; le ruote segnavano traccia sanguinosa sopra il terreno.... portavano undici feriti nella esplosione delle polveri al Calambrone.[81] — Sorse un grido immenso: tradimento! tradimento! E gli agitatori prevalendosi del caso, con feroce consiglio, aggiungevano: anch'egli è traditore.... e mi segnavano a dito, e qui vidi numero grande di archibugi prendere la mira alla ringhiera dove io mi stava in compagnia di Ufficiali e cittadini: chiusi gli occhi, feci delle braccia croce raccomandandomi a Dio. Poco dopo mi avventurai a riguardare, e conobbi come i migliori cittadini con mani e con bastoni stornassero i fucili gridando: non fate.... non fate! — Accanto a me notai un solo Ufficiale rimasto, il maggiore Ghilardi, pallido in faccia; come io mi apparissi non so: veramente fu un tristo quarto d'ora cotesto. Tememmo in quel tempo che gente nemica questi successi apparecchiasse, onde il Popolo rompendo le deliberazioni prese, ella potesse del continuato tumulto raccogliere il mal frutto;[82] forse non era vero, e si ha a credere piuttosto che si prevalesse della occasione. Immensi sforzi usarono i buoni cittadini a placare il nuovo furore: ad ogni patto intendevano le genti prorompere fuori delle porte, e portarsi al Calambrone; si acquietavano appena su la promessa del Maggiore Ghilardi gli avrebbe egli medesimo condotti all'alba del giorno venturo. La mia opera diventava più ardua assai; tuttavolta esposi con le parole che seppi più acconce, le deliberazioni fermate la mattina, e scongiurai il Popolo ad accettarle; ma le migliaia della gente raccolta tentennavano; di tratto in tratto scoppiavano urli di rabbia: allora infervorandomi nel dire, mostrai la empietà della separazione di Livorno dalla Toscana, ricordai la fiorentina origine del Popolo livornese, il mutuo affetto di Firenze con Livorno, il motto fides dato per impresa dalla Signoria fiorentina alla mia patria in mercede della costanza e della fedeltà sue; separai la causa del Principe umanissimo da quella del Ministero; invocai la religione e lo esempio di Cristo per perdonare, e comporsi in fratellevole concordia col Governo e con la rimanente Toscana; conclusi dicendo: «porteremo le proposte vostre al Governo; dov'ei le rigettasse ritorneremo fra voi, e voi farete quello che la vostra coscienza v'ispirerà.»[83] Le mie parole toccarono il cuore degli adunati, e dichiararono contentarsene; di più promisero, sotto parola di onore della città, fino al nostro ritorno avrebbero obbedito alla Commissione governativa, posando da qualunque tumulto. Però cotesta vittoria non mi assicurava; io aveva notato fremere parecchia gente, e temeva non prorompesse; gran parte della notte spesi a blandire cuori esacerbati, a raumiliarli con parole affettuose; alla fine, estenuato, mi ridussi a casa per riposarmi qualche ora. La partenza della Commissione era appuntata alle 4 del mattino.

Appena posato il capo sul guanciale, domandano alcuni Ufficiali, a grande istanza, favellarmi: introdotti nella mia stanza da letto, conosco il Colonnello Costa Reghini, in compagnia di due Tenenti. Il Colonnello, commosso, mi diceva: «per le passate vicende, e per quelle che prevedeva imminenti, dubitare della sua vita: avere contemplata sul campo di battaglia la morte e non averla temuta, nè temerla adesso; solo stringergli il cuore un'angoscia insopportabile pei figli suoi, che paventava vittime, e soprattutto per la madre loro che giacente inferma non si dava pace, e travagliata da convulsioni lo scongiurava a sottrarre i cari capi alle furie del Popolo; invitarmi pertanto in nome della umanità a dargli un foglio di lascia passare alle porte, che certo lo avrebbero rispettato.» Inoltre aggiungeva: «Io vi propongo di mandare con essi loro uno di questi Ufficiali travestito, con lettere pel Generale Ferrari, ammonendolo, che non inoltri milizie verso Livorno, per ovviare qualunque scontro che sarebbe fatale.» Io rispondeva dichiarandomi pronto a sollevare le sue paterne ansietà, e quelle della povera madre; lodai la proposta delle lettere al Generale Ferrari; ma gli faceva osservare che la mia autorità non era tanta quanta egli immaginava; pendere attaccata ad un capello, e averlo veduto poche ore prima; per paura di un male rimoto e incerto ci guardassimo da incappare in male prossimo e sicuro. Intanto, chi dice a lui che sarà conosciuta la mia firma? Ed ancorchè la conoscano, se ravvisano i suoi figliuoli, se il generoso Ufficiale,[84] se frugandolo gli trovassero la lettera addosso, chi sa che cosa mai fantasticherebbero quei cervelli sospettosi? Se mai venissero a dubitare di tradimento.... guai a tutti noi! In mezzo a così fiera concitazione non bastarmi la mente, su quel subito, a considerare qual fosse il partito migliore; mi lasciassero un'ora tranquillo; più riposato, in breve, avrei pensato a dargli risposta. — Il Colonnello profferiva ritirarsi ad aspettare nelle prossime stanze; ma io, per fortuna, insisteva perchè partisse di casa, non mi parendo essere libero col pensiero se qualcheduno aspettava. Dieci minuti dopo la sua partenza, le porte risuonano di colpi: aperte dal servo, invade le stanze una torma di gente invelenita, e circondatomi il letto, me chiama a morte come traditore, con baionette spianate e sciabole brandite. Balzai a sedere sul letto, e domandai risoluto chi fossero — e che volessero. Nega, gridavano, che sono venuti qui poco anzi Ufficiali di linea; che cosa ci sono venuti a fare? — Voi lo sapete. — No, non lo sappiamo. — Come no? Voi lo dovete sapere, perchè dite che io sono traditore; e se temevate che fossi tale, perchè mi avete mandato a chiamare? Voi siete peggio del vento; ora vi fidate troppo, ed ora diffidate di tutto. Volete sapere che cosa sono venuti a fare cotesti Ufficiali da me? Ve lo dirò, ascoltatemi. — E qui a parte a parte narrava loro il colloquio tenuto col Colonnello Reghini.[85] — Si ritirarono confusi domandando perdono. — Da questo apprenda l'Accusa quanto sia facile il Popolo a sospettare, e come vigili inquieto anche coloro nei quali sembra riporre sconfinata fiducia.

Giunse la Deputazione a Firenze, e tenne due consulte col Ministero. Fino dal principio insorse ostacolo impreveduto, e mi sia lecito aggiungere strano, per la parte del Governo: pareva a lui indecoroso inviare le Autorità in paese sconvolto; a me all'opposto pareva, lasciamo da parte il decoro, dovere del Governo cogliere ogni occasione per impedire che il disordine aumentasse, e una floridissima città si perdesse; nè sapevo comprendere come l'ordine in paese abbandonato a sè medesimo potesse ristabilirsi. Da questo fatto erano da aspettarsi due conseguenze: o la confusione aumentava, e troppo biasimo ne veniva al Governo non avendola, come poteva, impedita con mandarvi Autorità acconcie all'uopo; o si riordinava mercè Collegio o persona extra-legale con provvedimenti di compenso, e si correva rischio che il fatto riuscisse difficile, e forse impossibile a disfarsi. Per quanto i Deputati si affaticassero a chiarire cotesto errore manifesto, non ne vennero a capo; il Ministero proponeva reggesse il Municipio, ma i due Priori municipali osservarono essere il Municipio disperso, non trovarsi in numero da deliberare secondo i regolamenti, nè sentirsi capaci da tanto. Allora il Ministero propose ne assumesse lo incarico la Camera di Commercio! ma i Deputati della Camera dimostrarono non avere attitudine, nè autorità per farlo. Dopo molti dibattiti, nei quali alternativamente fu offerto lo incarico di eleggere una Commissione governativa al Municipio, e alla Camera di Commercio, venne alla perfine stabilito che si cercasse raccogliere il Municipio onde eleggesse una Commissione per governare in assenza delle Autorità; e la sera del 6 settembre 1848 rimasero approvate le seguenti Convenzioni fra il Ministero e i 20 Deputati livornesi:

1º Oblio di tutto a tutti, militari, forestieri e cittadini.

