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CAPITOLO SECONDO. AMORE
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Tutta sorriso, tutta gioia: ai fiori
Parea in mezzo volar nel più felice
Sentiero della vita. – Ecco ad un tratto
Di tanta gioia estinto il raggio, estinto
Al primo assalto del dolor.
Francesca Da Rimini, tragedia.
Perchè una tomba prodigio di marmi peregrini e dell’arte copre le ceneri di tale, che non si conosce essere stato vivo, tranne pel monumento della sua morte?– Perchè forme celesti, dilicati contorni, leggerezza di leggiadrissimo corpo, vestono l’anima della femmina? Perchè ci dierono un cuore che balza a quelle sembianze, una fibra che si raccapriccia a questo bellissimo spettacolo della creazione? Nessuno animale ha potuto contribuire a formare il corpo della femmina. I colori dell’uccello di paradiso, della farfalla di Casimira, non possono paragonarsi ai divini che imporporano le guancie della bellezza. La gazzella non ha l’occhio della donna: le pietre preziose non brillano di quella luce; e i poeti, per assomigliarli a qualche cosa di convenevole, hanno dovuto ricorrere al firmamento. Ma nessun rettile, quantunque schifoso, fu eccettuato dal somministrare parte nella composizione dell’anima che agita i moti delle sue membra; nessuno, meno lo scorpione, che circondato dal fuoco volge in sè stesso il dardo velenoso, e generosamente si uccide. Tu sei bella, o creatura, ma la tua bellezza porta una impronta tenebrosa; tu nasci figlia di un sublime pensiero, ma come Lucifero decadesti; i tuoi raggi come quelli del sole che tramonta feriscono, non consolano la vista; la tua bellezza è il nostro tormento. Ma andiamo affannosi in traccia di quella innocenza che Eva lasciava nell’Eden, e questo è il più fiero travaglio del cuor nostro. Ma il tuo cuore ugualmente fu condannato a spezzarsi per la nostra incostanza. Forse tu dovresti essere maladetta, perchè la prima a peccare; ma il serpente abita nelle tue fibre dilicate: la curiosità genera la sapienza, in te partoriva la colpa. – Tu schiudesti la via dei delitti, noi vi ti abbiamo superato… Oh, figli della polvere, non vi maladite, ma abbiate misericordia tra voi!
Nelle sale del castello capuano vive una creatura divina nelle forme, divina nell’anima. Ella teneva la faccia adagiata sopra un origliere, e gli sguardi dimessi: una bellezza maestosa compariva per tutto il suo aspetto. Molte damigelle le stavano attorno, e tacite tacite facevano voto che sollevasse gli sguardi, i quali, sollevati, non potevano sostenere; perchè siffatta luce ne usciva, che svelava un’anima, la quale non si sarebbe mai creduto avessero potuto reggere quelle sue membra dilicate. Ella era leggiadra quanto la madre degli uomini, che il divino Ghiberti effigiava sorgente dalla carne di Adamo, e sorretta dagli Angioli a riporre in pegno di amore la sua mano nella mano di Dio. Certo ella non pareva figlia di nozze mortali: forse i connubii dei figli di Dio, allorchè sentirono amore per le belle figlio di Caino, l’avrebbero potuta generare, ma lo spirito dell’Eterno non benedisse quei maritaggi, perchè esse nacquero nel peccato, onde ne vennero i Giganti e Nembrod il feroce cacciatore al cospetto di Dio.
Invano cercheremmo voci nelle favelle della terra che valessero a ritrarre quella immagine di beltà: e sarebbe più facile suscitare la luce dalle tenebre, e dare anima ai figli d’Italia.....
Dopo lungo tempo si levò dal suo seggio, e si fece verso il balcone: era il suo passo leggero, come vento che folleggi tra le rose, o come incenso che s’innalzi alla Divinità: l’onda delle vesti ventilando spargeva odorosa fragranza: non mesta, nè lieta; ma nella calma solenne della considerazione, allorchè il lampo del pensiero balena su gli avvenimenti dei secoli, allorchè l’orecchio del divino intelletto intende l’arcana armonia del creato, e il suo occhio finge nel cielo i figli della sublime immaginazione.
