Читать книгу La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi, Francesco Guerrazzi - Страница 10
CAPITOLO NONO. IL PRIGIONIERO
ОглавлениеOh! perchè almeno
Lungi da lui non muoio! Orrendo, è vero
Gli giungeria l’annunzio; ma varcata
L’ora solenne del dolor saria;
E adesso innanzi ella ci sta: bisogna
Gustarla a sorsi, e insieme.
Conte Di Carmagnola.
Erano giunti a piè della scala. Il corridore appariva in parte illuminato da luce lontana. Si appressavano: giunsero ad un vestibolo separato dalla prigione con ispessi cancelli. L’anima e gli occhi di Rogiero percorsero in un baleno la scena che si offeriva. Vide un uomo quasi sepolto in una sedia: le sue membra non erano del tutto manifeste, imperciocchè fosse vôlto altrove il raggio della lampada; pure sembrava pallido e vecchio; i capelli aveva tutti bianchi, teneva gli occhi chiusi, pareva volesse assuefarli a morire. – Lì davanti stava un tavolino; sovr’esso una tazza e un Crocifisso. A canto della sedia per terra giaceva una lunga bacchetta tutta intaccata, e le tacche, benchè la più parte regolari, ad ora ad ora più profonde. Cotesta fu opera di dolore. – Allorchè quell›infelice chiusero là dentro, lo prese vaghezza di annoverare i giorni della sua prigionia, onde conoscere la durata di un tempo destinato a soffrire, e deliziarsi nella speranza che questo tempo andava a decrescere: forse ancora fidente di giorni felici, stimò doverne ricavare argomento di gioia, qualora le future condizioni potesse paragonare con le presenti. Adesso cotesta opera giaceva in terra negletta. – La speranza, che siede ultima al capezzale del moribondo, e si mostra ai suoi occhi, quando anche velati dalla nebbia della morte non giungono più a discernere le care sembianze dei parenti e degli amici… la stessa speranza aveva abbandonato quel cuore. Quando gli anni accumulandosegli sopra la testa mutarono in bianchi i suoi biondi capelli, non più l›anima e le carni gli tremarono al suono che faceva la porta volgendosi sopra i cardini, nè ad ogni tocco sul serrame che la sbarrava stimò giunta la mano pietosa che doveva ricondurlo a godere della faccia del cielo. – Disperato gittò via cotesto istrumento, che insegnandogli a distinguere lo affanno glielo rendeva più insopportabile e più lungo; – amò considerarlo come una gran giornata di travaglio, di cui la notte doveva trovare nella morte. – E di vero la luce non iscompartiva i suoi giorni. Dal punto in ch›ei fu posto in carcere non aveva più veduto l›aspetto dell›orizzonte, nè pure dalle inferriate; – e poichè il suo giorno era tenebra, doveva immaginarsi la sua morte nel nulla. – Divenuto affatto insensibile, stette come cosa inanimata ad aspettare il momento dall›ordine delle cose destinato alla sua estinzione. Almeno gli fosse rimasto il coraggio di porre fine a tanto compassionevole esistenza! Questo pensiero, che vuole per la sua esecuzione tutte le potenze dell›anima, gli sorse in mente, allorchè avvilito dalla sventura ricercò invano nelle passioni dei tempi trascorsi un avanzo, che valesse a restituire le membra agli elementi, variando forma alla sua materia. Non sospiro, non voce lamentosa gli usciva dai labbri… quello che dal profondo dell›amarezza, o dal furore dell›ira potea dirsi, aveva detto miliardi di volte; – gli rimaneva il silenzio, ed egli era muto come un sepolcro. Gli anni lo avevano affatto cancellato dalla rimembranza degli uomini. – Per lui niun gemito, nessuna parola di amore; e se talora il nome si affacciava al pensiero dell›antico servitore, che seduto a canto al fuoco narrava le glorie della casa di Svevia ai valletti e all›altra gente della famiglia, si guardava bene di chiamarlo sul labbro, perchè ricordava un colpevole di tal delitto, che atterrisce lo stesso Lucifero; o se pure ve lo chiamava, lo profferiva in basso sussurro… alla sfuggita… come quello di un dannato. Per lui vivo non si aveva nè pure quello scarso affetto che si conserva pei morti.