2º Il Municipio elegga la Commissione la quale governi nell'assenza delle ordinarie Autorità, allo scopo di ricondurre la quiete, e riorganizzare la Civica provvisoria, che rimane sciolta per Decreto del Principe.

3º Sta bene, che, rientrato l'ordine, la Costituzione riprenda il suo vigore normale.[86]

Il Ministero inoltre invitava i Deputati a condursi nella notte alla Stazione della strada ferrata, dove avrebbero trovato i Dispacci convenuti, e treno speciale per tornare a Livorno; e così fu. Aperto il Dispaccio, non mi parve corrispondere con le cose stabilite, imperciocchè mi sembra che vi fosse scritto, governerebbe il Municipio autorizzato ad aggiungersi quel numero di cittadini che meglio credesse; ma i Deputati mi osservarono, che non faceva differenza. Il 7 settembre era dato ragguaglio del trattato a cinque e più mila persone, stipate sotto la ringhiera del Palazzo Municipale; la Commissione governativa era acclamata dal Popolo, a patto che la sanzionasse il Municipio, nelle persone del conte Larderel, del popolano Petracchi, e di me; ma in mezzo alle acclamazioni, sorgeva mal represso il grido di vendetta, che chiamava a morte Cipriani e Cappellini, ed io rispondeva: — vendetta essere urlo da lupi, giustizia da uomini. — E instando quella parte cui doleva la pace a gridare vendetta, replicava: — «Le famiglie degli uccisi intenteranno processo, e avranno restauro a norma delle leggi.» Non per questo la turba lasciava presa, e accennava più specialmente al Cappellini, di cui sono prossime le case alla Piazza, pruno quasi posto su gli occhi per sospingere il Popolo agli eccessi. Allora gittava questa parola audace per riabilitare il Cappellini, e confortare la milizia: «Egli è soldato, ed adempiendo gli ordini ha fatto il suo dovere.» Ma questo era troppo, e di fatti la gente incominciò a fremere, onde riputai convenevole aggiungere: — «Ebbene, se anch'egli è colpevole i Tribunali provvederanno.»[87]

Prima però che per me si esponga quello che in Livorno operai, mi giovi rammentare le difficoltà che mi circondavano. Le più gravi mi vennero dalla parte del Governo. Geloso egli che esercitassi autorità a pro del Principato Costituzionale, incomincia a bisticciare intorno alla origine e allo esercizio di cotesta autorità; nè solo rimansi a bisticciare, ma con isfrontatezza di cui le pagine più ignobili della storia parlamentaria non somministrano esempio alla ricisa le cose pattuite negò. Cotesta curiosa Accusa, che volle ficcare le mani dove non importava, e dove importava non le ha ficcate, fra le mie carte trovò l'originale della Dichiarazione emessa nel 19 settembre 1848 da ben quattordici testimoni presenti alle convenzioni, e poichè essa la stampò a pag. 52 dei suoi Documenti, anche io la stampo.

Nota di Convenzioni approvate tra il Ministero e la Deputazione Livornese.

«1. — Oblio di tutto a tutti, militari, forestieri e cittadini.

«2. — Il Municipio elegga la Commissione la quale governi nell'assenza delle ordinarie autorità allo scopo di ricondurre la quiete, e riorganizzare la Civica provvisoria, che rimane sciolta per Decreto del Principe. — La Civica riorganizzata sarà sottoposta alla sanzione del Principe.

«3. — Sta bene che rientrato l'ordine la Costituzione riprenderà il suo vigore normale.

«Noi sottoscritti Deputati della città di Livorno dichiariamo come quanto sta scritto di sopra è l'appunto di quello che rimase stabilito tra noi e il Ministero Toscano la sera del 6 settembre 1848, e si trova registrato in un foglio preso sopra la tavola del Ministero che porta in margine la intitolazione: R. Segreteria di Finanze. Il Signor Ministro Marzucchi ne fece copia di sua mano. La facoltà di eleggere la Commissione Governativa voleva dal Ministero darsi alla Camera di Commercio di Livorno, ma dietro le osservazioni del signor Benedetto Errera venne trasferita nel Municipio, e fummo licenziati con promessa che avremmo trovato il Dispaccio analogo allo appuntamento preso alla Stazione della Strada Ferrata; — ove veramente trovammo un Dispaccio chiuso diretto al Municipio di Livorno.

«Questa è la verità, null'altro che la verità.

«Livorno, 19 settembre 1848.

«Primicerio Can. Angiolo Del Sere, Sacerdote.

«Dott. Raffaello Marubini Varnacci, Presidente della Camera di Disciplina.

«Dott. Guglielmo Pensa, — Dott. G. Gavazzeni, Medici.

«Antonio Venzi, — Andrea Sgarallino, Ufficiali della Guardia Civica.

«Benedetto Errera. — Francesco Contessini, Negozianti.

«Gaetano Terrieri, — Cesare Castelli, Del Municipio.

«Felice Cordiviola, — Luigi Secchi, — Lorenzo Bargellini, — Filippo Salucci, — F. D. Guerrazzi, Cittadini

