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IL SUOCERO.

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…………il maligno

Che in lei strada sì larga aprir si vede,

Tacito in sen le serpe, ed al governo

Dei suoi pensieri lusingando siede:

E qui più sempre l'ira, e l'odio interno

Inacerbisce……

TASSO, Gerusalemme Liberata.

—Io mi vo' chiarire da me stessa, esclamò Luisa con gesto risoluto. Poi si acconciava alla meglio le vesti dimesse: trasse fuori della cassa una mantiglia di seta nera per avvilupparvisi dentro; e, raccomandati i fanciulli alla unica fantesca che teneva in casa, ammonendola più e più volte che non li perdesse di vista, se ne andò difilato al palazzo del suocero.

Giunta nell'anticamera notò come gli staffieri la sbirciassero sott'occhio, reputandola femmina di piccolo affare; e forse già stavano per straziarla con motteggi plebei, quando la gentildonna troncò a mezzo cotesti sguardi, e favellii villani; imperciocchè andando loro incontro, con signorile atteggiamento comandasse:

—Avvertite il Conte don Francesco, che donna Luisa Cènci sua nuora si è recata al suo palazzo per visitarlo… e che adesso sta aspettando in anticamera…

Ora sì che parve ai servi essere usciti dalla padella e saltati su la brace. Non sapevano se dovessero annunziarla, o no: l'un partito e l'altro pieno di pericolo. Tanto era arabico il carattere del padrone, che, se non la indovinavano, il meno che potesse andarne loro stava nel perdere il pane.

Il pane! Ago magnetico, che conduce più bestialmente delle stesse bestie l'armento dei figli di Adamo.

Il pane! Nutrimento quotidiano, che gli uomini o più infelici o più bassi dei bruti, troppo spesso non sanno procacciarsi senza delitto, o senza viltà.

Il pane! Sasso, che la necessità lega al collo ad ogni nobile sentimento per affogarlo nello inferno del male.—Certo fu grande la sapienza, che insinuò nella preghiera domenicale la domanda a Dio di somministrarci il nostro pane quotidiano; ma poichè la troviamo sovente inesaudita, gioverebbe grandemente aggiungervi queste altre parole: e se non puoi, o non vuoi darmi pane, dammi almeno la costanza per morire di fame senza viltà.

Intanto l'uomo non vuol morire di fame, e stende la viltà sul pane come burro; nè pare che gli turbi lo appetito, o gli guasti la digestione.

I servi più vecchi, ormai per tre quarti diventati carne di volpe, si restrinsero insieme per avvisare il da farsi, e fu il consiglio corto; imperciocchè uno di loro, ch'era stato cantiniere al Convento del Gesù in Roma, ammiccando degli occhi certo giovane staffiere preso da pochi giorni agli stipendii del Conte, di natura vanitoso anzichè no, profferisse la sentenza: «loda il folle, e fallo correre». A questo fine gli dissero:

—Ciriaco… da bello… tocca a voi:—vi lasciamo il campo di affiatarvi col padrone;—e poi voi siete giovane, e garbato—noi siamo vecchi, e dei modi che costumano oggi con le Signore non sappiamo niente… sicchè la presentazione della gentildonna vi spetta proprio de jure.

I vecchi servi tesero la insidia per malignanza, il giovane v'incappò dentro per vanità;—forse col concetto segreto di supplantarli un giorno nel favore del padrone. Tristi tutti, come per ordinario avviene della famiglia dei servi guidata sempre dallo iniquo istinto del pane.

—Eccellenza, inchinata la persona come il primo quarto di luna, parlò Ciriaco pervenuto al cospetto del Conte;—sta qui fuori certa gentildonna, la quale si annunzia per nuora della Eccellenza vostra, e desidera udienza.

—Chi, dite voi?—

Gridò il Conte dando un balzo sopra la sedia. Egli procedeva verso i servi con sembianze sempre severe: oggi poi comparivano paurose; molto più che teneva il volto avviluppato dentro fasce di tela, e nella guancia tumefatta sentisse acerbissimo il dolore della scottatura.

—La nuora di vostra Eccellenza…

Il Conte squadrava il servo con occhi così truci, ch'egli sentì venirsi addosso il freddo della quartana: pure, sostenuto dalla virtù del pane, e vie più curvandosi verso terra, soggiungeva Ciriaco:

—Quantunque non mi sia sfuggito d'occhio che la sua gente, per cento motivi uno più plausibile dell'altro, non va a genio di vostra Eccellenza…

—Voi avete osservato questo?

