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CAPITOLO TERZO. IL PRIMO BACIO

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Il mattin lucido lei sospirosa,

Lei sospirosa vede dal tacito

Suo cocchio d’ebano la notte ombrosa;

Di tutta l’anima divien signore

Amor, se sola, se inerme trovala;

Donzelle tenere, temete Amore.

Arminio, tragedia.

Che cosa è mai il tremito dilettoso che sorprende il corpo e la mente all’aspetto della bellezza? – Forse l’anima fu destinata a sentirsi commuovere per tutto quello che è bello? Forse il principio divino dell’uomo gode vagheggiare quaggiù tutto quello che sembra di Dio? Ma perchè dunque il pensiero non si esalta alla vista dei cieli? Perchè scorgiamo tranquilli il torrente della luce? Perchè se pietà di consorte o di amico non ci compunge, non mandiamo sospiro allo aspetto del pianeta della notte? – Che ha mai la terra da agguagliare alla grandezza dei cieli? Ahi! non l’anima si sublima alle forme della beltà: non il pensiero divino si esalta alla emanazione del Padre delle cose perfette; bensì il furore di turpe voluttà ci turba nel profondo, è l’idea di sozzo piacere quella che ci stringe il cuore, e ci rapisce la voce. Uomo, tu puoi essere solo convenientemente paragonato al fango dal quale nascesti! O amaro frutto della scienza del bene e del male, tu ci bai tolto perfino le illusioni che potessero essere magnanime, i palpiti del cuore!

La gioia dello intelletto suscitata da un istante di esaltazione, dove non trovi cosa reale che la mantenga, poco dura. Colui che travaglia le anime immortali troppo profondamente conosce tutti i modi della pena per non lasciarle lungo tempo in una medesima angoscia; perocchè allora o questa angoscia diverrebbe natura per forza di prepotente abitudine, o, se tale da non potersi durare, la morte correrebbe veloce su le tracce di quella; onde il Tormentatore che allontana quanto più può la morte dalla sua vittima, conoscendo il travaglio consistere meno nella intensità che nella durata, si mostra sollecito a variarle il modo di supplizio, onde non si abitui o non soccomba. Arimane, allorchè si avvisa perdere lo sventurato viandante, non lo aggrava di subito con tutta la forza della sua potenza, ma a quando a quando gli manda tra le frasche della foresta una luce, o suscita una voce di gente vicina, affinchè il suo cuore si apra alla speranza, che poi gli faccia più amaro lo sconforto della tenebra, e della quiete spaventosa che precede la tempesta. Stanco finalmente il mal Genio di questo giuoco spietato, appresta l’ultimo danno, e lo scherno più feroce. – L’abituro degli uomini dista pochi passi dal viandante; già il suo spirito si rallegra nel piacere del calore che renderà il moto alle sue membra irrigidite, e nel ristoro del cibo; ma tra lui e l’abituro è aperta una voragine… egli dirizza il guardo alla luce, nè bada alla via… la terra gli manca sotto i piedi… precipita alzando urla disperate; alle quali fanno eco le risa di Arimane, che, sporgendo la testa dall’orlo del precipizio, gode vedere su quante rocce percotendo lascerà viscere e sangue, prima che giaccia lacerato nel fondo.

I fantasmi della gloria aveano abbandonato il giovane scudiero posto a guardia dei giardini reali: ad ora ad ora cupamente gemeva, ed esclamava: «O ambizione! o amore!»

