Читать книгу Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi - Francesco Domenico Guerrazzi - Страница 20

XVI.
Giorno 8 Febbraio 1849.

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L'Accusa insiste, che per bene tre volte, invitato dal Presidente Vanni, io ricusassi restringermi a segreta conferenza. Di questo triplicato invito nè so, nè ricordo, nè mi venne contestato. — So, e ricordo, che alcuni Deputati mi confortavano uscire di sala pubblica, e condurmi a quella delle Conferenze. — Nel Decreto del 10 giugno 1850, il signor Montanelli, che andò a pregare i Deputati onde tornassero nella pubblica sala, è incolpato di averli esposti alla violenza del Popolo; e me, che non volli andare, accusano del medesimo disegno. Sicchè, sia che si andasse, sia che si stesse fermi, al cospetto dell'Accusa, che mi scuoia e mi squatra, non ci è via di salvazione.

Se io pongo mente al tempo e alla cagione delle parole, ricordo che quei tali onorevoli colleghi mi animassero a procurare il ritorno dei Deputati partiti, e che io rispondessi: «È andato Montanelli; basta.» Riprova di questa verità occorre nel considerare, che i colleghi conferenti meco, trascurato lo esempio altrui, restavano fermi nella sala, nè facevano sembiante di volersene andare, la quale cosa dimostra come la Seduta fosse incominciata, e come di conferenze segrete non fosse più a parlare.

L'Accusa non sembra che fra i suoi studii si dilettasse molto di quello dello Statuto; o se le piacque un tempo, poco se lo rammenta adesso; imperciocchè, se fosse altramente, saprebbe che l'Articolo 44 dello Statuto dichiara: «Le adunanze delle Assemblee avere ad essere pubbliche; soltanto su la domanda di cinque Membri potersi il Consiglio costituire in adunanza segreta.» — Il verbale dell'Assemblea non dice che questo rito fosse praticato, e veramente nol fu; e nemmeno dice il verbale che i Ministri ricevessero lo invito di cui parla l'Articolo 61 dello Statuto medesimo. Per altra parte, l'Assemblea quale ha mestieri di consenso ministeriale per costituirsi in conferenza segreta? Di quali informazioni abbisognava per parte dei Ministri? Forse non erano istruiti del successo e del tenore delle granducali lettere il Presidente e parecchi Deputati? Sì certo lo erano, e il Signor Vanni era stato chiamato in Palazzo appunto per questo: oggimai dello infausto evento correva pubblico il grido. E se le Camere non abbisognano del consenso dei Ministri per costituirsi in conferenza segreta, molto meno hanno d'uopo della presenza loro per deliberare i partiti. Il Ministero non costituisce per niente membro necessario del Parlamento; — or fanno pochi giorni l'Assemblea di Francia, non ostante l'assenza del Ministro del Commercio, discusse e votò la proposta su le tariffe commerciali, instando Thiers; — e fu nella Camera nostra dichiarato, in occasione della Legge su l'arruolamento, discussa in parte e deliberata assente il Ministro della Guerra, nella Seduta de 17 agosto 1848. Io ben ricordo avere in cotesta Tornata fatto osservare se non la necessità, almeno la dicevolezza, ed anche il vantaggio della presenza del Ministro per attingerne opportuni schiarimenti; se non che il Deputato Salvagnoli tanto seppe dire intorno alle facoltà della Camera di discutere, e votare senza bisogno di Ministri, che non fu tenuta in conto alcuno la mia osservazione. Non invito legale pertanto, ma consiglio semplice fu dato di conferire in segreto, nè dal mio non seguirlo era tolto alla Camera di prendere quel partito, che le fosse parso più profittevole.

Me poi a non seguitare cotesto consiglio persuadeva copia di ottime ragioni. In prima, la commissione del Principe, il quale con lettera del 7 febbraio ordinava: «Prego il Ministero a dare pubblicità a tutta la presente dichiarazione, onde sia manifesto a tutti come e perchè fu mossa la negativa che io do alla sanzione della Legge per la elezione dei Rappresentanti toscani alla Costituente italiana; che se tale pubblicazione non fosse fatta nella sua integrità e con sollecitudine, mi troverò costretto a farla io stesso dal luogo ove la Provvidenza vorrà che io mi trasferisca.» Da questo il bisogno della urgenza e della pubblicità della Seduta. Inoltre, nella agitazione certissima del Popolo in quei momenti supremi, in affare di tanta importanza, ogni ombra di mistero avrebbe accresciuto le ansietà e inacerbito i sospetti: ogni uomo che abbia senno, di leggieri andrà persuaso che la conferenza segreta, invece di diminuire, avrebbe a mille doppj accresciuto i pericoli del frangente. Ancora, io vorrei che l'Accusa, in cortesia, m'istruisse in che e come la sala privata avesse, meglio della pubblica, difeso l'Assemblea dal Popolo irrompente. Forse la sala privata ha in sè virtù repulsiva, od è munita di ridotti e cinta da bastioni? Forse il mago Atlante vi pose sotto la soglia le incantate olle come al Castello di Carena?[173] Se la sicurezza poteva consistere nella diversità delle stanze sotto un medesimo tetto, l'Accusa avrà ragione; ma finchè non venga dimostrato in che la camera delle conferenze avesse maggior virtù della sala pubblica, egli è certo che i Deputati sarebbero stati esposti ugualmente nell'uno come nell'altro locale. Ed anzi peggio, perchè le angustie del luogo avrebbero, ad ogni evento, impedito l'uscire, aumentati i pericoli. Finalmente, a tutelare l'Assemblea erano state prese le provvidenze necessarie. Il Decreto del 10 giugno 1850 argomentava il reo disegno dal trascurato invio di ordini al Capitano della Guardia Civica stanziata alla porta di sotto, per opporsi allo ingresso della moltitudine tumultuante; ma in qual punto avrei dovuto trasmettergli io ordini siffatti? Prima o dopo l'apertura della Seduta? Se prima, ordini speciali per cosa che s'ignora non se ne possono dare; inoltre il Capitano non riceve ordini dal Ministro, ma dal suo Superiore; e poi il Capitano posto a guardia ha ordine generale di difendere la sicurezza dell'Assemblea; nella quale generalità, naturalmente, rimane compresa la specialità di operare quanto reputa convenevole per adempire il fine della consegna. Lo intento della moltitudine non poteva essere dubbio se, come narra l'Accusa, infuriava tumultuante e schiamazzante, con cartelloni che dicevano, a lettere da speziali, quello che volesse fare. Che cosa altro si domanda per conoscere che l'Assemblea sta per essere violata? Che più si aspetta per sapere venuto il momento della difesa? Se le Guardie, spesso collocate a distanza grande dai Superiori, avessero ad aspettare, via via che la occasione si presenta, ordine speciale per agire, verrebbero a portare sempre il soccorso di Pisa. Ora, nel caso in discorso, io non poteva conoscere quello che si faceva per di sotto, stando nell'Assemblea; e sarebbe riuscito festoso che per me si mandassero ordini per impedire lo ingresso della moltitudine tumultuante, quando la vedeva già entrata! Non so di cose guerresche; ma parmi evidente, che se la Guardia si fosse disposta su per gli scaglioni con le armi abbassate, la posizione sarebbe stata insuperabile.