Fattasi al balcone, soprastette a considerare il firmamento, e sospirò; quindi rivolta alla damigella che le stava al fianco fece suonare una voce, quale certamente si diffonde quella di Eloa, l’angiolo che canta lo inno dei cieli innanzi al trono di Jehova.
«Vedi, Gismonda, come esulta il firmamento! Anche quando la religione non ce lo avesse insegnato, la mente nostra lo terrebbe per la dimora di Dio. – Oh! piacesse a lui chiamarmi presto alla sua pace!»
«Nobile Yole, il Signore è sapiente in ogni opera sua; egli solo conosce il bene e il male; noi dobbiamo aspettare adorando i decreti della sua giustizia.»
«Guardimi il cielo dal mormorare contro il mio Creatore, ma i voti dell’afflitta non possono giungere disgrati innanzi al suo trono.»
«Mia dolce donna, sta a voi innalzare a Dio i voti degli afflitti? A voi figlia del Re Manfredi, sorella della Regina di Arragona, nepote dei Federighi? A voi sangue della casa di Svevia, posta dalla fortuna nel più alto grado che mente mortale possa desiderare? La vostra vita si sprolunga innanzi a voi come sentiero di fiori; i vostri giorni numera il piacere: voi desio di ogni prode cavaliere; voi sospiro di ogni Trovatore, voi amore di tutti, non avete a temere le sciagure che travagliano la più parte della schiatta di Adamo.»
«Pure io sono tale che ormai più nulla mi resta a temere fuorchè l’ira di Dio.»
«E l’ira sua non verrà; ch’ei tempra i rigori del freddo all’agnello tosato, e versa il balsamo su le piaghe del doloroso.»
«Gismonda, la nostra casa venne respinta dalla comunione dei fedeli fin dal Concilio di Lione, dove, malgrado la difesa di Taddeo da Suessa, Innocenzo scomunicò Federigo. Certo, noi non patiamo difetto degli ufficii della Chiesa, ma Papa Clemente ha tolto appunto motivo da questo per confermare l’anatema contro di noi. Egli ha sciolto i vassalli dal sacramento di fedeltà, e senza questo già troppi ne circondavano traditori: egli cerca pel mondo un nemico del sangue nostro, e senza questo erano assai coloro che anelano un trono. La fortuna non ha concesso che Riccardo di Cornovaglia accettasse la nostra corona offertagli da tale che non sa acquistarla per sè e la dona altrui; nè che Edmondo d’Inghilterra abbia potuto muovere le armi contro di noi; ma al nemico vigilante di rado il tempo non porge la occasione, e Clemente è tale uomo da non lasciarla fuggire.»
«Figlia di Manfredi, il nemico non ha mai vedute le spalle del vostro genitore: se non avremo la pace, avremo la vittoria.»
«Amen, Gismonda, amen. Ma vedi quella cometa lassù nell’orizzonte, che sorgendo da oriente percorre il cielo verso occidente, e si ferma sopra di noi? Hai tu inteso quello che ne dicono gli astrologhi? Ella è certo segno di morte di Re, e di tramutamento d’Imperii. Io stimo non vivere persona al mondo che sappia sostenere la sciagura senza gemere, quanto la figlia di Manfredi: – ma la sciagura, comunque tu la sopporti, è pur sempre sciagura.»
«Nè io vo’ porre in dubbio la influenza delle stelle: ma per gli effetti comparsi fino ad ora sopra la terra, parmi che ne possiate andare piuttosto lieta che mesta. La cometa apparve di agosto, e Urbano IV moriva di novembre.»
«Ma la cometa non per anche scomparve. Credilo, Gismonda; un gran Re deve morire, e Carlo d’Angiò è Conte di Provenza soltanto.»
«Ed egli sarà Re prima di entrare nel Regno. La sua strada non dove essere per Roma? Quivi riceverà certamente la corona, e la benedizione; e possa questa giovare alla sua anima, come quella non fregerà mai la sua fronte.»