Al pronunziare che fece questa sentenza, un leggerissimo moto lo trasse a sollevare gli occhi da terra, e… non sarebbe questa una illusione della sua mente di fuoco?… No… una forma leggiadra più che fantasia può immaginare, e poesia descrivere, gli stava dinanzi. La sua persona era tutta avvolta in lungo velo nero chiamato grimpa, che a quei giorni le belle Siciliane adoperavano per cingersi collo e seno, e parte del corpo, facendo più lieta la bellezza col suo migliore ornamento, – il pudore. Mortale la dimostravano il ventilare delle vesti. che svelava tutti i cari contorni di quel corpo delicato; ma il passo leggero, che appena piegava le foglie calpestate, poneva il risguardante in forse, se più che alle terrene appartenesse alle spirituali sostanze. – Il fantastico poeta l’avrebbe detta il Genio della Malinconia, che scende tacitamente nella notte a mormorare in basse voci un lamento, per non isvegliare i figli della terra ora solo felici: – ora, perchè oppressi dal sonno fratello della morte.

La vergine del sangue svevo, ignara da cui movesse quel sospiro, si volse al luogo donde era uscito per consolare l’afflitto; – perchè in qual cosa mai consisterebbe gentilezza del cuore, se il grido della miseria fosse invano ascoltato?

«Santa Maria dello Spasimo!» diss’ella, entrando sotto la volta che i raggi della luna non rischiaravano; «i tuoi devoti sono più di quelli che vorrebbono. e dovrebbero essere. – Chi è che geme qui dentro? Parla… se sei sventurato, sappi che nessuno si dipartì senza conforto dal cospetto della figlia del Re Manfredi.»

La risposta fu indarno lungamente aspettata; i labbri dello scudiero non si prestarono all’usato officio, ma tremarono, e il soffio della morte parve estinguere in lui la fiamma della vita.

«Parla,» riprendeva Yole «non mi muove già vano desio a conoscere le tue sventure. Se in me non fosse potere da consolarti, non avrei la crudeltà di domandare i tuoi patimenti; perchè sebbene la curiosità ostenti la favella della compassione, io per me aborro colui, che pretende conoscere il cuore dell’uomo per lo indolente piacere di conoscerlo. Io ti sollecito a parlare; se i tuoi mali possono consolarsi, tu avrai conforto da Yole; dove io non basti, aspettalo dal tempo; se neppure questo giova, aspettalo…»

«Dalla morte!» gridò lo scudiero.

Qual fu il senso segreto di Yole a questa voce, e a questa sentenza? E’ fu tal senso, che favella umana non può riferire; la quale cosa crederemmo pietà, se mancando i modi di significarlo non ci fosse stato compartito cuore da sentirlo. E il volto? Ah! le tenebre le coprivano il volto, ma certo fu quello della creatura che dal tempo precipita nell’infinito.

Un lungo silenzio seguiva: alfine Yole con voci interrotte continuava:

«Dalla Religione, – Rogiero, – dall’esempio della pazienza del Signore.»

«Pazienza! – E sempre pazienza! S’eravamo nati a soffrire, perchè non ci fu data un’anima più forte a sostenere, o perchè fummo tolti dal fango, che non sente di essere calpestato, alla forma che freme per la gravezza dell’oppressione?»

«Profondi sono i misteri del Creatore… sperate… I cieli annunziano la gloria di Dio, ed egli non può fare a meno che reggere giusto;… mantenete la vita, non perchè ella sia bene, ma perchè la morte è ineffabile dolore.»

«Ma solo… Spenta la vita dell’anima, che è la speranza, la distruzione del corpo segue necessariamente, e con ambascia infinita. Or tutto sta nella scelta di sopportarla sparsa per lungo spazio di vita, o concentrarla in un punto, e morire. Guardimi il cielo da vituperare colui al quale la natura non ha dato la forza di vedersi brillare la punta del pugnale sul cuore, con lo stesso sorriso che altri accoglie l’aspetto della bellezza; – ma neppure chi lo può, sia biasimato. La via di colui che sta in cima al monte va alla pianura; altri stende il corpo sul pendio, e trasvola al termine del sentiero; altri vi perviene movendo il piede in brevi passi, tentando prima il luogo, ritraendosi, e nuovamente provando. Chi di costoro vuolsi lodare, chi riprendere? Nessuno: quegli fu ardito, questi cauto; – ma la via di ambedue tendeva alla pianura, ed ambedue la fornirono.»