Però io ho detto tutto questo per tenere dietro alle aberrazioni dell'Accusa; ma ella, che poco sapere le Istituzioni Costituzionali, o ricordare si cura, importa che avverta come il comando della forza armata di guardia all'Assemblea dipenda unicamente dal Presidente di questa. I Ministri, usurpando simile prerogativa, non solo commetterebbero sconvenienza massima, ma colpa. Infatti, nella Seduta del 30 marzo 1849, mentre una mano di Popolo con urli e minacce assai più veementi che quelle dell'8 febbraio intendeva violentare l'Assemblea a proclamare la Repubblica, io mi trovai, o credei trovarmi, forte abbastanza per indirizzare al Presidente queste parole: «Come Capo del Potere Esecutivo, in cui il Popolo intero ha riposto la sua fiducia, io credo dovergli rispondere con atto di coraggio. Se il signor Presidente domanda gente per disperdere gl'iniqui e perfidi perturbatori, io stesso monterò a cavallo.» — E nella Seduta, non meno procellosa, del 2 aprile, il Ministro dello Interno interrogava il Presidente dell'Assemblea dicendo: «Io le ho mandato 180 uomini; che ne fa ella?» E il Presidente rispondeva: «Io ho trasmesso gli ordini opportuni al Capitano del distaccamento della Guardia Nazionale che in questo momento forma il presidio dell'Assemblea.»[174]

Se il Ministro della Guerra raccolse i Comandanti dei Corpi militari per provvedere più particolarmente alla città di Firenze; e fu messo all'Ordine del Giorno, che tutte le milizie starebbero consegnate nelle rispettive caserme; e stabilito, che le milizie, stanziali e cittadine, avrebbero agito promiscuamente dietro ordini firmati dal Comandante di Piazza e dal Prefetto (Atto di Accusa § 53); si persuaderà di leggieri la gente, che alle provvidenze fu pensato.

Ma l'Accusa, che prima aveva rimproverato la omissione delle misure, ora che le trova prese, ci sofistica sopra, e dice, che le milizie dovevano agire soltanto in caso di vera e propria sommossa popolare, e critica quel dovere agire dietro ordine di due autorità dissociate; non si contenta che la Civica fosse mandata alle Camere con numero, mezzi, e istruzioni consuete; bisticcia perchè non avesse posto le baionette in asta, come se tutte queste cose dipendessero da me; gavilla perchè la Stato-Maggiore, e il Generale in Palazzo Vecchio stanziassero, come se potessero stare in migliore luogo per difendere il Senato che sedeva in quel medesimo Palazzo, e il Consiglio Generale che sedeva nella fabbrica accanto!!

Il Ministro D'Ayala fu sempre di parere, che i soldati non si avessero a mescolare nelle popolari sommosse: per queste doveva bastare la Guardia Civica. Se la Guardia Civica non mantiene l'ordine interno, o che cosa ci sta a fare? La milizia stanziale combatte le guerre della patria. Di tale suo concetto espose buone ragioni alle Camere; per questo motivo non fu piccola impresa ottenere i suoi soldati nel supremo accidente; e la doppia firma ha da essere stata regolare, e necessaria secondo la sua superiore esperienza.[175] Che cosa si voglia inferire dalla firma simultanea delle due Autorità dissociate, io non so comprendere; molto più, che per non essere parola italiana l'aggettivo dissociato, non capisco per l'appuntino che cosa significhi; ma indovinando che corrisponda a disgregato, o che forse, domando io, una dimorava in Firenze, e l'altra al Capo di Buona-Speranza? Sentiamo un po': che grande ostacolo faceva questo, o in che le operazioni necessarie avrebbero incontrato impedimento o ritardo? Il Comando di Piazza stanzia in Palazzo Vecchio; il Prefetto come Deputato sedeva alla Camera: distavano dunque forse trenta passi, e tre scale! Che insinuazioni cavillose, che sofisticherie sono elleno queste? E crede l'Accusa, che il Generale Chigi, personaggio chiaro per valore e per ingegno, si sarebbe prestato docilmente a lasciarsi aggirare come un gaglioffo? Riprenda l'Accusa gli aggiunti di vera e propria, che ce li mette di suo, — e fa ufficio di barbaro, gittando nella bilancia iniqui pesi, — e lasci unicamente la sommossa popolare,[176] e veda se fosse venuto tempo di agire (se è vero quello che dice il Decreto del 10 giugno 1850), alloraquando gli agitatori deliberavano, sotto la Loggia dell'Orgagna, imporre un Governo Provvisorio alle Camere, e (se è vero l'altro che referisce il Decreto del 7 gennaio 1851) quando vi si conducevano tumultuanti. Se non presenta carattere di sommossa una turba tumultuante che delibera in pubblico d'imporre un Governo nuovo al Paese, davvero che cosa sia sommossa io non saprei vedere. In quanto alle baionette non messe in asta, le Guardie ce le avevano a mettere; e credo che non le avessero lontane, perchè, se non isbaglio, se le tenevano al fianco. Se anche questo sembra all'Accusa un crimenlese, non ha fare altro ch'estendere la requisitoria, e mettervi dentro anche le Guardie. Sarebbe per avventura anche questa una disassociazione pregna di maligni disegni? Or via; i provvedimenti furono presi, e se rimasero inadempiti, non è mia la colpa. I Circoli invitati a stare fermi, si vollero muovere; le milizie invitate a muoversi, scelsero di stare ferme; ma che, per avventura, devo io portare il peso dei falli di tutto il genere umano?