Secondo le leggi, e la pellegrina sapienza del Ministero, non doveva reggere il Municipio mercè la Commissione, ma egli stesso in suo nome; come se il Municipio, che il Ministero consentiva, fosse Autorità più costituzionale della Commissione eletta dal Municipio; come se il Ministero costituzionale potesse di proprio arbitrio, secondo ch'ei proponeva, conferire potestà governativa ad una Camera di Commercio; e finalmente, come se quando ti brucia la casa, sia tempo di tribolare chi ti porta acqua da spegnere. — Il Ministero, stretto alla Camera dei Senatori, negò la convenzione sopra trascritta, e non usò rettitudine; e tanto peggio fece, in quanto che anche l'unico Documento da lui approvato non gli giovava; imperciocchè sia vero che, rovesciate le Autorità costituite, il Municipio abbia a provvedere alla comune salvezza; ma non vero che il Ministero costituzionale, rifiutando i Magistrati alla città che li chiede, autorizzi, anzi costringa il Municipio a governare. Il Ministero poteva addurre la legge della necessità, e questa giustificava il governo tanto del Municipio quanto della Commissione eletta da lui, o non giustificava nessuno. Inoltre, il silenzio ostinato mantenuto alle mie domande, nè punto meglio instruito o consigliato il Municipio; rade anche a questo le lettere, e sempre imbarazzanti; sicchè riusciva difficile a indovinare se il riordinamento della città piacesse al Ministero o piuttosto lo turbasse. Volle la Commissione governativa abolita, e il Municipio la soppresse.[88] Il Municipio mi eleggeva Priore, aggiungendomi al Collegio; il Ministero ordinò che mi cassassero, ed io non fui neanche Priore![89] E' pare proprio che io sia destinato a non essere nulla, nè Accademico nè Priore. Allora a scanso di disgusti mossi istanza al Municipio, che con sua Deliberazione determinasse i limiti entro i quali avrei dovuto esercitare la mia autorità; ma nè anche questa fu dal geloso Ministero rispettata.[90] — L'adunata dei Civici a Pisa, la quale ormai sembrava non avere altro scopo che quello d'irritare gli animi, non volle omettere. La nuova organizzazione della Civica contrariò, comecchè instituita provvisoriamente, e da sottoporsi sempre alla sanzione del Principe.[91] La strada ferrata tardi ristabilita.[92] Gli ufficiali di Polizia, anche subalterni, negati. Con le Dogane ed altre amministrazioni, corrispondenza continua; e s'impennava perfino se dallo Uffizio della Sanità richiedevamo notizie intorno alla salute pubblica, per assicurare gli animi dei cittadini. Nel maggiore uopo nessuna somma stanziata per le spese; dalla Camera di Commercio ebbi da principio lire settemila, che portai al Municipio.[93] Io, che pure attendevo alla polizia della città, non disposi neppure di un danaro. Commissioni per provvedere all'annona, ai lavori, alla sicurezza pubblica, alle armi, soppresse. — Che più? Continue l'angustie e le sofisticherie per la Guardia Municipale, che pure era stata approvata. Le stesse provvidenze di Polizia sotto pretesto d'illegalità riprendevansi, e per ismania di biasimare il Ministro o non curava o dissimulava sapere le leggi.[94] Le leggi tacevano; dei Magistrati la più parte lontani; alcuni però, aborrito cotesto esempio, magnanimamente al posto loro; fra i quali a causa di onore ricordo Francesco Billi presidente del Tribunale di Prima Istanza. Popolo vivente alla giornata, povero e instigato a guardare con cupidi occhi la roba altrui. Eccitamenti alla repubblica dentro e fuori, che le notizie delle rivoluzioni ora di Ungheria, ora di Vienna, ora di altri paesi germanici, una dietro l'altra si succedevano come colpi di ariete ad atterrare un muro già crollato. La notizia di occupazione dei Piemontesi aspreggiava gli animi, dubbiosi più che mai, che le assicurazioni di pace fossero tranelli per coglierli alla sprovvista. Questi, ed altri molti, furono i travagli che mi circondavano, ai quali ripensando forza è che confessi, come senza lo aiuto di Dio non sarei potuto uscire a bene da cotesto inviluppo.

Intanto le barricate si disfacevano; ogni traccia di perturbamento remossa; Commissioni di lavori, di beneficenza, di annona, di armi, di sicurezza instituivansi; prestanti cittadini, messi da parte i proprii negozii, notte e giorno alacremente attendevano a prevenire delitti; preghiere pubbliche bandivansi; feste per distrarre il Popolo si provocavano, distribuzioni di 30,000 e di 50,000 libbre di pane al giorno sì facevano; i lavori interrotti proseguivansi, nuovi ordinavansi, si attendeva ad organizzare le Guardie Civica e Municipale; l'esplosione delle armi, i canti sediziosi, i giuochi perfino, peste della gioventù, si vietavano; i cittadini guardavano i cittadini, e (stupendo a dirsi) la delazione fin lì reputata infame, poichè spontanea adesso, e aperta, e in pro del bene comune, si faceva come pubblico ufficio; ai sospetti rinascenti io provvedeva accogliendoli tutti, e profferendomi così di notte come di giorno pronto a verificarli da me stesso: ora temevano di polveri e di armi alla bruna sottratte di Porta Murata per via marina; ora di assalti improvvisi; erano perfidi soffii su fuoco latente onde tornassero a divampare le fiamme. Di quieto in piccola compagnia andavo a perlustrare, e sempre tornavamo con la prova, che a fine iniquo abusavano della popolare credulità; liti domestiche componevamo, e negozii contenziosi e vecchie discordie; in un mese la città sciolta da ogni freno, o piuttosto da sè stessa frenata, contò cinque ferimenti e ventun furto, pel valore cumulato di lire 1112, numero di gran lunga inferiore a quello di ogni altro mese antecedente; le carceri rimasero parecchi giorni vuote.[95] La stampa, finchè io stetti a Livorno, reverente al Principe; in ogni occasione lodato e raccomandato allo amore del Popolo.[96] E dello stesso Presidente Capponi discorso con ossequio.[97] Città insomma non pure ordinata a riposato vivere civile, ma disposta a ricevere le Autorità governative, che richiedeva fiduciarie del Governo e di sè. — Lascio della stampa della Capitale a me avversa: se raggranellata una masnada di grassatori, avessi a capo di quella rotte le strade, io penso che non si sarebbe avvisata vituperarmi con obbrobrii sì spessi, nè sì abbominevoli. La opera mia era compita, nè il provvisorio poteva prolungarsi senza danno dello Stato, della città e mio; nel 28 settembre, piegando finalmente alle domande giustissime del Gonfaloniere, e per soddisfare le premure di alcuni cittadini livornesi,[98] il Governo mandava a Livorno il sig. cav. Ferdinando Tartini. Il Gonfaloniere e i Cittadini aggiunti al Municipio avevano fatto stampare un Manifesto, per disporre il Popolo a riceverlo gratamente, quando vennero avvertiti che il Manifesto sarebbe sfregiato; non essere persona di fiducia del Popolo il cav. Tartini. La repugnanza del Popolo persuase il Gonfaloniere e il primo Priore a muovere per Firenze onde trattenere il Governatore eletto; ma essendo occorsi in lui alla Stazione della strada ferrata di Livorno, gli esponevano che la sua presenza avrebbe cagionato tumulto. Mandarono per me, ed io, per verità, confermai lo esposto dai prelodati signori Gonfaloniere e Priore; ma aggiunsi cosa, che il sig. cav. Tartini dimenticò forse scrivendo il Rapporto dell'avvenimento, e fu, che io mi proffersi accompagnarlo, e difenderlo con la mia stessa persona.[99] Rinviati il Gonfaloniere e il primo Priore in città ad assicurarsi meglio dello spirito pubblico, rimasi col sig. cav. Tartini: dopo lunga ora tornarono il Gonfaloniere e il Priore, e nuovamente gli dichiararono inevitabile la sommossa, dov'egli si fosse inoltrato. — Per questo successo le cose si facevano più torbide che mai; le relazioni officiali con Firenze si dichiaravano interrotte. — In questa Giuseppe Montanelli tornava d'Inspruck: appena messo piede nel Parlamento, propose un ordine del giorno universalmente approvato, col quale si persuadeva al Governo di sopire i dissidii livornesi, restituendo le Autorità governative al travagliato paese; nel tempo stesso egli mi scriveva lettera con la quale confortavami a governare Livorno: di questo facessero istanza il Municipio e la Camera di Commercio; egli avrebbe appoggiato la domanda.[100] Il Municipio e la Camera partivano per Firenze, ma non ottenevano lo intento;[101] invece il Ministero proponeva loro Montanelli per Governatore; ed essi accettavanlo.[102] Allora egli scrivevami di nuovo adducendo le ragioni per le quali non aveva potuto ricusare.[103] Appena io ebbi udito questo, malgrado che il Municipio e la Camera di Commercio instassero fervorosamente a rimanermi, non lo aspettai; ma pubblicato un Manifesto,[104] col quale invitava i miei concittadini a ricevere con lieto animo il Governatore inviato dal Ministero Toscano, mi partiva, ritornando a Firenze, sazio dei passati travagli, senza disegno, come senza voglia di uscire più mai dai riposi della vita privata.