«Rogiero, le vostre parole suonano come quelle del serpente.»

«Principessa, non so se fosse scellerata la favella del serpente, ma per certo fu vera.»

«No… scellerata, e fallace. Non promise egli di farci uguali a Dio? Infelici traditi! noi abbiamo imparato il duro mistero, che la nostra mente non è capace a comprendere. Atrocissima scienza! E dalla nudità della mente oseremo sollevare la fronte ribelle fino al Creatore? Ma di ciò basti, chè al cuore indurato riesce ributtare ogni argomento di salute, e lo spirito del male ragiona più sottile di quello del bene, il quale è piuttosto lieto della sua gioia che valente a dimostrarla. Poniamo che la morte deve soccorrere il disperato; ditemi, – sapete voi quale sia il momento in che la speranza vien meno?»

«Allorchè le cose presenti appaiono passate, e le passate presenti; allorchè divisando la tua via a oriente ti trovi a settentrione; allorchè gli occhi vedono senza lagrime le rovine del vulcano, e la gioia dei prati in primavera; allorchè la mano di tutti si alza contro di te, e la tua mano si solleva contro di tutti, e il saluto di tuo padre ti suona come maledizione, e quello dei figli come rampogna; e il labbro volendo profferire la preghiera, mormora bestemmie, e i cieli nessuna altra cosa presentano fuorchè una volta della terra che il caso ha fabbricato e che il caso può distruggere… ovvero l’eterna dimora del forte Signore del fulmine…»

«Santa Vergine! voi bestemmiate…»

«Io dico che allora la speranza è morta.»

«Cotesta è la vita del dannato; nè in così miser stato siete caduto, Rogiero. Le vostre parole scesero nell’anima mia, voi sarete consolato.»

«Che! Avreste voi intese tutte le mie parole? Oh! non vi badate, le profferii nel delirio… La ragion in quel punto era ebbra di dolore… Ma vivaddio! si addice a cortese donzella porgere orecchio alle parole del delirante?»

«Io trapassando nient’altro ho inteso proferire che amore…»

«Amore! sì… poichè lo intendeste… ma disperato amore… e non solo… e pure di per sè stesso potente a consumare ogni anima che ardisca nudrirlo. Un amore, di cui il pensiero è fremito, la conoscenza delitto, la rivelazione pena…»

«Ma questi sono gli attributi del misfatto!»

«Gli uomini lo direbbero tale, perocchè il delitto non compaia delitto, se non per essere perseguitato con le pene; egli però in sè stesso non è colpevole, ma alto…»

«Rogiero, il Trovatore canta spesso su l’arpa, che amore può molto più che noi non possiamo; non è la prima volta che la bellezza e il potere hanno coronato il valore; nè vi ha spazio sì ampio tra due amanti, che il buon cavaliere non possa percorrerlo con la spada.»

«Sia: ma nessuna dama mi ha cinto la spada: niun Barone mi ha stretto gli sproni; il ferro del mio Re non ha toccato la mia fronte; nè la sua voce mi ha ammesso all’ordine della cavalleria. – Io sono oscuro donzello che porto spada per ornamento, non per arnese di guerra: e la mia mano, usa a tenere la briglia del palafreno di femmina, non sa come si tratti la lancia.»

«Voi dite il falso, Rogiero;… pensate che non vi riconoscesse Yole nel torneamento della Sala verde il giorno della incoronazione di mio padre? Non portavate i miei colori, la grimpa celeste che smarrii il giorno innanzi? Volenterosa vi avrei posto sul capo il premio della vittoria, ma vostri furono soltanto gli applausi delle dame del torneo.»