Nè qui si fermano le insinuazioni; e si trova a ridire perchè fossero chiamati i Capi dei Circoli, e non il Presidente Vanni; perchè nella notte fossero avvertiti i Circoli, e non le Camere. Trattandosi d'impedire turbolenze, era razionale convocare chi potesse reprimerle, e chi provocarle; i primi, perchè alla occasione si mostrassero, i secondi, perchè dal dare questa occasione si astenessero; ed ordinando, o pregando, che i Capi dei Circoli stessero tranquilli, ne veniva per necessità che fosse loro partecipato il motivo della chiamata e dell'ordine. Forse si volle tenere celato il successo della partenza del Principe? Ma non erano il cavaliere Peruzzi Capo del Municipio, e il cav. Chigi Generale della Guardia Civica e Senatore, che ne furono primamente instruiti? Perchè malignare se non fu chiamato il Presidente della Camera? Da questa parte non poteva venire danno davvero, e soccorso materiale nemmeno. Fintantochè non ci dica l'Accusa quale rovina irreparabile abbia cagionato chiamare il Presidente della Camera la mattina per tempo, qual soccorso di forza ci avrebbe apportato l'ottimo e mansueto Cosimo Vanni, che Dio nella sua misericordia dallo aspetto delle odierne miserie in buon punto ha salvato, sarà difficile che la gente trovi, come l'Accusa fa, criminoso un lieve ritardo del tutto fortuito ed innocuo.

Rifinito dalla fatica, agitato da commozione profonda, e da presentimenti tristissimi, dopo avere vegliato tutta la notte, io mi conduco alla Camera deliberato a rassegnare la carica appena il signor Montanelli avesse letto il suo Rapporto. Questa intenzione aveva manifestato ai miei familiari, e a parecchie persone che mi circondavano; sicchè prima di uscire dalle stanze di Ufficio fatto fascio di corrispondenze, e di altre carte private, gittandole sul fuoco, esclamai: «poichè non tornerò più qui, non vo' che alcuno legga i miei negozii!» Mi sentiva preso da sazievolezza, e di salute infievolito non poco; rivolgendomi nell'Assemblea al Popolo sorvegnente, diceva loro: «Rammentatevi, cittadini, che abbiamo vegliato tutta notte: — per conseguenza state tranquilli.[177]»

Il signor Montanelli, appena letti i documenti di S. A., viene interrotto da turba di Popolo guidata dal Niccolini, il quale si annunzia latore di ordini popolari; e poi aggiunge: che il Popolo abbandonato dal Sovrano, il quale è fuggito vilmente, mancando alla sua fede e al suo onore, è rientrato nei suoi diritti.[178]

Sorge fiero tumulto. Il Presidente si è coperto il capo, ha dichiarata sciolta la Seduta, e si è ritirato seguito da molti Deputati.[179]

Di faccia alla rivoluzione che irrompeva, deh! senza ingiuria di alcuno, mi sia concesso dichiarare, che non mi parve quello contegno di bene avvisati Deputati. Chi lascia il campo, si dichiara vinto. Padroni della sala e del Governo già già diventavano il Niccolini e la plebe; — sì, lo avvertano bene tutti coloro che fanno le viste di obbliarlo adesso, — plebe, e quella dessa, che dopo avere innalzato gli alberi della libertà, in onta mia, per estorcere danari, gli abbatteva più tardi per estorcere danari; plebe, che minacciosamente proterva domandava elemosina alla foggia del povero del Gilblas, e ruppe strade, e incendiò case, e manomise le persone, e gli averi; plebe, che anelava gli ultimi orrori; plebe, che, implorando lo aiuto dello stesso Circolo armato, fu forza contenere perchè non isbranasse gli arrestati nella notte del 22 febbraio; Ciompi senza Michele Lando.

Bene altra cura stringeva adesso, che di forme politiche: si trattava salvare la società,... la vita di quelli che ora il beneficio ricevuto disprezzano, — anzi pure vituperano, e rampognano, o accusano!