Io partiva, privo perfino del conforto di una parola amica per la parte del Governo; e sì che avevo corso pericoli presentissimi di vita, durato fatiche inestimabili, ricondotta alla devozione della Monarchia Costituzionale una città agitata da violenti passioni e istigazioni perverse, inferocita per fresca strage, commossa dallo sfracellarsi della massima parte degli Stati di Europa, flagellata da un lato dalle furie dell'anarchia, dall'altra tratta pei capelli dai partigiani della repubblica. Non importa; mi bastò allora, e mi basterà sempre la benevolenza degli amici, e la stima degli stessi emuli. — Sorga adesso pertanto la religione dei miei concittadini tutti, così amici come emuli, ed anche nemici, se io pur ne ho nella dolce terra che mi diè vita, e dica se composi o sconvolsi la patria mia, e mi salvi dalla disonesta persecuzione dell'Accusa!

Ma che dico io, sorga? Ella sorse, ed in cotesti tempi Municipio, Collegio dei Curiali e Camera di Commercio grazie amplissime mi profferivano; e privati cittadini, per farmi scolpire marmorea immagine in pubblica testimonianza di onore, si collettavano.[105] Non sembra ella strana cosa all'Accusa, che i livornesi uomini per siffatto modo gratificassero colui che ne turbava la quiete, ne ingiuriava i commerci, di scandali empiva la patria terra e di sangue? Qual consiglio, o qual coscienza persuade l'Accusa a desumere le sue infelici imputazioni dalle calunnie di sciagurati e dalle voci sparse da lingue appassionate e dolose? I cittadini miei, che convivendo meco, vigilandomi al fianco, le opere mie di ora in ora contemplavano e soccorrevano, non par egli al senno e anche al pudore dell'Accusa che dovessero, come testimoni più degni di fede, preferirsi a tutti altri? — E sì, e sì che anche l'Accusa, fra i suoi Documenti, raccolse una carta da lei intitolata: Indirizzo dei Livornesi a Guerrazzi, nella quale si leggono le seguenti parole:

«Signore. È incontrastabile che voi avete diritto alla riconoscenza di tutta Livorno; ed è pure incontrastabile che con la vostra influenza ne potete dirigere ogni movimento. Compite dunque l'opera, e fate deporre le armi. Lo Stato nostro è unico, ed il Popolo armato vuol dire ribellione permanente; ciò non è naturale che deva durare, perchè il firmamento stesso, se non fosse ordinato, si disfarebbe. La parte essenziale della popolazione non rientra di certo fino al compimento di questo voto universale, ed è un voto di fiducia in voi, che tutti oggi ammiriamo ed amiamo, pregandovi caldamente ec. — Livorno. — Signor Avv. F. D. Guerrazzi aggiunto al Municipio di Livorno. — I Livornesi, che aveste amici sempre, e quei pure che lo sono, e lo saranno da ora in poi per sempre.»[106]

All'Accusa, e in altri parte l'ho avvertito, bastò il cuore per convertire questo voto, che forma una delle poche consolazioni dei miei non degni martirii, in offesa nemica, e disse: Vedete, per confessione dei vostri stessi concittadini, voi volgevate e rivolgevate a senno vostro Livorno; dunque tutto quanto successe e' fu per colpa vostra.... — Siffatti argomenti vincono qualunque pazienza, — il pensiero sbigottisce. — cascano le braccia....

E l'Accusa eziandio riporta la minuta di lettera da me indirizzata al Municipio, che bene a ragione io qualifico sfogo. Certo, quando basta la coscienza per insultare con turpe oltraggio un uomo come doppio di cuore a pravo intento, quando si nega pudore, probità, gentilezza, tutto infine si nega, e la mano non trema nel mettere me — a stregua di un vile paltoniere, che visse, se pure può dirsi visse, 51 anno addietro.... queste dimostrazioni di animo non solo non si credono, ma si scherniscono. Diversamente poi giudica la coscienza pubblica, ed a questa volgendomi domando se, perturbatore io dei moti di Livorno, avrei potuto, senza fasciarmi la sfrontata faccia di bronzo, scrivere e mandare le seguenti parole al Magistrato della mia città, compagno, testimone e aiutatore delle opere mie, per ridurla da tutto sconvolta per cittadina battaglia, in comportabile assetto!

«Signori ed amici onorandissimi,

«Voi sapete, che quattro volte chiamato dalla Commissione, dal Municipio e dalla Camera di Commercio, mi astenni dal venire in Livorno, parendomi che la città nostra contenesse copia di ottimi cittadini capaci di condurla traverso ogni più duro caso. Non potei resistere alla ultima, imperciocchè avrei dimostrato ostinazione somma e poco affetto a chi mi ama.

«Pertanto io venni e feci il mio dovere; null'altro più che il mio dovere. Esaminando lo stato della città, mi parve che la sua commozione derivasse da un subito esasperamento per ingiuria che il Popolo reputava aver patita. Mi persuasi di due cose importantissime: la prima che durava perenne l'amore per il Principe costituzionale; la seconda che di Comunismo e Socialismo il Popolo non sapeva nè anche il nome. Ciò posto, e l'evento dimostrò che non mi ingannai, mi parve facile ridurre Livorno in quiete, e Dio aiutando, e gli egregi cittadini suoi, vi fu ridotto.

«Ma Livorno non ha mestiero soltanto di quiete, ha ben bisogno di sollecito e vigoroso riordinamento. La prima cosa derivava da credito e da mutua benevolenza, e presto venne conseguita. La seconda poi ha da emanare dall'azione governativa energica, unisona, libera, secondo la gravità dei casi, in tutti i suoi moti.

«Mancava una guardia di Polizia, e fu creata.

«Mancavano Magistrati di sicurezza, e furono istituiti.

«Mancavano opere pei braccianti, e procurammo che una Commissione le apparecchiasse.

«Mancavano denari al Municipio, e pensammo a una Commissione che li provvedesse.

«Insomma, onde io non vi trattenga in troppo lunghe parole, fu provveduto a tutto, per quanto un volere fermo a procurare il pubblico bene può suggerire.

«Ma al Governo molte cose increbbero, e bisognò disfarle: così perdemmo il benefizio delle nuove istituzioni, e delle vecchie non ci potemmo valere, perchè guasti gli ordini, gli impiegati assenti, manchevoli i denari.

«Se il Governo aveva per iscopo renderci impotenti, egli lo ha conseguito; se intendeva che noi riordinassimo la città, non ha adoprato gli argomenti necessarii.

«Ora questo stato di cose non può durare, perchè il disordine diverrebbe malattia cronica, e la mia coscienza non mi permette autorizzare con la persona un sistema che reputo rovina dello Stato.

«Inoltre io comprendo essere inviso al Ministero, e non è possibile che procedano vigorosamente insieme uomini tra i quali il sospetto si e insinuato. Io da più parti ho notizia piena, che il Ministero mi reputa autore dei casi di Livorno: quanto sia giusta questa supposizione lascio considerarlo a Voi; ma nonostante egli nutre simile sentimento, e mi parrebbe vergogna scendere a giustificazioni.

«Aggiungete ancora che il mio congedo dalla Camera domani o domani l'altro spira. A me tarda andare alle Camere e render conto alla Nazione del mio operato. Vedremo se mi condannerà o mi approverà.

«Io però nè posso nè devo lasciarvi all'improvviso: sarebbe un tradire la benevolenza vostra, e la fiducia che avete in me riposta, ma lo faccio per avvertirvi che o V. S. poniate l'occhio in persona che possa surrogarmi nel posto che adesso occupo, o avvisiate il Governo che mandi l'Autorità con capacità e attribuzioni di governare. I tempi si apparecchiano neri, perchè io temo la minaccia del Cholera, la fame prossima che è qualche cosa peggio di minaccia, le finanze esauste, il malcontento dello imprestito coatto, le armi straniere, sieno pure piemontesi, introdotte in Toscana, e soprattutto temo ogni autorità caduta, ogni vincolo sciolto, perpetuato il disordine, e il tremendo ribollire dei bassi fondi della società.