«Fui… sì, fui; ma qual forza mortale poteva vincere l’uomo che portava la divisa della figlia di Manfredi? Ecco: ella mi posa sul cuore, ed ella sentirà i suoi palpiti, finchè palpiti saranno in lui. Io la porto meno per vincere le battaglie terrene, che quelle del nemico infernale: perdonimi Dio! ma io non la cambierei, con la grimpa miracolosa di Sant’Agata. Io combattei, e la idea di combattere per voi mi era sufficiente guiderdone; nè io avrei sperato giammai che a voi si manifestasse. Ora tanta mi recano esultanza le parole vostre, che ogni sconforto della passata mia vita mi fanno interamente obliare. – Perchè mai non mi degnaste di uno sguardo? Perchè tenevate sempre dimessa la fronte? – Il giorno appresso io toccai la vostra mano… ella tremava… Vi offendeste forse del mio ardimento di correre lancia ornato dei vostri colori co’ più prestanti Baroni del Regno?»

«A dama di alto sangue non tornò mai disgrato il trionfo della propria divisa. Ma se quivi convenne la vostra donna, e vi conobbe, il suo cuore certamente diè sangue in vedervi combattere per altra…»

«Oh! ella v’era presente; nè le spiacque…»

«V’era dunque!» gridò Yole ponendosi una mano alla fronte. «Oh! s’ella v’era e non le spiacque, voi siete amante mal corrisposto. Manifestate chi sia. Voi già foste mio cavaliere, e il dovere più prezioso di dama cortese sta nel prendersi cura dei giorni di colui che gli ha esposti per onorarla. – Parlate, Rogiero: io vi giuro sopra la fede del sangue di Svevia, per quanto sta in me, di farvi andare contento.»

«Spirito del male, oh! come tentano feroci le tue lusinghe su la terra!…»

«Che mormorate, Rogiero? Forse vi riesco importuna? Sprezzate le mie promesse? V’infastidisce la mia voce? Ah! vogliate perdonarmi, e attribuirlo al forte amore e soverchio, che porto per… tutti gl’infelici.»

Così parlava Yole, e queste ultime parole le uscivano appena distinte dalle labbra: mesta, abbattuta, già moveva il piede per abbandonare quel luogo, allorchè Rogiero, come uomo al quale il destino abbia rapito il senno, le andò incontro, e senza nessuno rispetto afferratala violentemente pel braccio, la trasse fuori dell’arco al raggio della luna; quivi, gettando per terra la celata, si scoperse la fronte, appose sopra quella per forza la mano di Yole; e poichè alquanto ve l’ebbe tenuta ferma, in tronche parole le disse: «Che parvi, Yole, della fronte mia?»

«Che tutti i Santi del Paradiso vi guardino!» rispose esitando la figlia di Manfredi; «ella è fredda come il marmo di un sepolcro.»

«Deve esserlo. – Odimi, divina fanciulla, odi la parola di tale che saprà punirsi di avere parlato. – Io spesso nel fervore delle mie preghiere, nella rabbia delle mie maladizioni, ho sollevato un voto, inesaudito fin qui. Dammi, gridai, nè sapeva a cui, dammi un momento di gioia, e poi lascerò la vita. – Ora, sia ventura, sia destino, questo momento è venuto; questo momento è passato; nè in me dura costanza da aspettarlo lungamente, e forse indarno, nel supplizio della vita. – Concedi uno sfogo di parole e di lagrime al moribondo; esse non ti offenderanno; e quando anche ti offendessero, la mia morte non basterà alla espiazione?…»

«Rogiero!…»