Si legge il terrore sopra i volti dei circostanti, e i prudenti comprendono a prova il fallo commesso dal Presidente, per avere disertato il seggio. Non così Boissy-D'Anglas e Thibaudeau presiedevano all'Assemblea di Francia in giorni bene altramente terribili! Tacevano tutti. Fra gli schiamazzi del Niccolini, che dall'audacia fortunata reso audacissimo bandisce decaduto il Principe, sciolte le Camere, e il Governo Provvisorio, ed ostenta il mio nome scritto di rosso, che cosa faccio io? Gli ammicco forse degli occhi, gli sorrido facile? Con la voce e co' cenni gli applaudo? Lo abbraccio, lo bacio? Mando al Popolo i baciamani? — Queste cose si costumano fare fra gente indettata nella esultanza dei conseguiti disegni. Ah! io sentii pur troppo in cotesto punto la insidia della fazione repubblicana per tenermi stretto nelle sue tanaglie. Io solo salgo alla tribuna, rilevo la dignità avvilita dei Deputati, ed esclamo: «non potere vedere, che essi sieno stati cacciati così a vergogna. — Qualunque sia la opinione che ci divide fra noi in questa sala, noi siamo tutti fermi e uniti a tutelare con l'ultima stilla del nostro sangue la patria minacciata dai nemici interni ed esterni. Io pertanto mentre rimprovero al Popolo le sue esorbitanze, non posso astenermi di rimproverare anche i Deputati che hanno disertato i loro scanni[180]..... Figli di una stessa famiglia, pensiamo a prendere provvedimenti valevoli e salutari nel supremo pericolo dell'amatissima patria.»

Tutto questo, assai più che con le parole, col gesto concitato, e col guardo torvo, era diretto contro il Niccolini, che si smarriva, rimettendo alquanto della consueta petulanza, e, mal per rabbia sapendo quello che si facesse, si mise a sedere su la pedana del banco ministeriale. Ora, Dio eterno, si può egli supporre, che un uomo il quale avesse eccitato queste enormezze in segreto, ardisse rinfacciarle così aspramente in palese? E si può egli credere, che o Niccolini, o tale altro della Congiura si fosse tolto in pace vituperio siffatto? La mia sfrontatezza avrebbe toccato il termine della insania; la pazienza altrui quello della stupidità.

Intanto Niccolini, ripreso animo, a cagione degl'imperiosi messaggi che il Popolo mandava per invitarmi (e voleva dire ordinarmi) a scendere in piazza, per le apprensioni del Vice-Presidente, pei clamori delle tribune, ed anche per certa imprudente proposta mossa da un Deputato rivolto a me, che tenevo sempre la tribuna, grida: «chiedere la parola in nome del Popolo; avere il Popolo riassunto i suoi diritti, dopo che si era radunato in piazza, ed aveva dichiarato decaduto il Potere; avere di più nominato tre persone per reggere la Toscana, e con Decreto sciolti gli altri poteri.» Quindi cruccioso conclude: — «O voi accettate, e non esiste altro Potere che il vostro conferitovi dal Popolo; o non accettate, e il Popolo penserà a quello che deve fare....[181]»

La turba applaudiva frenetica: difficilmente può significarsi per parole l'amarezza con la quale il Niccolini urlava: «Il Popolo penserà a quello che deve fare.» Per coteste minaccie gli animi degli astanti sbigottivano.

Ed a ragione sbigottivano; perchè, sapete voi che cosa voleva dire «Il Popolo farà da sè?» Voleva dire: il Principe decaduto, le sue case saccheggiate, i servitori manomessi. Voleva dire: chiese espilate, cittadini multati, pubbliche casse vuotate. Voleva dire: leggi dei sospetti, tribunali rivoluzionarii, sentenze scritte col fiele della vendetta e col sangue del furore. Voleva dire: antichi impiegati condotti alla miseria (forse a peggiori destini), e famiglie disperse. Voleva dire tutto quello che una plebe arrabbiata sa fare quando la sferzano le furie della necessità, della cupidigia, e della paura, ed uomini perversi la inebbriano di odio. — Se questa poi sia esagerazione o verità, vedremo tra poco.

Io avevo impegnato un duello col Niccolini, che pure l'Accusa designa audacissimo, ed è vero; pur troppo mi accôrsi che mi poteva tornare fatale; nonostante sperando, che di valido aiuto i miei colleghi mi sovvenissero, me gli rivolgo incontra da capo, ingegnandomi blandire il Popolo, e separarlo per questa via dal suo Condottiere; e così lo interpello: «Perchè pretende egli esclusa dallo aderire alle deliberazioni la parte del Popolo elettissima, che siede in questa sala? Le Provincie non devono essere rappresentate? Non importare ch'elle stieno unite? Se mai le persone indicate accettassero, perchè vorrebbe togliere loro il voto, e l'adozione dei colleghi, per conforto a procedere in una via da ora in poi piena di supremi pericoli, e forse di morte sicura?[182]»

Questo era impedire la dissoluzione del Paese, e dirò quasi un porgere una cima di canapo alla Camera affinchè l'afferrasse, e, diventata padrona della occasione, ardire pari agli eventi mostrasse. Alcuni più ragionevoli del Popolo si lasciano persuadere, e favellano miti parole. Allo improvviso si ascolta nuovo Popolo accorrente con immenso fragore: la sala intronata, pareva che sobbissasse: per questa volta mi sentii cadere il coraggio: temei della mia, ma più assai della vita altrui. In quel momento mi appiglio (ogni altra difesa mancando) alla parte del Popolo, che, prima venuta, si era mostrata proclive alla persuasione, e dirò quasi mansuefatta; la invoco a supremo riparo, e supplicando grido: «Il Popolo guardi il Popolo: non venga introdotta persona.[183]»

Ma il Popolo prorompe furibondo, ed intima con altissimi urli che scendiamo in piazza. Allora fu, che sempre combattendo, e riparando alle parole promettitrici del Vice-Presidente, in atto ortatorio dissi: «Prego ad ascoltare la lettura del Rapporto, e lasciare che l'Assemblea sul medesimo deliberi.»

Niccolini inquieto, avvertendo che il Popolo alla lettura di cotesto Rapporto si calmava, teme la seconda disfatta, onde mi taglia le parole in bocca, e proclama lo scioglimento delle Camere.