«Io vorrei essere falso profeta, ma vi ripeto che dolorose vicende si accostano. Non che io mi reputi da tanto da riparare al flagello di Dio; ma richiesto da voi, mi era offerto a fare quanto è possibile all'uomo pel bene del proprio paese: lascio la ingiuria, lo insulto e lo avvilimento, — queste cose non mi toccano; — ma il sospetto in cui sono tenuto mi toglie adito a imprendere qualunque provvedimento.

«Considerate questa lettera come uno sfogo, perchè il mio cuore trabocca, e in ogni evento, per quel poco che valgo, tenetemi per amico, fratello, o quale altra cosa più caramente a Voi congiunta vi piaccia. Addio.»

E il Municipio nell'8 ottobre 1848 mi rispondeva:

«Comunità di Livorno.

«Dal Palazzo Pubblico, li 8 ottobre 1848.

«Illustrissimo Signore,

«La Civica Magistratura di Livorno riconoscente delle molte cose, che V. S. Ill. ha operato isolatamente, ed in unione della medesima per il riordinamento di questa Città, nella sua seduta del dì 6 corrente ha deliberato un Voto di ringraziamento, e mi ha conferito l'onorevole incarico di parteciparglielo, siccome faccio con il presente foglio, protestando i puri sentimenti di riconoscenza, non tanto per la detta efficace cooperazione, quanto per la saggia instituzione della Guardia Municipale, di cui la Città tutta è alla S. V. Illustrissima intieramente obbligata.

«Profitto di questa fortunata occasione per professarle la mia alta stima e rispetto, dichiarandomi

«Di V. S. Illustr.

«Dev. Servo

«Avv. Luigi Fabbri Gonf

La città universa qualche giorno prima mi compartiva i lieti onori, che l'Accusa ha saputo tornare in tristi lutti.

«Al nostro concittadino F.-D. Guerrazzi, Deputato al Consiglio Generale Toscano.

«Concittadino!

«Vostra mercè Livorno, questa città, che è vivace per giovinezza di età, lo che è un pregio, non irrequieta, e turbulenta per effetto di malo costume, ha sostenuto dignitosamente durissime prove.

«Vostra mercè il Popolo illuminato sulla giustizia del chiedere, ha con inalterabile fermezza tranquillamente aspettato ciò ch'era giustizia concedergli.

«Vostra mercè infine, utili quanto opportune disposizioni governative hanno mantenuto fra noi come supremi e insperati vantaggi l'ordine interno, la sicurezza pubblica, la libertà delle industrie, la prosperità dei commerci.

«E tuttociò in un tempo in cui il Governo superiore, passionatamente reagendo, credeva che anarchici fossimo e ostinatamente e disordinatamente ribelli. Onde finiva coll'abbandonarci a noi stessi... Fatalissimo errore!!!

«Dopo aver compiuto l'altissimo ufficio, ecco che già tornaste là dove la vostra voce come rappresentante del Popolo è organo de' suoi diritti, è oracolo delle sue libertà. Tale modesto contegno, come vale meglio di ogni altro argomento a uccidere la calunnia o l'invidia, quando percuotervi osassero, svela sempre meglio la grandezza dell'animo vostro. Voi col fatto approvate quel detto di Catone, il più grande degli antichi Romani, quando condolendosi alcuno con esso lui perchè i suoi concittadini non gli avessero posto una statua nel Campidoglio, rispose: essere meglio meritare un onore che conseguirlo, meruisse satis.

«Ciò però non toglie a noi Livornesi un debito sacro, ch'è quello di offrirvi pubblico e solenne attestato di patria riconoscenza. Accoglietelo, illustre Concittadino, come parola di ringraziamento, come pegno di confidenza non peritura in noi per voi, come senso di sincera stima e perenne affezione.

«Livorno, 5 ottobre 1848.

«I Vostri Concittadini.»

Il Collegio amplissimo dei Negozianti livornesi, poco uso a lasciarsi andare dietro le immagini false delle cose; per indole e per costume studioso a ben calcolare i fatti e i detti; quasi per me vinta la natura, mi mandava splendida testimonianza di affetto:

«Cittadino Ministro.

«A Voi piacque mostrarvi grato insieme agli onorandissimi Colleghi vostri, verso i Negozianti di questa Piazza, per quanto essi hanno fatto a pro del Governo, e non fecero se non quello che era debito di ogni leale cittadino. A loro posta i Negozianti di Livorno vogliono mostrarsi grati verso di voi, e ben più a ragione.

«Il modo come già sapeste ricomporre l'ordine, e donare la tranquillità al nostro paese indispensabili pella prosperità del commercio e delle industrie, l'alacrità vostra istancabile, il senno col quale scioglieste animoso complicati problemi della Politica contemporanea, e finalmente il sagrifizio per cui non risparmiate veglie, patimenti, e disagi a pro nostro, vi hanno ormai collocato fra gli uomini i più benemeriti della Patria, e la riconoscenza delle popolazioni, poste sotto il vostro Governo, è divenuta per tutti un debito sacro. Noi sottoscritti ci affrettiamo a dimostrarvela intiera, e queste nostre espressioni saranno in ogni occorrenza confermate dai fatti, perchè convinti che Voi al Ministero formerete e consoliderete la felicità della Toscana Famiglia.» — (Monitore Toscano del 15 dicembre.)

Nè, come per sè stesso poco è vago di parole il Commercio, così egli si era rimasto a dimostrarmi la sua benevolenza con vuoto suono di favella, chè mi aveva profferto largamente qualunque somma pei bisogni della patria avessi riputata necessaria; ed anzi, miracolo nuovo del secolo avaro, ricusavano ostinati lo interesse del sei per cento sul danaro, chiamandosi del solo quattro contentissimi.

«Carissimo Amico

«T'includo lettera Zocchi: prendi nota, e raccomandalo. La lettera sta per giustificazione.

«Il Commercio soddisfatto di noi mi fa sapere mediante alcuni miei amici che se vogliamo 50 o 60 mila lire ce le darà.

«Altra buona nuova: i sovventori delle 30 o 40 mila lire, ricusano il sei e vogliono il quattro. Coraggio dunque e avanti. Partecipa queste buone notizie alle E. LL.; io le farò mettere nel Giornale. Fa fare la deliberazione per emettere pagherò, e mandamene uno di lire 15 mila, sei mesi data, che ti porterò in giornata il danaro. Attivate lavori; la città sia in festa, e chi ci vuole male, male si abbia. Addio.

«27 settembre 1848.

«Firmato: F. D. Guerrazzi.

«P. S. Firma e manda le accluse.

«All'Illmo. sig. Avv. Luigi Fabbri Gonfaloniere di Livorno.»

E la Curia Livornese, che sempre mi tornerà nella mente grata ed onorata memoria, all'antico confratello si compiacque tributare alcuna parola di lode, che gli tempera di alcun poco il fiele di cui adesso lo abbevera l'Accusa.

«Cittadino Ministro,

«Interpreti dei sentimenti della Curia e della Camera di Disciplina di Livorno, noi vi rechiamo le congratulazioni loro per lo inalzamento vostro al Ministero. E l'una e l'altra, orgogliose di avervi avuto nel proprio seno, hanno sentito con gioia che il Principe ha reso giustizia ai vostri meriti e li ha ricompensati con la sua fiducia. In questo avvenimento, esse hanno considerato, non il vantaggio Vostro, non il lustro che proviene dalla carica, ma sì il vantaggio della Patria, il bisogno che ella ha di Voi e la gloria che saprete guadagnare in servirla. Epperò, come di un avvenimento felice, hanno creduto loro debito di rallegrarsene con Voi, come se ne erano prime rallegrate seco stesse.