«Yole, sai tu da quanto tempo io porto la tua immagine nel cuore? – Ella vi stava prima del palpito… prima del nascimento; imperciocchè prima di vederti ti amassi. Nel cammino della vita ho mirato le belle figlie degli uomini, ed ho vôlto l’occhio alla terra accorgendomi che venivano da essa. Ho veduto l’altera nell’orgoglio delle sue forme, e non ho desiato. Ho veduto il rossore della timida amorosa, e non ho sospirato… e diceva a me stesso: cuore di bronzo. non v’è grazia di amore che possa commuoverti? – Ma una immagine di bellezza turbava pur troppo il mio spirito, nè io l’aveva tolta da sembianze mortali… forse mi si affacciò alla mente, allorchè l’anima ristorata dal riposo torna agli ufficii della vita, e i suoi sogni sono ridenti come le rose dell’aurora. Io anelava angoscioso dietro la figlia della mia fantasia, e sovente nel delirio della passione le indirizzava parole, e: forma divina, – io le diceva, – esisti tu veramente? Oh! non sparirmi sul primo raggio del sole che sorge. Io per te rinunzierei alla sua luce. Vieni, celeste pellegrina, o silfide, o gnomo, o angiolo, o demone, a fare lieti i giorni della mia vita, e allora Rogiero sospirerà di amore. – Yole… un giorno ti vidi… Troni del cielo! le tue sembianze erano quelle della immagine della mia fantasia.»

«Rogiero,» disse Yole sollevando maestosamente il suo corpo, «sono parole queste, che un servo fedele possa favellare alla figlia del suo signore? Può la nepote della Imperatrice Gostanza convenientemente ascoltarle?»

«Non so, Principessa, se a voi stia bene ascoltarle, ma sapeva bene che in me era delitto profferirle.»

«Abbiatevi il mio perdono… vivete… ponete l’amore vostro in più avventurosa donzella, e che possa corrispondervi; me obliate.» E questo disse con voce soffocata; poi soggiunse con maggiore amarezza: «Rogiero, tanta corre la distanza in questo mondo tra noi, che non potete sperare di essermi unito in nessuno altro luogo che in cielo, dove, tolta ogni molesta distinzione, siamo tutti uguali nell’amore di un Solo

«Questo non ignorava, e però senza speranza vi amava, senza speranza i miei interni tormenti vi apriva. È vero che amore può molto più che noi non possiamo; ma è vero ben anco, che occorrono distanze a percorrere impossibili; e voi, orgogliosi, balzati dalla ingiustizia o dal caso sui troni della terra, stimate avere onnipotente impero sopra le anime immortali. Miserabili! e non sapete che l’anima ha tali ferite, che nessuna potenza al mondo vale a sanare! – Dovrei forse accusarti di presunzione, per avere voluto conoscere un male che non istava in tuo potere di volgere a bene, e farti sentire che sei polvere… coronata sì, ma polvere? No: valgati l’animo cortese, e la lusinga del potere che troppo ti fa baldanzosa, e più valgati trovarmi io disposto da gran tempo alla morte, e disperato affatto. Pareami morire con un peso sull’anima tenendo celato il mio amore; ora, poichè l’ho potuto svelare, parmi che poserà su di me più leggera la terra del sepolcro. – Yole, la religione e il cuore ammaestrano di una seconda vita, e più durevole: la mente abbandonata a temerarii pensieri la nega. Comunque ciò sia, quello che ora ti domando, con la preghiera più profonda della mia anima lacerata, o farà lieto lo spirito se sopravvive alla mia morte, o il solo istante della mia partenza dalle cose viventi: – un sospiro ti chiedo, un solo sospiro. Il tempo non ha velocità da misurarne la durata, ma egli è una eternità di contento per colui al quale s’invia; e quando, sposa felice di un potente della terra, vedrai le spoglie delle vinte nazioni al piè del tuo trono, e te sollevata a tanta grandezza che dopo Dio l’uomo volga a te le sue preghiere e i suoi voti, e udrai il tuo sposo chiamarti l’eletta del cuore, e dirti per te avere ornate le sue tempie di alloro, per te acquistato il premio maggiore che la gloria può concedere all’uomo, e nel tuo nome avere combattuto, e nel tuo nome aver vinto… oh! allora ti ricorra alla mente il pensiero del povero Rogiero che ti amò tanto… e ricorda sospirando: egli mi amava così; – e tu piangerai, e alla storia della mia feroce sventura forse piangerà anche il tuo magnanimo consorte, – piangeranno tutti. – Nessuna altra gioia occorre in questa vita, tranne la speranza di un sepolcro lagrimato… Yole, l’ora della mia dipartenza è arrivata; prega per un’anima che passa, i di cui ultimi pensieri non possono essere di Dio…»

Pallido come quello che viene strascinato al patibolo, ma fermo nel suo fiero talento, Rogiero cavò il pugnale, e fece atto di rompersi il seno.