Ora qui, da chiunque goda del bene dello intelletto, o per istudio infelice di parte non chiuda gli orecchi alla coscienza, o per turpe consiglio, o per altra qualunque più malnata passione non rinneghi il vero, sarà agevolmente concesso, che se Niccolini ed io andavamo d'accordo non ci potevamo intendere di peggio, conciossiachè Niccolini pretendesse la Camera sciolta; io mi sforzassi a tenerla unita: Niccolini il Principe decaduto proclamasse; io cotesto plebiscito deludessi: Niccolini sovrani i Decreti del Popolo in piazza a sostenere si ostinasse; io a dire che nessuno, tranne la Camera, avesse diritto di proclamare leggi persistessi: per lui decadenza del Principe, e reggimento mutato fossero fatti compíti, e non vi fosse più luogo a deliberare: per me tutto da farsi, e l'Assemblea a risolvere liberissima: il Popolo di scendere in piazza m'imponesse; io dichiarassi non mi volere muovere dall'Assemblea.

Credo che non mi rifiuteranno fede gli onesti, quando dico che, ordinariamente di salute mal fermo, adesso per la veglia durata e le angoscie dell'animo, io mi sentissi prossimo a mancare; pure non volli rimanermi da profferire parole le quali indicassero come per me veruna cosa fosse ancora decisa, e tutto rimanesse a deliberare, vituperassero i tristi, minacciassero gli audaci.

«Da questo momento i Ministri cessano essere Ministri di Leopoldo II, e divengono semplici cittadini. L'Assemblea e il Popolo deliberino il resto. Frattanto abbiamo spedito in tutte le parti della Toscana; abbiamo preso provvedimenti necessarii affinchè un Governo immediato, pronto e vigoroso, possa erigersi per reprimere i disordini che potessero insorgere così per le fazioni infami dei retrogradi, come per le fazioni non meno infami degli anarchici.[184]»

Queste ultime parole erano per quattro quinti dirette alle persone che mi stavano davanti. Errano le carte dell'Accusa (e vorrei credere per inavvertenza) quando affermano che Niccolini intimasse alla Camera di aderire alla nomina del Popolo, però che egli mai disse questo. Il suo concetto era troppo bene disegnato diversamente: egli pretendeva decaduto il Principe a cagione della sua partenza, il Popolo padrone di disporre di sè, ed in fatti disporre sciogliendo tutti i poteri costituiti, e nominando un Governo Provvisorio. Niccolini, latore degli ordini popolari, non poteva fare contro al mandato contenuto nel Decreto del Popolo, che l'Accusa male finge ignorare.

Quando per le mie parole Niccolini tacque, incominciò veramente la discussione. La stessa Accusa dichiara, ed io mi maraviglio come questa confessione le sia caduta dalla bocca, che io solo riuscii a far tacere il Niccolini (§ 77).

Io ho sostenuto, che i Deputati potevano uscire, e usciti non tornare, perchè invero molti uscirono, e parecchi non tornarono, e perchè Niccolini latore degli ordini popolari intimava sciolte le Camere. Dicono che vi furono alcune minaccie di morte, e vi saranno state, ma scarse, e rade così che io non le udii; comunque sia ciò, non toglie efficacia alla mia osservazione, confermata dal fatto dei molti Deputati usciti incolumi dalla sala, e dallo essere andati immuni da offesa tutti coloro cui non piacque tornare. Il Decreto del 10 giugno parlava sempre dell'assenza del Presidente, taceva quella dei molti Deputati. Se il Presidente tornava, lo faceva coartato dalla minaccia della guerra civile, ed anche qui dei Deputati persistenti a rimanere lontani non si profferiva parola, e ciò a bella posta, perchè non si voleva credere che la minaccia della guerra civile non fu coartazione, ma presagio al quale rimasero indifferenti tutti coloro che vollero, e che i pertinaci a stare fuora non corsero danno o pericolo di sorta alcuna.

Invano si nega; se violenza avvenne, e' fu per cacciar via i Deputati, non già per ritenerli.

Dopo che, ridotto al silenzio il Niccolini, s'incominciò la discussione, Cosimo Vanni Presidente con molto grave sentenza impegnava il nazionale orgoglio, affinchè la turba raccolta tacesse, e lasciasse «tranquilli in cotesto luogo i Rappresentanti del Popolo a deliberare quello che deva farsi in così grave e solenne circostanza.»

Il Monitore, il processo verbale della Seduta, non notano che d'ora in poi il Popolo interrompesse. La storia della Seduta raccolta dagli stenografi, e compilata dai segretarii presenti, deve preferirsi a reminiscenze talora inesatte, qualche volta sleali.

Questi Documenti diranno come il Popolo due sole volte disapprovasse il signor Viviani, Deputato di molto seguito, e tutti gli oratori, compreso il signor Corsini, applaudisse. Io non apersi più bocca; assai e troppo l'avevo aperta per mettere in compromesso la mia sicurezza; e quando avessi voluto, non lo avrei potuto, tanto mi sentiva rifinito di forze.