«E certe che il mezzo onde più degnamente onorarvi e meglio incontrare il Vostro gradimento quello è di porgervi nuova occasione a ben meritare della Patria, esse hanno voluto che vi fosse fatto manifesto e subordinato e raccomandato un loro desiderio, sorto al seguito delle nobili parole proferite nella mattina del dì undici stante dal Regio Procuratore di Livorno, ed inspirato loro dall'amore ardentissimo che nutrono verso la terra natale e la scienza.»

L'Accusa (parmi sentirla) considerate tutte queste carte esclamerà: «Le sono giunterie di chi ha perfido il cuore per andare a' versi di chi tiene il timone dello Stato e buscarsi un po' di croce o una pensione...., o piuttosto schifezze di gente sprofondata nella sozzura della servitù.... non furono uditi gli schiavi salutare Claudio, quando andavano a sgozzarsi, per tenerlo un po' sollevato? — Ed anche, chi sa, che tutti i lodatori non fossero stati, di presente sieno, e saranno di generazione in generazione perfidi quanto il lodato!»

O dignitosa Accusa, sii, ti scongiuro, cortese a notare, come la ode e i danari i concittadini miei mi profferissero assai più mentre io stava lontano dal Ministero e dalle sue speranze, che dopo; nè l'abiezione è naturale peccato nella città che mi diè viti.

Motivi dello studio da me posto nello evitare il Montanelli erano due; il primo, per un tal quale risentimento che nutriva contro di lui, essendomisi scoperto anch'egli contrario nei casi del trascorso gennaio, sopportando che stampassero gravi cose a mio carico nel suo Giornale La Italia; il secondo, perchè ognuno portasse il merito delle opere sue, e quando mai egli fosse riuscito a male, non si dicesse, che per libidine del medesimo officio io lo avessi attraversato.

Venne il Governatore Montanelli, e il primo atto del suo maestrato fu proclamare solennemente la Costituente italiana. Lo incolpa l'Accusa avere tradito il mandato così operando. Io non devo assumere la difesa del signor Montanelli: pure, per un senso di convenienza e di giustizia, forza è che dichiari parermi questa imputazione assurda. Montanelli giungeva in Livorno il giorno 7 ottobre, e il giorno 8 manifestava al Pubblico il suo disegno; ora non è verosimile che col primo suo atto, poche ore dopo la sua elezione, volesse così apertamente contrariare il Ministero che lo aveva creato. Inoltre il Ministero non lo disapprovò mai ora nè poi; ancora egli rimase, come prima, amico del Capponi, e il Capponi di lui, e queste siffatte paionmi gherminelle da guastare ogni più salda amicizia. Finalmente nella seduta del Consiglio Generale del 31 gennaio 1849,[107] egli con risentite parole si esprimeva così: «Fu detto che io proclamando la Costituente a Livorno tradiva il mandato che mi era stato affidato dal Ministero. Quando le accuse cadono su persona privata io le disprezzo...; ma quando cadono su persona pubblica è dovere smentirle. Ora, Signori, io dirò, che prima di andare a Livorno manifestai qual era il mio programma. Il capo del Ministero, il venerabile Gino Capponi può rendere testimonianza di questa mia schiettezza. Io gli diceva come credessi la Costituente solo rimedio alla divisione degli animi, bandiera sola di nazionalità. Io diceva, che se fossi andato a Livorno ove mi richiamava l'acclamazione del Popolo, non avrei potuto non manifestare questo mio programma; ed il Presidente del Consiglio al quale faceva queste dichiarazioni, mi rispondeva: andassi, facessi quello che la coscienza m'inspirava. Qui sono persone che possono testimoniarlo. Così rispondo a queste indegne accuse che mi pesano sul cuore.»

A sostenere queste cose in modo siffatto, in occasione tanto solenne, quando non fossero vere, si vorrebbe avere faccia di granito nero; nè la impudentissima audacia gli avrebbe bastato, avvegnachè alle sue parole si trovassero presenti tre Ministri, i signori Mazzei, Samminiatelli e Marzucchi, i quali lo avrebbero certamente (se bugiardo) smentito; e supposto ancora ch'eglino avessero per peritanza su quel subito taciuto, soccorreva la stampa liberissima per protestare contro la calunnia.

Adesso poi protestare contro allo esule sarebbe non pur facile, ma meritorio; e nonostante si tacciono....

Finalmente l'Accusa, a pagina 899 dei Documenti, riporta questa risposta di Giuseppe Montanelli al signor Massari. «È menzogna che io, nominato Governatore a Livorno, ritorcessi il mandato contro chi me lo aveva dato. La mia condotta fu conforme alle spiegazioni avute col Ministero e col Granduca. Quando avrò fatto conoscere i precedenti di quella nomina, si vedrà la delicatezza estrema con la quale procedei prima di accettare quel difficile incarico, di cui previdi e dimostrai tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate.» Ma io che conosco a prova come le Accuse tutte in generale, e la mia in particolare, troppo meglio del popolo ebreo meritino il titolo di dura cervice, neanche a ciò mi rimango, e per chiarire l'Accusa che bisogna andare adagio ai ma' passi, le dirò, che io possiedo nelle mie mani, e gliela porrò negli atti del processo, proprio la minuta del Proclama del signor Montanelli ai Livornesi, letto ai signori Capponi, Giorgini e Samminiatelli prima ch'ei partisse per Livorno, emendato, a dettatura di uno di loro, nella frase: «Le condizioni che proponeste alla vostra riconciliazione col Potere;» cui con evidente convenienza surrogò quest'altra: «i desiderii che esponeste al Potere.» Donde, per conseguenza inesorata, deriva che tutte le altre espressioni di quel Programma, su le quali l'Accusa perfidia con malevola sofisticheria, come quello che furono lasciate stare, o non contengano tutta la nicotina che immagina, o, se venefiche sono, ne abbia a chiedere conto principalmente a coloro ai quali incombeva l'alto ufficio di sopprimerle, e non le soppressero. — Però io metto l'alternativa, così per guisa di discorso, che so troppo bene essere parole innocentissime coteste, e so eziandio, che, ora che io gliel'ho detto, l'Accusa anch'essa quasi le reputa tali.

A me rincresce supporre che il Ministero scegliesse piuttosto dannarsi col Montanelli che salvarsi con me:[108] almeno per quanto concerne Gino Capponi, che un giorno fu amico! Io credo che questo personaggio, speculatore arguto delle vicende politiche, e per genio studioso non solo delle passate storie, ma eziandio di quanto accade alla giornata, avesse considerato, come dal corso impetuoso che precipitava la più parte di Europa alle forme repubblicane, lo Stato nostro, per le sue condizioni altra volta discorse, sarebbesi trovato stravolto nel turbinío prodigioso a modo di una foglia secca; e però la Costituente montanelliana accettasse, come quella che gli dava comodo a soffermarsi sul pendío, e stare a vedere dove le mondiali sorti piegassero, onde preservare il paese da moti ciechi e irreparabili. Queste speculazioni poi o non sa fare l'Accusa, e dimostra la incapacità sua a giudicare dei negozii politici; o sapendole fare non le ha fatte, e dimostra la stemperatezza con la quale procede a immaginare colpe là dove i tempi grossi persuadevano provvedimenti straordinarii.