Forse non aveva Yole sopportato fin qui la più grave battaglia, che femmina al mondo voglia e possa sostenere? Doveva ella resistere anche a questa ultima prova, e, dovendolo, lo poteva? La passione repressa proruppe impetuosa, imperciocchè le passioni tengano della natura del fuoco; e la bella addolorata, a guisa di furente, mal sapendo che si facesse, si gittò al collo di Rogiero, ponendo il suo corpo tra il pugnale e il seno di quello. Pure così veloce fu l’atto, nè egli seppe di tanto trattenere il colpo, che a lei non iscendesse su la destra spalla, stracciasse le vesti, e la pelle lievemente sfiorasse. Ma il pugnale cadde, e rimasero abbracciati; il cuore dell’uno palpitò sul cuore dell’altro… le lagrime loro scesero confuse… le guancie, i labbri, si toccarono, – e il primo bacio di amore fu dato.

Io per me quando considero le sorti umane, credo che la gioia sia tremendo delitto davvero, perocchè la veda tanto gravemente punita; onde per quell’amore che porto ai miei compagni di maledizione, se alcuno ne incontro che adesso per anima, o per cosa acquistata, si dica felice, io mando una preghiera dalle interne mie viscere al Creatore del fulmine, e lo supplico che si degni nella sua pietà d’incenerirlo, e spargerne la polvere ai quattro venti della terra, onde l’uomo conosca, che può morire felice…

Ma perchè si rimangono tuttavia abbracciati? Oh! v’è una gioia in questa terra, che due amanti credano possa, non che superare, uguagliare gli abbracciamenti loro? Dov’è l’orgoglio del sangue? dove la paura della pena? Essi non hanno più da temere o da desiderare. Questo diletto trascorse, nè tornerà mai più. Il tempo, che essi hanno obliato, non si rimane dal percorrere la sua durata, e confondendo con le ore passate quella breve dolcezza mena velocissimo le sventure che devono intenebrare la rimanente lor vita.

La regina Elena, sposa di Manfredi, benchè per la nobiltà del suo sangue (chè discendeva dai Comneni di Epiro) alquanto orgogliosa, fu nondimeno affettuosissima madre. Una figlia ed un figlio avevano rallegrato il suo matrimonio. Gostanza, sua figliastra nata a Manfredi dalla sua prima moglie Beatrice di Savoia, portava di già corona reale, essendosi unita con Piero figlio di Giamo, potente Re di Arragona; rimaneanle però in casa Yole e Manfredino, vezzosissimo fanciullo, speranza del padre, di appena dieci anni nato; ma la sua tenerezza era per Yole, che considerava infelice; nè mai, per quanto s’ingegnasse, poteva trarla da quell’ostinato abbattimento. Le sue sembianze adesso erano maestose, una volta furono leggiadre quanto quelle della sua figlia Yole; se non che un tenue velo di malinconia, come dice il buon Pellico, diffuso per tutta la persona di questa, facea sì, che la gente piuttosto oggetto di reverenza, che di desiderio, la riputasse. Ora dunque in questa stessa sera la Regina seduta accanto il letticciuolo di Manfredino, poichè ebbe scôrto che il sonno era disceso su gli occhi della innocenza, si alzò diligentemente, e soffermatasi a considerare la pace che spirava dal volto di quel caro angioletto sentì spuntarsi una lagrima su le palpebre; allora curvò leggiera leggiera la persona, e datogli un bacio nella fronte gli susurrò sopra queste parole: – Dio sa, se pure te amo, o dolce figliuol mio; ma i tuoi sonni sono quelli del felice. Possa la pietà dell’Eterno concederti lungamente questi sonni! – Quindi lasciatolo in custodia di alcune damigelle, volse alla camera della sua diletta Yole.