—Questo ed altro, perchè egli è proprio il mio gusto non lasciare nulla inosservato nelle voglie dei miei padroni per antivenire i desiderii loro; ciò nonostante mi parve villania rimandarla, attesa la riverenza della clarissima casa di cui la gentildonna afferma portare lo illustrissimo nome.

Don Francesco sorrise un tal suo riso di sdegno considerando come quel gaglioffo, a prova di lusinghe, s'ingegnasse insinuarglisi nel cuore; e poichè quegli ebbe posto fine al parlare, egli tenendogli gli occhi fitti nel volto così prese a dire:

—E qual cosa vi ha dato motivo di supporre che i parenti miei, ed in ispecial modo donna Luisa mia signora nuora, potessero riuscirmi molesti? Voi spiate gli andamenti dei vostri padroni, ed è gran male; voi interpretate alla rovescia le loro intenzioni, e questo è peggio. Andate dal mio maestro di casa; fatevi pagare l'annata intera, e spogliate la mia livrea;—stasera non avete a dormire in palazzo[1].

Il servo rimase come colui, che cercando sotto un albero rifugio dalla pioggia, sente cascarsi sul capo un ramo rotto dal fulmine; volle prostrarsi, s'ingegnò parlare, e così con voce e con cenni domandare mercede; se non che il Conte, mal sofferendo che il servo si trattenesse dopo il suo comando, con suono al quale era impossibile resistere aggiunse:

—Uscite…

—Ah! clarissima ed illustrissima donna Luisa,—diceva il servo con parole ardenti—vede… per aver fatto entrare vostra signoria tocca adesso uscire a me. Lascio considerare a lei se sia giusta. Io mi trovo proprio per le strade:—non dirò per colpa sua, Dio me ne guardi!; ma finalmente per renderle servizio mi capita addosso questo male:—veda un po' di ripararlo: mi raccomando a lei, gliene va di coscienza…

L'anima del servo, mezzo supplicando e mezzo rinfacciando, stretta dalla agonia del pane, si attaccava a donna Luisa (disprezzata poco anzi) come ultima àncora di speranza.

Luisa per vero dire sentì stringersi al cuore pel duro caso, e più per quel meschino; e stette in forse se dovesse andare oltre, o ritornarsene a casa; come quella a cui pareva avere avuto schiarimento abbastanza, ed essercene di avanzo: tuttavolta prevalse in lei il consiglio peggiore, ed entrò.

I vecchi servi furono attorno al compagno disgraziato, e sottilmente deridendolo gli medicavano la ferita con l'olio di vetriolo.

Luisa, con atto nè umile nè superbo, si fece accosto al banco dove il suocero l'aspettava in piedi; e poichè, ella per onorarlo come padre, voleva prostrarglisi davanti, egli non lo permise; ma rilevandola prontamente, con voce benigna favellò:

—No, figlia mia, io non ho le orecchie nei piedi. Non sia per rimprovero; ma la creatura umana non deve prostrarsi ad altri, che a Dio.

—Signor padre, poichè voi così benigno mi concedete il diritto di adoperare questo nome, permettete che innanzi tratto vi domandi perdono di non essermi mai presentata al vostro cospetto. Mi avevano assicurato che voi mi avreste bandita da casa vostra… questa onta, voi intendete, è insopportabile per una gentildonna romana…

—Certo, farvi moglie del mio figliuolo primogenito sul quale aveva riposto ogni mia tenerezza come ogni mio orgoglio,—senza pure impetrare il mio consenso,—anzi senza domandarmi la benedizione paterna:—ma che parlo di benedizione e di consenso? senza pur farmene un semplice motto,—parmi tale oblìo di ogni autorità,—tale un disprezzo di qualunque reverenza, che il cuore di un padre non può astenersi di gemerne profondamente. In quanto poi al cacciarvi dalla mia presenza, perdonate,—ma la mia nuora, come colei che sente essere gentildonna romana, dovrebbe sapere, che un barone romano non può mai mancare di cortesia verso una donna, anche quando potesse riuscirgli per avventura molesta…

E siccome Luisa, punta dalla sottile allusione al suo umile lignaggio, stava per rispondere con vivezza, l'astuto vecchio, che bene se ne accorse dal colore vermiglio che le si diffuse su per le guance, si affrettava soggiungere con voce soavissima:

Beatrice Cenci: Storia del secolo XVI

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