Comunque sia, io mi chiamo estraneo al bando della Costituente. Il Ministero Capponi si dimetteva, e doveva costituzionalmente dimettersi, perchè la sua Legge intorno alle adunanze politiche gli era stata mutata affatto dalla Commissione. Altre cause concorsero senza dubbio, come suole avvenire in qualsivoglia altra rassegna ministeriale, ma la causa parlamentaria fu quella. In Inghilterra, a modo di esempio, è regola di Parlamento, che il Ministero non si dimetta mai dall'ufficio apparentemente per motivi di politica esterna, e non pertanto questi motivi determinano spesso la sua renunzia. Allora si promuove qualche incidente di politica interna, e da quello si ricava argomento per rassegnare i portafogli. Questa pratica, c'insegnano i pubblicisti, è dovuta all'orgoglio inglese, che non consente confessare che le faccende altrui possano avere virtù di sconcertare le proprie. Narra l'Accusa, ed è vero, che in varie città della Toscana (essa rammenta Livorno, Arezzo e Lucca) avvennero manifestazioni, affinchè S. A., Montanelli e me chiamasse al Ministero. S. A. però, secondo che ne corse fama, commetteva lo incarico di comporre il Ministero al barone Bettino Ricasoli, il quale dopo varii tentativi rassegnò al Principe il mandato. Però ella è cosa sopra modo notabile, e dall'Accusa punto avvertita, come i Toscani prendessero a commuoversi fieramente allora soltanto che corse pubblica la fama avere S. A. incumbensato il Barone Bettino Ricasoli a comporre un Ministero. Ora predicava la gente, e voglio credere a torto, il Barone zelasse caldissimo per le parti di Carlo Alberto; nel quale concetto veniva per avventura confermata dal piemonteggiare, che pareva allora soverchio, del giornale La Patria, mantenuto a sue spese; e dalla presenza di 3, o 4000 (che io non bene ricordo il numero) soldati sardi in Toscana. Nel falso immaginare, il Popolo temeva che il Principe non desse dentro in qualche tranello, e il suo commuoversi non mirò già a comporgli un Ministero, sibbene a salvarlo da quello che reputava rovina. Di questo l'Accusa, se avesse voluto, poteva raccogliere copia di prove: a me non è lecito farlo: solo mi basti dimostrare che in Livorno il Popolo si acquietò, quando seppe non anche composto il Ministero: «Atteso una lettera che assicura non essere ancora composto il nuovo Ministero, e in seguito di un discorso analogo del Governatore, il Popolo ha riaperto le porte, e se ne andò nell'aspettativa che i suoi voti sieno adempiti.»[109]

Fallito il disegno del Ministero Ricasoli, si chiamava il Governatore di Livorno a Firenze. Il signor Montanelli, giunto alla Capitale, nè venne a cercarmi, nè si concertò meco, ed invano si sforzerebbe provarlo l'Accusa, e non lo tenta nemmeno. Una Deputazione della Guardia Civica si presentò al Principe per supplicarlo a incaricare il signor Montanelli per la formazione del Ministero. Grande fu la mia maraviglia quando leggeva il Dispaccio telegrafico del 22 ottobre 1848, del signor Montanelli, annunziatore della mia partecipazione al Ministero; e maggiore quando egli improvviso, per la prima volta dopo il suo ritorno da Inspruck, circondato da numerosa e onorevole comitiva, mi si presentava davanti per confermarmelo a voce.

Qui importa notare come l'Accusa ritenga con molta persistenza una cosa, quasi tornasse a sommo disdoro del signor Montanelli e mio, ed è: che quantunque egli assicurasse una Deputazione di cittadini di tenermi lontano dal Potere, — malgrado lo scherno prodigatomi con i suoi detti e nei suoi scritti, e il consigliato arresto per delitti a lui noti, egli mi proponesse al Principe per Ministro.

Lascio per ora della pretesa promessa di tenermi lontano dal Potere perchè a me ignota; dirò delle parole profferite dal signor Montanelli appena mi vide, e furono queste: «Confessare essere stato indotto in errore per le altrui calunnie sul conto mio; chiedermene scusa alla presenza di quei rispettabili cittadini; non egli avere dettato gli articoli a me ingiuriosi, pure meritare rimprovero per non averli reietti dal suo Giornale;[110] dovermi una splendida riparazione; averlo sentito nell'anima, e intendere farmela adesso con lo invitarmi ad essergli compagno nel Ministero.» Così mi favellava persona da me lungamente riverita ed amata; tornava dalla guerra italiana dove aveva sparso il suo sangue; era soffrente per la ricevuta ferita; una mano teneva fasciata al collo; sporgeva la sana in traccia della mia per pegno di pace.... Mi era parso fin qui che l'oblio delle ingiurie fosse insegnamento di Cristo; adesso al precetto di religione si aggiungeva carità di Patria.... io lo abbracciai con tenerezza, e lo baciai. Ora poi imparo dall'Accusa, che in questo modo procedendo Montanelli ed io, commettevamo infamie. — Anche questa mi toccava a sentire in Paese cristiano!

Le politiche emulazioni forte commovendo gli spiriti, avviene che questi nello ardore del contrasto sovente trascorrano fin dove non vorrebbero andare, e fu veduto una volta gli odii di parte perpetuarsi feroci. I Partiti, pur troppo, non serbano modo nelle accuse perchè contendono per avere ad ogni costo ragione, e questo so e provo. La parola scocca come saetta dalle labbra adoperate a modo di arco, e lo stesso furore agita tutte le guerre, sieno di armi, di scritti o di discorso; nè finchè bolle la zuffa, alla ragione delle offese si abbada; anzi più piacciono quanto meglio mortali, come quelle che affidano di sollecita vittoria. Nella Inghilterra, paese nella pratica della libertà antichissimo, i convizii parlamentari giungono a tale, che nessuno, per quanto si senta tremare ii cuore in corpo, può sopportare, ed io ne lessi di quelli avventati da O'Connell contro lord Brougham, che mi cacciavano i brividi addosso. Ora anche mettendo la religione a parte, che raccomanda il perdono della ingiuria, come debito principalissimo del Cristiano, la prudenza umana persuadeva, che là dove i motivi della ingiuria moltiplicavansi, quivi si apparecchiasse eziandio copia proporzionata di placamenti. Però in Inghilterra, quando due Deputati accesi d'ira si avvicendano ingiurie che a gentiluomo non è dato dissimulare, officiosi amici interponendosi operano in guisa, che comunque suoni la sconcia favella, purchè dichiarino, che non intesero denigrare la buona estimazione scambievole, ciò si ritiene per soddisfazione sufficiente ed onorata. Ora il sig. Montanelli mi profferiva scuse non già di avere scritto, ma di avere patito che altri stampasse nella Italia gli articoli che mi avevano offeso, e me ne domandava perdono. Doveva rifiutarglielo io? Pare che l'Accusa creda che abbia ad essere qualche grave scandalo conoscere il proprio torto, confessarlo ingenuo, con parole oneste raumiliare l'animo inacerbito, e dall'odio, che pesa così grave al cuore dell'uomo, ritornare benigni a quella pace per cui

. . . . . . . quaggiù si gode,

E la strada del ciel si trova aperta.