Giunta che fu, aperse l’usciale; il vento, che soffiava nel corridore, glielo svelse di mano, e lo percosse con impeto alla parete. I doppieri della stanza tutti ad un punto si spensero: ella nondimeno avanzò; e sebbene acute strida la percotessero, avvisandosi di quello che era, senza turbarsi disse alle circostanti: «È qui la mia figlia Yole?» – Matelda, riconosciuta la voce, rispose tutta affannosa: «Santa Oliva di Palermo! siete voi, Regina? Voi ci avete fatto la più grande paura che mai sia stata al mondo.»

«Matelda,» soggiunse gravemente la Regina Elena «non su la vostra paura, ma di mia figlia io vi ho fatto domanda.»

«Regina, è nel giardino.»

«Rimanetevi con Dio, damigelle, e mostratevi in avvenire di più forte spirito, perchè sappiate la paura essere presentissimo segno di animo non retto.»

Così Elena, senz’altra compagnia, lasciando quelle codarde a rassicurarsi del terrore, e a dolersi del conseguito rimprovero, mosse al giardino reale, dove, poichè alquanto si fu aggirata, occorse in Gismonda. la quale, assorta nel pensiero degli ultimi casi, non le badò, se non dopo che l’ebbe per ben tre volte chiamata. A lei domandava di Yole; e vedutala mesta, volle saperne la causa, e conosciutala confortò la gentile damigella. Quindi unite si mossero a ricercare Yole.

Avvicinandosi alla gran porta che conduceva fuori del giardino, si offerse alla vista loro una donna distesa sull’erba; accorrevano affannose. – Dio eterno! Yole in quella abbandonata riconoscevano. Elena, vedendole la veste stracciata, e intrisa di sangue, riputandola morta, con orrenda ansietà le si gettò addosso cercando la parte del cuore per sentire se batteva… egli debolmente sì, ma pure batteva: allora guardò la ferita, conobbe essere leggiera, e sospirò.

«Gismonda, corri alla fontana, e porta un po’ d’acqua.»

Gismonda partiva. – Elena, postasi a sedere su l’erba. si recò in grembo la figlia, la scinse, e le soprappose una mano alla fronte, pietosamente riguardandola. Ella aveva gli occhi chiusi, e non di meno era bella. La luna la vestiva di una luce modesta, e parea godere d’illuminare quel volto, gentile quanto il suo raggio medesimo. – «Povera figlia!» ad ora ad ora diceva singhiozzando: ma allorchè il pianto le ingombrò gli occhi per modo, che più non potesse contemplare quel volto, gli volse al cielo e parlò:

«Accettate, Signore, questo sacrificio di lagrime: egli deriva da un’anima profondamente addolorata. Oh! dalla nascita di questa infelice figliuola non ho avuto più un’ora di bene. – Povera Yole! pur troppo tu fosti generata nella sventura,… ma… Dio onnipotente! se voi sapeste che sia per una madre vedere queste guance, su le quali non erano per anco sbocciate le rose della giovanezza, ora a un tratto impallidirsi: che queste membra, non ancora arrivate all’incremento loro, a poco a poco disfarsi, non mi affannereste così. – Povera innocente! La sua anima non conosce il peccato, e pure una pena orribile la turba, le avvelena la vita un secreto tormento, cui ella non può nè allontanare, nè conoscere, perchè Dio si mostra misterioso nei suoi stessi tormenti. Chiamasi pietà questa di ragunare tutte le procelle dell’inverno per atterrare un fioretto, testè apparso sul prato? Tua è questa carne, – quest’anima, tua: ma creasti tu forse per godere l’atroce diritto di distruggere? – Toglitela se ti piace, ma deh! non provarla con tanto dura battaglia… Elena! sciagurata Regina! tu hai ardito mormorare dell’Eterno… – Io? – Signore, le mie pene sono ben grandi… perdonatemi. L’angoscia accieca la mente: perdonate ad una madre, che lietamente darebbe in questo punto la vita, anzichè piangere sul sepolcro dei proprii figliuoli.»