«Oh! – se i Baroni del Regno fossero fedeli come sono potenti, la corona di Manfredi non circonderebbe mai le tempie di Carlo: – ma qui i traditori vivono infiniti, e più che di altrove sembrano pianta naturale a questa terra, e a questo cielo. Molti i nemici di mio padre, che egli nel percorrere la via del trono vinse, e perdonò: ma il perdono non sana la piaga dell’orgoglio ferito, nè toglie l’odio, perocchè non v’abbia cosa al mondo che tanto avvilisca quanto il perdono del nemico; e questi al primo grido di ribellione vedrai riparare allo stendardo dei gigli, e combattere con quel furore che solo possono dare i rimorsi del tradimento. Pure non questi soli si scuopriranno nemici: vi sono uomini pei quali l’altrui felicità è una spina: sempre tristi per la invidia che li tribola, guai se osi manifestare il sorriso della tua gioia innanzi il cospetto loro! essi ti notano, t’inseguono, nè ti lasciano mai, finchè con molti anni di ambascia tu non abbia scontata la gioia di un momento. – Il pianto è la loro armonia, l’urlo della disperazione il diletto; e il cuor loro non sussulta tranne alla vista delle rovine. E gli amici?… Essi son molti nel tempo felice: nè in ciò io accuso gli uomini, no; la natura ha posto nel nostro cuore una voce che grida: sii felice solo: nè io già gli maledico come spietati; poichè sia bello salvare l’amico, ma dove non tel concedano i casi tu non devi amare l’amico più di quello che ami te stesso. E tu, mia diletta Gismonda, che meco fosti nutrita e cresciuta, e che un vincolo di scambievole amore unisce meco in fraterna corrispondenza, tu stessa a cui adesso sembrano nulla il disagio, il vituperio, e la morte, rispetto al dovermi abbandonare per sempre, tu pure un giorno mi dimenticherai.»
Gismonda vinta dal dolore non rispose; chinò la testa, e grosse lacrime le ricorsero agli occhi: gli socchiuse l’affettuosa per nasconderle alla vista di Yole. ma la passione nol sofferse: tornò a sollevarli verso la sua donna; e non vedendola commossa, la piena del cuore gittato ogni freno proruppe. Un singhiozzare frequente dimostrava quanto grande fosse stata la offesa per la gentil damigella.
Yole la sogguardò, e soggiunse: «Ella è così… l’uomo s’offende al detto di quello che deve praticare col fatto. Un senso arcano e generoso, cui non sappiamo da qual parte ci venga, ne ammaestra che partecipare lo infortunio con l’amico è bene, ma la natura nol consente, chè non ne ha conformati in guisa, che il nostro più fiero nemico sia il patimento, e più possano in noi gli strazii dell’angoscia, che non le lusinghe dell’amore… Ella è così; nè io voglio accusartene, o mia dolce Gismonda; il fallo proviene da più alta cosa che non sei tu. Chi è che osi contrastare al grido della natura? Noi non siamo da tanto, nè io vorrei da te più di quello che puoi darmi. Gismonda, mia cara Gismonda! se alcuna cosa ti ho mai fatto di grato; se la mia memoria sarà tale che possa dilettare la tua mente, io ti prego, che quando in questo stesso castello la voce del nuovo signore ti chiamerà a stare appresso alla sua consorte, od alla figlia (poichè tu sei il più nobil sangue del Regno), se mai avvenga che acciecate dalla vittoria rigettino le preghiere degl’infelici, e dall’altezza in che le pose la fortuna schivino chinarsi al gemito che si solleva dalla polvere, rammenti a costoro ch’esse pure sono di polvere. – mutabile cosa essere la fortuna: – e poi soggiungi: era il sangue di Svevia quanto quello di Francia famoso: era la figlia di Manfredi anch’essa illustre, e pure il Trovatore e il Menestrello non avevano canzoni che tanto la dilettassero, quanto le parole interrotte e le lagrime dell’infelice confortato. E se il mio nome varrà a vincere l’orgoglio dei cuori, e dalla via della superbia dirizzare le avventurose sul sentiero del paradiso, sarà questo il gaudio più profondo che giunga all’anima mia, dovunque piaccia al mio Creatore collocarla. E dove mai la nobile consorte o la figlia del Conte avessero cuore che palpita alle miserie dell’umanità, e sorridessero del mio sorriso, allora amale, Gismonda, amale come mi amasti: non turbarle giammai col racconto delle mie triste vicende, nè col mio nome sminuire una gioia che il Signore non mi ha voluto concedere, e che a loro, siccome più meritevoli, ha compartita. Ma quando lontana da tutti, ridotta nella tua segreta cameretta, potrai liberamente trattenerti nella memoria degli anni che furono, oh! allora, mia cara Gismonda, allora donami un sospiro… un pensiero… una lagrima… Certo io conoscerò quella lagrima, e con una lagrima ti risponderò.»