Intanto il Montanelli protesta: essere menzogna, che nel gennaio del 1848 contribuisse al mio arresto, ed afferma averne dissuaso il Ridolfi, predicendogli che da uno arresto fatto senza elementi di vera colpabilità ne sarebbe avvenuto quello che realmente avvenne.[111] So che Monsignore Buoninsegni assicura, il signor Montanelli avere parlato ben diverse parole in cotesta occasione; ma vorrà, in grazia, Monsignore Buoninsegni essermi cortese di non sapermi mal grado se io credo più che a lui al signor Montanelli quantunque Monsignore non sia? Rispetto poi al signor Massari ed alla sua trista opinione, io mi permetterò domandargli se si rammenta quando egli, e per sè e mandato dal sig. Gioberti, venne a invitarmi a casa per conferire col Filosofo italiano?[112] E se ricorda quando il Ministro Gioberti con lettera pressantissima m'invitava a consiglio diplomatico a Torino? Certo io non ebbi la fortuna di trovarmi d'accordo col suo Maestro; conosco l'attaccamento ch'egli ha per lui, e di questo lo lodo; so ancora come il signor Massari sia amico di coloro che non sono amici miei; ma tutto questo ed altro ancora, non mi pare che gli dia abilità a dire che il sig. Montanelli fece molto per la rovina d'Italia, quando mi scelse collega nel Ministero: io vorrei provargli per filo e per segno tutto il contrario: ma il sig. Massari, che imploro non meno cortese di Monsignor Buoninsegni, persuadendosi che il carcere ov'io giaccio, appena vivo, non è il luogo più acconcio per sostenere simile controversia, senta vergogna di avere provocato chi non gli può rispondere, senta vergogna di avere vergato sconsigliatamente carte che meritarono essere raccolte dall'Accusa a danno nostro; — nè peggiore pena, potendo, io vorrei dargli di questa.

Ma in quanto alla offerta del Montanelli per formar secolui parte del Ministero, mi schermiva adducendo di varia sorta ragioni, imperciocchè tanto più mi sembrasse dovermi ostinare nel rifiuto, in quanto che riputava il suo disegno esorbitante. Però egli e gli altri mi stavano attorno con preghiere, e con parole che stringono più veementi delle preghiere, intendo dire il dubbio della sincerità della riconciliazione, se a ricusargli il mio consenso persistessi: tuttavolta nemmeno per queste fervorose istanze accettai; mi riservai dare risposta dopo avere conferito col Principe, che mi fu detto aspettarmi.[113]

Infatti S. A. mi aspettava. Di questo colloquio basti adesso riferire, che innanzi tutto supplicai il Principe a dichiararmi s'egli intendeva eleggermi Ministro di sua piena ed assoluta volontà; alla quale richiesta sotto la sua fede mi assicurava eleggermi di sua piena e liberissima volontà alla carica di Ministro. In altra occasione, pregandolo io ad essermi più largo della sua fiducia, il Principe in suono di mite rimprovero: «E non le detti prova di fiducia, rispose, quando l'assunsi all'alto grado che occupa?» E penso non ingannarmi affermando, che S. A. mi dicesse eziandio il marchese Gino Capponi essere stato mio promotore presso di lui, e Lord Giorgio Hamilton avere proposto con istanza, che a me la presidenza del Consiglio affidasse, la quale cosa mi venne confermata più tardi dallo stesso onorevole Lord.

Ora come può sostenersi, non dico criminalmente ma onestamente, che io pervenissi al Potere con mezzi riprovevoli, e più ancora che il Principe mi eleggesse sforzato dal timore della guerra civile? L'Accusa dunque intende smentire la parola del Granduca? Chi di noi due è il temerario? Io, che su la fede data dal Principe mi appoggio, o l'Accusa che questa fede disprezza? — E poniamo pur vere le manifestazioni a mio favore di Livorno, di Arezzo e di Lucca; forse non accade sovente nei liberi paesi acclamare o disapprovare il Ministero, e tale chiedere che sia innalzato, e tale altro dimesso? Intanto si prova come le dimostrazioni livornesi, che per certo dovevano apprendersi come le più stringenti, fossero esposte al Principe dentro i limiti costituzionali di semplici espressioni di desiderio;[114] quelle poi di Lucca e di Arezzo tanto avevano virtù di muovere gli animi a Firenze, quanto la nebbia dell'anno passato: e stando all'Accusa, la Deputazione fiorentina non pure non instò per avermi Ministro, all'opposto pose quasi per patto al Montanelli, che da me più che da viperino sangue aborrisse. Dunque come io arrivassi con mezzi riprovevoli al Potere, se l'Accusa non ce lo spiega, riuscirà davvero malagevole intendere; — finalmente il Principe, anzichè patire violenza, avrebbe potuto e saputo allontanarsi[115].... Ma io mi vergogno andare in cerca di argomenti là dove la fede del Principe mi assicura. Anche una volta lo intenda l'Accusa, dalle labbra reali uscì la parola, che mi diceva eletto con grato e libero volere; questa parola rispetti. E se l'Accusa non mi fosse proceduta così acerbamente nemica, forse poteva conoscere, che se io alla fine accettai, e' fu per salvare chi incauto troppo si avventurava a perigliose fortune! — Altra parte importantissima del mio colloquio con S. A. riferirò più tardi.

Avendo acconsentito a formare parte del Ministero Montanelli, considerando la ragione dei tempi e gli umori dei Popoli, conobbi come noi fossimo eletti quasi argine estremo allo irrompente precipitare della Europa verso la Repubblica. Disposto a combattere pel Principato Costituzionale come quello che sapevo essere unico desiderio della massima parte del Popolo toscano, m'ingegnai formare un Ministero capace a sostenere la tempesta, raccogliendo gli uomini meglio cospicui del Partito Costituzionale. A questo scopo con buoni argomenti, che menerebbe troppo in lungo esporre, persuasi il Sig. Montanelli a offrire la presidenza del Consiglio al marchese Gino Capponi; nè la pratica si rimase sterile consiglio, chè egli andò a farne ufficio presso il Marchese; se non che riuscite vane le premure, Montanelli tornava riportando a me, e a parecchi onorevoli cittadini, che con non mediocre ansietà attendevamo: «con grato animo avere accolto il Sig. Capponi questa dimostrazione di stima per lui; doversi però astenere dallo accettare per cagione di salute; promettere ad ogni modo il suo appoggio al nuovo Ministero;» e questa promessa veramente mantenne.

Del marchese Ridolfi per essere assente, e per altri rispetti, non era a parlare. Il barone Ricasoli aveva poco anzi fallito nella composizione di un Ministero, nè ci procedeva favorevole; con tristo presagio mi convenne deporre il pensiero di guadagnarci persona la quale rappresentasse a un punto la nobiltà fiorentina e la parte più conservatrice della Camera. Tentammo il Professore Eliseo Regny per la Finanza, ma anch'egli allegando la incerta salute ricusava. D'Ayala, onoratissimo personaggio e di virtù antica, era ed è illustre in Italia per fama di dottrina, e per moderati consigli. Franchini, gentiluomo di buone lettere, zelante della patria, probo, e mite. Mazzoni, piuttosto rigido osservatore della onestà che ordinariamente onesto. Adami, dal braccio traboccante dell'Accusa fu misurato, e rinvenuto giusto di misura! E credo che cotesto egregio uomo, anche in questo momento,

Uscito fuor del pelago alla riva

Si volga all'acqua perigliosa, e guati.

Egli, compiacendo ai miei desiderii, sagrificava alla patria non poco, lasciando i negozii floridissimi della sua Banca, reputata meritamente sostegno del Commercio livornese. Ed ecco come fu composto il Ministero contro il quale la dignitosa Accusa e schietta avventa il torchio di cera gialla acceso in fuoco di maladizione gridando: anathema sit![116] Pertanto io penso potere con sicurezza concludere, che legittimamente ascesi al Potere al pari di ogni altro Ministro venuto al mondo con la grazia di Dio, essendovi stato chiamato in virtù dello esercizio liberissimo della prerogativa reale.[117]

Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi

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