Il Deputato Socci fa la proposta che venga eletto un Governo Provvisorio, nel modo che domanda il Popolo di Firenze. Il Deputato Trinci censura il Popolo per avere preoccupato il voto della Camera venendo a proclamare il Governo Provvisorio, ma conforta a rispettarlo: ambedue questi Deputati dichiarano il Paese senza Governo, la necessità di crearlo, l'ordine pubblico gravemente minacciato. Il Deputato Corsini conviene della gravissima condizione del Paese, e della necessità di supplire al suo Governo con un Governo Provvisorio; aderisce con intero e libero suffragio alla elezione degli uomini distinti che si vorrebbero nominare, solo desidera aggiungervi il Gonfaloniere di Firenze, e Ferdinando Zannetti. Trinci replica che gli eletti potranno aggiungersi coloro che meglio penseranno, non volendo imbarazzare con nomi la libertà che intendeva lasciare pienissima, come pienissima era la sua fiducia, ai tre membri del Governo Provvisorio. Il Deputato Cioni rigidamente pone la quistione che si voleva lasciare velata: Ai termini delle Leggi costituzionali, mancato un Potere, gli altri cessano. Noi non siamo rappresentanti, ma potremo votare come semplici cittadini. Un Governo di 3 o di 5 è cosa indifferente, purchè questo Governo assuma sopra di sè il Governo di tutto il Paese, e pensi a convocare i Comizj, affinchè un'Assemblea nazionale provvegga a' destini del Paese. Viviani combatte il Cioni, e sostiene la mia opinione, che i Deputati rappresentano tutta Toscana, non il solo Popolo di Firenze, il quale non può presumere di rappresentare Toscana intera; però conviene che, mancato un Potere, cessino gli altri; solo restringe la rappresentanza dei Deputati alla facoltà d'istituire un Governo Provvisorio. Insiste su la necessità che i Deputati concorrano col voto a confermare il Governo Provvisorio, affinchè le Provincie lo accettino, e non rimproverino i loro Deputati, reduci a casa senza avervi cooperato. «Non dire questo (egli professava) per amore alla Deputazione perpetua, ma perchè ognuno deve, con freddo coraggio, eseguire il mandato del Paese, e non disertarne la causa, anche sotto lo impero della forza. Quando il Governo sarà consolidato col voto indipendente di tutti noi, io sono il primo a dire che la Camera è sciolta, e che ognuno deve tornare alla vita privata.»

Chi pone fine alla discussione? forse il Popolo? No: il Monitore non lo dice; dice, all'opposto, che la proposizione di troncarla venne dal Trinci, il quale, per amore del Popolo e per la imponenza dei casi, vuole si scenda a deliberare. «Il Governo Provvisorio scioglierà la Camera, se lo reputerà convenevole, e allora lo scioglimento sarà legale; non s'imbarazzino le sue attribuzioni; la Camera ha dato ai tre individui, che vogliamo al Governo Provvisorio, segni non dubbii di fiducia: riposiamoci nelle loro braccia

Zannetti aderisce a Trinci, e invoca solleciti provvedimenti. «Urge, egli dice, una circostanza che non bisogna nasconderci. Il Popolo, in piazza, attende vedere i membri del Governo Provvisorio. Il Popolo non si frena; però questi tre componenti il Governo Provvisorio, approvati dalla Camera, discendano a mostrarsi al Popolo, e gli dicano: Popolo, unione, rispetto alla proprietà, rispetto agli uomini

Tre Deputati insistono per la immediata votazione. Il Corsini aderisce anch'egli. Allora soltanto, il Popolo, plaudente, grida: ai voti, ai voti. — Però quattro Deputati energicamente insistono a dichiarare che ogni Potere è sciolto, che non sono più rappresentanti, e tali diventeranno quando eletti dal Suffragio Universale; — tre votano come cittadini, uno ricusò votare. Segue la votazione; nessun voto è contrario. Io taccio sempre, e, prima di accorgermene, vengo preso, aggirato, passato di braccia in braccia, fino in piazza, rovesciato a terra, e in pericolo di essere calpestato dalla folla delirante, se molti, con furia di spinte e di gomiti, non mi salvavano. Il Monitore dell'8 febbraio, narrando il fatto, dice che fummo portati, e dichiara la verità.

Ora, può egli ritenersi in coscienza che io col Niccolini e co' suoi compagni mi fossi indettato? È egli vero o no che la Seduta dell'8 febbraio ebbe due periodi, procellosissimo il primo, per mia virtù composto, il secondo tranquillo? I miei conati furono diretti a esporre i miei Colleghi alla violenza, o non piuttosto a confortarli e metterli in condizione di opporsi alla furia irrompente del Popolo? Alla discussione pose termine il tumulto, o veramente il consiglio gravissimo di non lasciare il Popolo senza freno, ed il timore, ch'egli, riputandosi sciolto da qualunque governo, non precipitasse in enormezze contro le proprietà e le vite dei cittadini? Chi dirà che i Deputati furono costretti a votare, se molti ebbero facoltà di uscire, dei quali taluno tornava e tale altro no? Chi dirà i Deputati costretti a votare, se la volontà del Popolo era che non votassero, e dalla sala partissero? Chi dirà i Deputati costretti, se alcuni protestarono votare come semplici cittadini, e tali altri si astennero? Chi si assume il tristo diritto di deturpare, alla faccia del mondo, nomi chiarissimi e strascinarli nel fango come di uomini senza fede, sostenendo che mentirono quando ultronei dichiararono di dare il voto con intero e libero suffragio, e non volere disertare la causa pubblica neanche sotto lo impero della forza, e intendere far prova di freddo coraggio? Come può con pudore affermarsi che le attribuzioni del Governo Provvisorio dall'Assemblea s'intendessero limitate, quando non si volle appunto con limiti importuni imbarazzarlo, quando gli concessero libertà pienissima, quando di riporsi affatto nelle sue braccia protestarono? Come, che non gli si commettesse di consultare il Paese col suffragio universale, quando si legge che politicamente fu eletto appunto per questo? — Quanti foste presenti allora, benevoli o malevoli, venite e attestate con la mano sul cuore, se, il Paese stava o no in procinto di sobbissare: attestate s'era pericolo raccattare il Potere caduto in piazza, e se fu merito contenere le turbe furibonde! Attestate se pochi cenciosi fanciulli vi spaventarono, oppure moltitudini imperversanti e diverse! Dite, onesti colleghi: è vero o no, che temendo la ultima ora venuta della società, mi prendeste a mezza vita e mi gettaste in piazza dicendomi: «salvaci o muori?»