Qui si rimase la bella addolorata: e mestamente volgendo gli sguardi, vide tutte le suo damigelle confuse di vergogna, e la gentile Gismonda in tale stato da non potere più intendere tanto disperate parole. Tacque: un lungo silenzio si sparse per la sala: i doppieri mandarono una pallida luce su quelle donzelle atteggiate in sembianza di pianto. – Pareano statue d’illustre artefice destinate ad ornare le tombe dei potenti.
Yole, poichè lungamente stette pensosa, si scosse a un tratto, corse, si recò in braccio Gismonda, e con amore materno la confortava, o col suo proprio lino le sue lagrime asciugava: quindi con piacevole voce riprese:
«Oh! non piangere, Gismonda, non piangere. Malaugurata colei che sforza al pianto la faccia della bellezza! – Santa Vergine! la mia miseria soverchia l’anima mia, e mi conviene trasfonderla in altrui. – Madre degli afflitti! già troppe mi trafiggono amarezze, – bastino. Io sono innocente; ma s’è destinato ch’io beva il calice delle pene, non consumi meco i giorni della sua gioventù questa cara donzella. – Sia la mia causa separata dalla sua: io sola soffrirò per lei, pei miei parenti, per tutti.»
Gismonda si rimase dal piangere, e chiamando su i labbri il sorriso, comunque una lagrima le tremolasse tuttavia tra le lunghe palpebre, corrispose allo abbracciamento della nobile Yole, e in atto soave le disse:
«Voi non mi affliggete, nè potete affliggere nessuno, voi solo mia gioia, unica e diletta amica mia, quando anche la sorte avesse posto tra noi lo spazio che passa tra vassallo e il barone, le anime nostre avrebbero sentito lo scambievole desiderio. Comunque pensiate di me, io vi amo, Yole, vi amo, quanto si può amare cosa terrena dopo Dio, e i suoi Santi. Ma per quanto amore portate alla gran Donna del cielo, calmate quel vostro disperato dolore… Oh! se sapeste quale affanno mi travaglia qui dentro» ed accennava il seno «nel vedere a poco a poco inaridire la fonte della vostra vita, il fiore della vostra giovanezza appassire, e le floride guancie impallidire, e quei begli occhi oscurarsi… certo, benigna come siete, vi provereste a non apportarmi tanto sconforto. Oh! il vostro dolore, concedete che ve lo dica Gismonda, non muove cosa che si tema, bensì cosa da lungo tempo avvenuta. Il Conte di Provenza non si partiva ancora da Marsilia; nè egli parmi persona da temersi poi tanto, sebbene il Vaticano lo benedica, e lo armi contro di noi: e dove fosse da temersi, il pericolo non successo vuole fermezza di cuore, non pianto, che questo torna inutile prima che la sventura accada; dopo, ridicolo e codardo. La figlia del Re Manfredi non si sente tale… Da più alta cagione che questa non è, traggono origine cotesti furori: una cosa che ormai non istà più in potere della ragione e del tempo,… un sentimento profondo invano represso, forse…»
«Gismonda!» riprese Yole, fattasi pel volto e pel seno tutta vermiglia, «si danno arcani che l’amico non può dire all’amico; che ricercarli in ogni nome è indiscretezza e crudeltà, nei Sovrani delitto. Hanno i Regnanti segreti che non possono svelare a persona, perchè a noi più che al rimanente degli uomini dette il cielo un senso squisito di dignità. Al Conte Ruggiero e alla sua nobile consorte, assediati sul monte Etna, rimase un solo mantello reale; essi non pertanto non mostrarono la loro nudità, ma ora l’uno, ora l’altro si fecero vedere in pubblico sempre vestiti del manto che non può onestamente tralasciare l’altezza del sangue. – Se il mio segreto fosse stato da svelarsi, a te più che altrui avrei voluto manifestarlo; ma da che mi piacque non dirtelo, guardati bene dal cercare di saperlo. Ti basti questo, che dove la mia destra lo rivelasse alla mia sinistra, io vorrei subito mozzarla.»