In questo Gismonda a mani curve, a guisa di tazza, giungeva dalla fontana; ma la fretta fece sì, che appena poche stille di acqua vi si conservassero: queste nondimeno, spruzzate sul volto di Yole, ebbero virtù di ritornarla alla vita. Apriva la vergine languidamente gli sguardi, e tratto un gemito domandò: «Dove sono?»

«Nel grembo di tua madre.»

«Oh! non ne fossi mai uscita.»

«Che? Respingi il grembo che ti ha portato… il seno che ti diè il latte? Santa Maria! anche a questo era riserbata la Regina Elena?… Ah! le mie ambasce si fanno maggiori della mia pazienza.» – Così dicendo lasciava di sostenere la figlia, e, lacrimando disperatamente, cadeva.

«Gismonda!» disse allora Yole a questa damigella, che sola era rimasta a sorreggerla, «perchè mi ha lasciato mia madre? Le sono forse divenute troppo gravoso incarico le membra di sua figlia? Ah! io incresco a tutti, e a me stessa… – Chi è che piange? Gismonda, dimmi, chi piange?»

«La madre vostra.»

«Perchè?»

«Voi avete desiderato di non averla avuta per madre.»

«lo ho detto questo?… Io!» esclamò Yole: e il rimorso dell’anima gentile le ricondusse su le guance i colori del pudore. «Sciagurata! Oh! l’ottima delle madri, non vogliate piangere a quelle cose che ho detto, ma piangete piuttosto per quello spirito che mi costringe a dirle. – Certo, il mio cuore non vi assente… ma una forza feroce mi agita l›ossa, e il sangue. Io vi amo, madre mia. vi amo di quell›amore stesso che voi amate me: – prescrivete; ogni qualunque prova, e sia pure quanto si voglia dolorosa, incontrerò lieta per amore vostro. Io non vi offro la vita, che il togliermela sarebbe il più grande benefizio, che il cielo e gli uomini mi potessero fare; ma cessate di piangere per cagion mia… cessate, od io muoio di affanno ai vostri piedi.»

«Io sono lieta, Yole,» disse la Regina, abbracciando la figlia, ed amorosa baciandola; «ma tu, via, cessa di darmi tanta afflizione. Parla… dimmi: qual cosa mai tanto duramente ti molesta? – Qui nel mio cuore deponi il tuo segreto… nel cuore di tua madre, che darebbe la vita per vederti felice. La tua sorella lo è già: e quando te pure io vedrò così, il giorno della mia morte sarà il più avventuroso di tutta la mia vita.»

«Gostanza» rispose Yole con accento solenne «è, e si manterrà lungamente felice. Al cielo piacque separare la causa della figlia di Beatrice di Savoia dalla causa della figlia di Elena di Epiro. Su me… su noi pesa un atroce destino. Noi morremo illagrimati, giaceremo insepolti, monumento di pietà, d›invidia, e di ferocia. A che vi arrancate, madre mia, per ricercare nel mio spirito la cagione del dolore? Sollevate gii sguardi; – la causa della nostra disperazione scintilla nel cielo…»

Elena sollevò gli sguardi all›orizzonte, e vide, o le, parve vedere, la cometa scuotere minacciosa i suoi raggi. Non ne sostenne l›aspetto, ma riabbassata la faccia passò il suo braccio in quello di Yole, e mestamente silenziosa prese a incamminarsi verso il castello. Le seguitava Gismonda, mormorando a bassa voce una preghiera per la pace allo spirito travagliato delle sue dilette signore.

La battaglia di Benvenuto

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