Havvi tale che suppone tutti i miei sforzi tendessero a circondare la violenza popolana con sembianze di legalità. Questa supposizione, comecchè ispirata da sensi a me punto benigni, è vera. Il Popolo era padrone quel giorno; ora, se da lui solo muoveva la elezione del Governo Provvisorio, questo avrebbe dovuto, per necessità, eseguire in tutto e per tutto il plebiscito decretato sotto le Loggie dell'Orgagna, e la rivoluzione si compiva. All'opposto, il Governo Provvisorio, appoggiandosi ad altra origine, e sopra un altro mandato fondandosi, non ristretto al Popolo fiorentino, ma esteso a tutta Toscana, rappresentata dai suoi Deputati, creava lo impedimento giuridico di sottostare al plebiscito. Più tardi vedremo i pubblicisti della rivoluzione sostenere acremente questo tema, e il Governo, opponendogli sempre la doppia origine e il mandato della Rappresentanza Nazionale, dichiarare che niente dovesse innovarsi senza il consenso di tutto il Paese. — La Costituente salvò la Toscana dalla Repubblica, o, a meglio dire, dalla Demagogia.

Ogni altro concetto a chiara prova è assurdo, e dimostra stupido e bieco ingegno tanto in cui lo esprime quanto in chi lo crede, o piuttosto finge di crederlo. Invero, dove non fosse stato pel fine poi oltre avvertito, da quando in qua la rivoluzione, che consiste nel sovvertimento delle forme legali, implora il battesimo della legalità? La rivoluzione nasce dalla forza, e in quella si appoggia. Se la forza si mantiene per essa, dura, e si costituisce una legalità nuova; o la forza l'abbandona, e allora, che le giovano non solo le forme più o meno legali di cui seppe circondarsi, ma le promesse eziandio, le convenzioni e i trattati? La rivoluzione dal conservare tutte o parte le istituzioni che ha osteggiato, tutti o parte gli ufficiali del Governo caduto, non ricava forza; all'opposto debolezza, e questo è facile ad intendersi.

Il Decreto del 10 giugno 1850 affermava che io mi condussi ad arringare: osservai, ch'egli era il bel sollazzo davvero buttarsi là, per le angustie di scale lunghissime, in mezzo alla folla imperversata, la quale, se nemica, ti opprime per odio; se amica, ti soffoca per tenerezza. Il nuovo Decreto e l'Atto di Accusa si compiacquero introdurre nella storia una lieve variante: non mi condussi, ma vi fui condotto. Ma perchè non dire a dirittura il vero, che vi fui portato? O che fa tanta paura il vero ai Giudici miei? Perchè non rammentare, che intimato a scendere in piazza recusai apertamente? Tanto sagaci i Giudici, perchè non avvertirono che il Popolo a me solo appellava? Nè anche notarono, che una seconda mano di Popolo, troppo più numerosa della prima, venne per istrascinarmi in piazza? Perchè sfuggì loro, come alla forza fisica si aggiungesse la forza morale dei Colleghi, e segnatamente quella del Vice-Presidente Zannetti, che acceso, come sempre, di amore pel pubblico bene, con fervorose parole scongiurava andassi, e alla pericolante società con ogni supremo sforzo sovvenissi?

Esposta la storia della Seduta come resulta dal Monitore, e com'è vera, a che montano le inesattezze, gli artificii e le insinuazioni nemiche dell'Accusa? — Quello che avevamo a pubblicare a tutti non potevamo comunicare segretamente. Con noi, in qualità di Ministri, non v'erano misure da prendere, perchè, pel fatto dell'assenza del Principe, cessavamo dal Ministero. Più ancora: il Parlamento, se si sentiva capace a provvedere, non aveva mestieri affatto del Ministero nè giuridicamente nè materialmente. Il segreto, impossibile e forse fatale. Popolo, ora composto di ragazzi, di cenciosi e di poca plebaglia; ora minaccioso, fremente, operante irresistibile violenza; ma prima composto e poco; poi nelle Camere si estende e costringe; la quale contradizione grossolana è così apparecchiata a modo di fantasmagoria con fine sinistro, ed è questo: le milizie non si mossero a reprimere, perchè, ordinate contro la vera e propria sommossa, non ravvisarono siffatto carattere nella scarsa, cenciosa e ben composta plebaglia che si condusse a deliberare il suo plebiscito sotto le Logge dell'Orgagna; ma quel medesimo Popolo come uscito fuori del sacco del prestigiatore giganteggia dentro la Camera per giustificare la violenza fatta ai Deputati: però vi era da calafatare un'altra fessura, e per questa trapela l'acqua nella barca storica dell'Accusa, così che minaccia passare per occhio; invero, se poca, di ragazzi e cenciosa era la turba, tanto doveva riuscire più agevole alla Guardia Civica repulsarla dalla Camera. Le pretese minaccie di morte a cui fra i Deputati si assentasse, non impedirono che molti partissero incolumi, e taluno non ritornasse. La discussione vi fu, e obiettiva, non terminata da violenza popolare, ma per volontà dei Deputati pensosi non tanto del Popolo presente, quanto del Popolo rimasto senza freno a imperversare per la città. Al Governo Provvisorio furono date amplissime le facoltà di provvedere alla salute della Patria, e per convocare i comizii, onde il Paese sopra le sue sorti si consultasse. Se in quel giorno, e nei successivi, e sempre, il partito d'interpellare il consenso universale alla prepotente violenza della fazione non si opponeva, io vorrei che mi dicesse l'Accusa che cosa mai avrebbe saputo ella opporre? Il mio detto, che non temevo del Popolo, riportato con tanta ostentazione, che cosa poteva significare se non che fiducia che il Popolo non trascorresse a iniqui fatti; fiducia, che, onorandolo, giovasse a confortarlo e a persuaderlo di frenarsi? Forse egli importa che l'atteggiamento del Popolo non fosse pauroso, o forse, che sempre uguali si mantenessero le condizioni dell'animo mio? Riguardo allo avere accettato favellerò fra poco.