La damigella le stette dinanzi sbigottita, come quella che non aveva mai inteso tanto acerbo rimprovero. Yole gravemente aggiungeva:
«Porgimi il velo, Gismonda; sento il bisogno di aere più puro. – Voi tutte restate, Gismonda sola mi accompagni nel giardino.»
Gismonda corse ad eseguire il comando; ma confusa, mal sapendo che si facesse, tolse quel velo stesso che assunse Yole allorchè si seppe in corte la morte di Corrado, e glielo porse senza sollevare gli sguardi.
Lo vide Yole, e mesta sorrise: poi premendo leggermente il braccio a Gismonda: «Accetto l’augurio» le disse «che mi viene dalla eletta del cuore.» – E tolto il velo se lo avvolge alla persona, e s’incammina ai giardini reali.
Gismonda, sollevati gli occhi, si accorge dell’errore, prorompe in un grido sommesso, e segue la sua donna asciugandosi col dosso delle mani le pupille lacrimose.
Potevano avere di appena venti passi trapassata la porta, allorchè le damigelle, gittando via quella mentita sembianza di afflizione, si mossero festose qua e là per la sala, alternando mille lieti ragionamenti. Adelasia di Ansalone, damigella di forme leggiadre, e di cuore vano. sopponendo al suo braccio quello d’Isolda Cavella, sorridendo le disse: «In verità, Isolda, io non ho mai in mia vita pianto siccome oggi; neppure allorchè la mia zia Contessa Serena, di gloriosa memoria, nelle lunghe sere d’inverno, mi poneva nella sala del castello di Campobasso presso il focolare dei suoi maggiori.»
«Oh! per me poi» soggiunse Isolda «sento che il pianto ristora; non l’onoriamo noi come segno di cuore tenero? Quello che adorna l’anima, deve ornare anche il corpo.» E così dicendo si sciolse dal braccio di Adelasia, e presa una tersissima lastra di argento si pose tutta leziosa a mirarvi dentro la propria immagine.
«Domine, falla trista!» guardandola dietro, e scuotendo il capo disse Matelda d’Arena antica damigella. «Da che il più scioperato Menestrello che mai venisse in corte le cantava i suoi occhi lagrimosi non avere paragone in cielo o in terra, io credo che per cavarne una lagrima gli esporrebbe, non che ad altro, al fumo di zolfo.»
«E dovete sapere,» soggiunse spedita spedita una magra, lunga, di brutte sembianze, chiamata Andolina Benincasa, «e dovete sapere, che in que’ tempi Isolda piangeva, quando anche la prendeva vaghezza di ridere, e la cagione la sa il medico saracino Sidi Abdallah che la guarì dalla fistola.»
«Andolina, paionvi cose queste da tenersi lungamente celate ad amiche quali noi siamo? Per poco sta ch’io non mi corrucci con voi,» riprese sorridendo Adelasia; «ma di grazia rammentate, Matelda, la canzone del Menestrello: il caso merita bene di sapersi intero.»
«Non so,» rispose Matelda «perchè non soglio faticarmi la mente col ritenere tanto tristi versi quanto furono quelli del Menestrello; pure proviamo.» E qui poneva l’indice alla fronte, e chinava la testa in atto di riunire tutta l’anima in una sola facoltà, finalmente dopo aver cominciato, desistito, e ripreso da cinque e più volte: «Ecco!» soggiunse ella «diceva così:
«Brillano silenziose in ciel le stelle
Di benigno splendor,
«Ma le tue luci ancor
Brillan più belle;
E se suffuse di pietose stille
Rimira il Trovator
Le gaie del tuo amor
Belle pupille,
Brillin pur luminose in ciel le stelle
Di benigno splendor,
Che le tue luci ancor
Brillan più belle…»
Isolda, che intenta a vagheggiarsi il volto non aveva fin qui posto orecchio a queste parole che si mormoravano a breve distanza da lei, appena ricovrati i sensi dalla vanità che la occupava, udì quegli ultimi versi, e subito dubitò della beffa: onde fattasi presso Matelda con un suo riso di dispetto le domandò: «Madonna, se Dio vi aiuti, poichè per vostra ventura avete udito i Trovatori del secolo passato, vorrestemi dire, la mercè vostra, se valorosi quanto i moderni essi fossero?»
«Tengo per fermo, rispose tutta stizzosa Matelda quantunque per la età non gli abbia potuti udire io, che i moderni Trovatori sieno tanto al di sotto agli antichi nella gaia scienza, quanto le moderne gentildonne sono al di sopra delle antiche in iscortesia.»
«E voi ci offrite prova vivente della differenza, Matelda.» riprendeva Isolda, e stava per aggiungere, allorchè Adelasia, temendo non venissero a brutte parole, troncò quel ragionamento dicendo:
«E la povera Gismonda!» e sospirò. «Davvero che ricava la bella mercede del suo grande affetto!»
«Non andò mai così bene a sposa gioiello, siccome a lei il rimprovero di Yole,» soggiunse Matelda, cui forse fu grato trovare altro soggetto che dilungasse l’attenzione delle circostanti dal proposito dei suoi anni.
«Ella ha voluto regnare sola nel cuore della nostra signora» disse Andolina; «ella ha voluto vincerne tutte per soverchiarci, perchè sebbene in volto modesta, credetemelo, è superba quanto l’Angiolo delle tenebre. Ha scosso l’albero, ora mangi il frutto che n’è caduto.»
«Santa Nimfa! S’ella è superba!» disse Isolda. «lo per me credo la sua superbia uguale alla sua vanità. Se le proponete fare alcuna cosa, ella vi risponde: ne terrò motto a Yole; se la ricercate perchè si affligga, ed ella perchè Yole è afflitta; e Yole sempre, e sempre Yole, ostentando così tenere proposito di lei, siccome di sorella o di amica, anzichè di sovrana o padrona.»
«Il mal vien dalla radice,» rispose Adelasia, «nè posso darmi pace come costei abbia scelta per favorita la nostra signora. Guardimi Dio da sparlare di tale amica quale mi si professa Gismonda; ma per me la reputo la più insipida gentildonna del Regno. Pel sangue poi credo che il nostro valga bene il suo, Matelda.»
«Sant’Agata benedetta! che dite mai, Adelasia? Io ho inteso le mille volte narrare dal Marchese Pier Corrado mio nonno, di buona memoria, la famiglia di Gismonda discendere da linea bastarda della casa normanna, cioè, se non erro, da Clemenzia Contessa di Catanzaro, figlia illegittima del Re Ruggiero; e valga il vero, comunque ella vanti la impresa normanna, voi potrete osservare le fasce rosse e bianche in campo d’oro tramezzate dalla sbarra della bastardigia; ma il nostro, Adelasia, ma il mio, Adelasia… ah! il mio mi scorre purissimo nelle vene quanto quello del Re. I miei antenati di Sicilia hanno trasmesso ai loro nepoti la impresa del monte di argento, e del lion d’oro in campo azzurro, gloriosa, com’essi la riceverono dai loro antenati di Arragona; poichè importa che sappiate, Adelasia, la famiglia Arena derivare dall’Arragona.» Tutto questo discorso velocemente parlava Matelda, alla quale la gran voglia di mordere altrui ed esaltare sè stessa fece obliare, che il Marchese Pier Corrado suo nonno, di buona memoria, era da ben trent’anni defunto, come ne faceva fede il suo fastoso sepolcro nella cattedrale di Palermo.
Ed ecco che queste frivole, abbandonato affatto il soggetto di Gismonda, si lanciarono impetuose a favellare di fasce nere in campo di argento, e di sbarre di argento in campo nero, e di Lioni rampanti, e di Pantere passanti, e scudi, e cimieri, e corone. Matelda poi, siccome quella che sentiva assai addentro nella scienza del Blasone, fece maravigliare le compagne col dare la spiegazione dell’arme Bonaccolta che fa fascia rossa, e testa di porco nera, tenente sul grifo croce rossa in campo di argento.