Intanto giovi riportare la opinione di un Giornale a me infestissimo, organo del Partito avverso al mio Ministero, la quale varrà a chiarire come i Deputati, senza la spinta del Popolo, avrebbero eletto un Governo Provvisorio:

«La fuga del Capo dello Stato e la dimissione del suo Ministero, alteravano sostanzialmente la economia del Governo Costituzionale, e imponevano la necessità alle Assemblee legislative di provvedere per qualche modo straordinario ed eccezionale al reggimento dello Stato. Questa necessità era nella mente di tutti; e dove il Circolo politico non avesse invasa l'Assemblea ed imposto il suo voto, il Consiglio avrebbe deliberato un Governo Provvisorio.[185]»

Ma via, sopra tutto questo diamo di spugna; — frego, e da capo. Immagini l'Accusa di essere a sua volta tradotta davanti un Tribunale (e non deve riuscirle a immaginarlo difficile, imperciocchè al cospetto della coscienza pubblica ella stia quanto me, e forse più di me), e risponda. Se l'uomo che ora è segno a scellerata ingratitudine, nel giorno ottavo di febbraio 1849 non aveva cuore per voi altri tutti, che cosa sarebbe accaduto della Toscana? — Dirà ella, che la parte repubblicana, la fazione demagogica e le plebi cupide e feroci avrebbero quietato? Da quando in poi i leoni posano prima della preda? E chi avrebbe tutte queste forze contenuto? Per propria loro deliberazione sarebbono per avventura quietate? Questo, io penso, comecchè ne abbia dette delle marchiane davvero, non voglia affermare l'Accusa. Dunque: i Deputati? Ma se l'Accusa ce li dipinge sbigottiti disertare il campo! Noi Ministri? Ma se l'Accusa c'incolpa per non essere fuggiti ancora noi! La Corona? Ma se in quel giorno errava incerta del luogo dove l'avrebbe condotta la Provvidenza! La Guardia Civica? Ma se l'Accusa ci racconta, ch'ella riponeva la baionetta nel fodero! La Milizia stanziale? Ma se senza ordini non si muove; e chi glieli potesse dare mancava, per non dirne altro! I Cittadini di parte avversa? Ma se il Governo nel 22 febbraio non gli salvava dal furore della moltitudine, questa gli avrebbe sbranati! — Chi dunque ha impedito che nel giorno ottavo di febbraio la rivoluzione allagasse tutte le terre della Toscana nella pienezza del suo trionfo?

O Giudici, con quella mano stessa con la quale ora vi basta l'animo scrivere accuse contro la mia costanza, quali non avreste vergato improperii al mio nome, se per viltà fuggendo vi avessi lasciato in balía alle furie rivoluzionarie? O Giudici, ditemi, la mano con la quale tracciate le accuse disoneste, non è quella dessa che scrisse per me uno dei trentamila e più voti, co' quali il Compartimento Fiorentino volle onorare i miei travagli sofferti in pro del pubblico ordine? Ah! voi sfondate gli ombrelli adesso ch'è passata la pioggia? Come padri di famiglia, io vi tenea più provvidi.

Stupendo a dirsi, quanto a considerarsi angoscioso! Giustizia mi viene donde io non l'aspettava. Nel Giornale intitolato La Civiltà Cattolica, fascicolo 27, a pag. 366 leggo: «Dal 12 aprile 1849, che il Guerrazzi venne arrestato nel Palazzo Vecchio, e chiuso poi nel Forte di Belvedere, ha passato i suoi giorni prima nella Casa di Forza di Volterra; quindi nel Carcere penitenziario delle Murate di Firenze, ed ivi tuttora si trova.

Grande sarà la curiosità pubblica di questi dibattimenti. È forza però convenire, che a lui ed alla sua stessa ambizione,» (se ambizione di far del bene, forse non crederò mi disconvenga la parola), «non che alla penetrazione dello ingegno, dovè la Toscana non essere caduta allo estremo dei disordini e delle rovine demagogiche. Ed egli ben lo sa; anzi è fama avere detto, nell'atto che fu preso: — Se i Fiorentini avessero due dita di cervello, e mezza oncia di gratitudine, mi dovrebbero alzare una statua.» (Questo già non dissi, ma nulla in sè contiene, che con alquanto più di modestia non senta avere potuto dire io.)

Per siffatto modo i Gesuiti rendono a me quella giustizia, che Magistrati Toscani mi hanno acerbissimamente negata fin qui. E sì che i primi, davvero, non mi vanno debitori di nulla, mentre i secondi, io penso, mi dovrebbero pure qualche cosa! Io quante volte ho posto l'articolo dei Reverendi Padri a confronto con gli atti dell'Accusa, non senza riso mesto ho ricordato quel detto romano che andò su per le bocche degli uomini, quando Urbano VIII dei Barberini spogliava del metallo corintio la vôlta della Basilica di Agrippa rispettata dagli Unni e dai Goti:

Quod non fecerunt Barbari fecere Barberini!

Dopo questa storia di fatti, desunta dai Documenti autentici, diventa più chiara la quistione, imperciocchè ella deva formularsi così: fui io provocatore o complice delle macchinazioni della parte repubblicana precedenti il giorno 8 febbraio? Il Giurì della pubblica coscienza, io confido, dirà: no. Allora ne scende per necessità questa deduzione: che se non fui complice, ne fui oppositore a un punto e bersaglio.

Apologia della vita politica di F.-D. Guerrazzi

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