Appena ebbe finita Matelda la sua dimostrazione, che tutte le compagne le si strinsero attorno, tanto ella piacque, onde narrasse loro qualche bel fatto antico. Madida fece lungamente sembiante di ricusare; alla fine, mostrandosi vinta dalle istanze loro, parlava:
«Ma che credete voi, che io abbia per le vene storie in vece di sangue? Io faccio conto di avervene fino adesso contate ben mille, e la vostra sete cresce a proporzione che vi porgo da bere. Che faro adunque? Ripeter le antiche tornerebbe in vostro fastidio, e mio; narrarne di nuove non mi riesce agevolo, poichè tante ne furono dette da me: pure,» e qui sollevò la persona in atto contegnoso, «pure fidata alla cortesia vostra, mie leggiadre e belle ascoltatrici, non dubiterò pormi in pelago, sicura che la benignanza delle vostre stelle mi dimostrerà il porto dove possa ricovrare la debole navicella del mio ingegno.» Dopo questo proemio, tenuto per un capo di opera di eloquenza, Matelda soprastette alquanto pensosa, e dopo breve ora volgendo gli occhi attorno così prese a favellare:
«E’ dovete sapore, donne mie care, che nei tempi nei quali l’Amira Aureliano regnava su Roma, donde aspramente perseguitava i fedeli di Cristo, un certo Solino Prefetto dei soldati reggeva a suo nome la Sicilia, ed aveva tolto a dimorare nella Conca d’oro, la bella Palermo, sopra tutte le altre città della Isola felicissima e bella. Ora questo Prefetto non diverso dal suo feroce signore, anzi, siccome nei servi suole tuttogiorno accadere, affatto a lui somiglievole, con frequenti rapine, e feroci martirii, affrettò il punto della vendetta di Dio; il quale, quantunque paia venire tardi, piacendo alla sua misericordia dar tempo al peccatore affinchè si ravveda, nondimeno giunge inaspettato, e tremendo. Stavasi dunque certa sera il crudele Solino seduto sur una loggia del suo palazzo a rimirare il sole cadente. Una turba di uomini e di donne gli dimorava attorno cantando, suonando, e a mano a mano copiosamente bevendo preziosissimi vini, che quivi aveva fatto imbandire, allorchè di repente rizzatosi in piedi tutto smorto nel viso, tolto pel braccio un suo paggio che gli stava vicino: – Vedi, Lampridio, gli disse, l’ultimo raggio del sole? Questa sera apparisce sanguigno; che Allah e il suo Profeta ci guardino, ma questo raggio, piuttostochè addio, sembra maledizione… guarda fisso… fisso… egli sparì… egli non ha parlato… ma una voce che non è entrata per gli orecchi ha detto al mio cuore ch›io non vedrò più i raggi del sole. – Mentre quel tristo, compunto dalla coscienza, in questo modo parlava, e susurrava bassamente scellerate preghiere, nel mezzo della città franò con orribile rumore gran parte del terreno, e da quella rovina ecco s›innalza un densissimo e fetidissimo fumo, il quale gradatamente diradandosi lasciò vedere un Mostro che la gente ha poi chiamato il Gran Diavolo di Sicilia, le sembianze del quale furono queste: sei palmi era alto, ed aveva la testa tutta calva, se non che su la nuca un po’ di pelame ispido: dalla fronte gli scappavano due corna, a somiglianza di quelle dei capri ritorte: delle due braccia uno stendeva lunghissimo oltre il ginocchio, l’altro cortissimo sopra il fianco; le mani aveva come orso, la testa larga quanto le spalle, e queste lucide come specchio: la faccia pendeva all’umano, meno che per un solo occhio vedeva, e per una sola narice fiutava: dalla cintola in giù andava coperto, stando seduto sopra un carro di quattro ruote guidato da due fieri lioni davanti, e sospinto da due orsi dietro. Or questo spaventevole animale si mosse pianamente per la città, scintillando dagli occhi faville di fuoco: e tanta ne fu la paura, che molte donne si sconciarono, altre tramortirono, e tutti insieme uomini e donne rifuggivano al tempio degl’Idoli implorando perdono con preghiere maladette.
Ma queste cose il Mostro non vedendo, o non curando, dappoi che ebbe ricerca tutta la città, giunse alle porte del palazzo di Solino, dove tagliata un’orecchia a un lione, scrisse con quel sangue su pel muro M. N. M. P. V. D. – Le quali lettere non sapendosi da nessun savio interpretare, certa donna non mai più vista comparve, e affermò poterlo fare, dove Solino mostrasse cuore di udire. Solino, sebbene non avesse membro che gli stesse fermo, pregò anzi, che volesse dimostrargli lo scritto: al quale ella parlò: – Solino, Azzael ti sta sopra, perocchè le lettere significhino: la tua morte non sarà morte, ma principio di vita di dolore. Ora poi, che il cielo ti è chiuso, ti conforto a disperarti e a morire. – Così favellando, proruppe in altissime risa, e disparve. Solino cadde tramortito per terra, e insanguinandosi la bocca e la fronte rimase oscenamente deturpato nel volto. Sorse il mattino, ma il raggio del sole non rallegrò la terra: il fumo si era diffuso per l’orizzonte e vi stava immobile come tenda. Il mostro però non si vedeva: solo si udiva il ruggito dei lioni, e il bramire degli orsi. In quel giorno d’ira e di vendetta non un uccello fu visto pel cielo, ma tutti paurosi si rimasero nel nido a tutelare sotto l’ale i figliuoletti loro: non una fiera percorse la foresta: chè il senso del terrore strinse più forte di quello della fame; i cani a testa bassi, a coda dimessa, vagavano incerti qua e là in traccia dei soliti abituri, e se quelli trovavano chiusi, mandavano tanto lamentosi ululati, che veruno uomo, per quanto crudele, gli ascoltava senza pietà. Rinnuovavano i cittadini le preghiere; ai loro Idoli le più care preziosità profferivano: e si trovarono di tali che per placarli le vene delle mani e dei piedi si segavano, e quel sangue scorrente presentavano in oblazione. Venuta la fine di quel terribile giorno, la nuvola nera cominciò a tuonare per modo che toglieva l’udire, l’atmosfera apparve tutta infiammata e offendeva il vedere, un fetore intensissimo tolse l’odorato; poi la terra mise vento rombando, e un terremoto scosse la città, sì che la più parte delle case ruinò, e meglio di centomila cittadini perirono. Il Mostro adesso apparve su la piazza di contro al palazzo di Solino. Il suo sguardo dapprima spento si accese, a proporzione che quel flagello della natura cresceva, e allora quando vide le sparse viscere dei tanti miseramente schiacciati, e l’orrore delle rovine, divenuto affatto di fuoco, mandò scintille, le quali appresesi di subito al palazzo di Solino suscitarono in un momento tale incendio che i legni e i ferri non solo, ma le pietre stesse infiammate si liquefacevano.
Il Mostro si precipitò tra le fiamme, e di lì a poco, rovinando tutte le pareti del palazzo, rimase in piede una sola stanza dove Solino steso sopra un letto si dibatteva disperatamente contro il Mostro, che appuntellategli le ginocchia sul petto con atroce compiacenza lo strangolava.»
A queste parole era giunta la novella di Matelda; le damigelle disposte in circolo stavano tutte intente al suo volto, mostrando per gli occhi smarriti e per la pallida faccia la paura che occupa va le anime loro, allorchè le porte della sala si schiusero fragorose; l’aria ventando con impeto spense ogni lume; un’alta voce si fece udire, e il mutare de’ passi pesanti, e lo strisciare di vesti sul pavimento.
Un súbito terrore percorse veloce le vene di tutte le damigelle, e l’una afferrando strettamente l’altra pel braccio o per la veste, sospinte dalla medesima paura si volsero al luogo donde usciva il romore, gittando altissimo grido.
E qui, infastidito di avvolgermi in tanta bruttezza d’invidia, di vanità, e di errore, abbandono volenteroso il soggetto. Turpi o frivole sono ordinariamente le passioni di femmina, ma altri sia il Cam delle loro vergogne, siccome altri l’adulatore. Vago di manifestare quello che occorre di bene nello spirito loro, ne lascio la sozzura all’ira, al disprezzo, od alla compassione degli uomini.