Читать книгу La battaglia di Benvenuto - Francesco Domenico Guerrazzi, Francesco Guerrazzi - Страница 7
CAPITOLO SESTO. LEGA LOMBARDA
Оглавление… Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto. La man degli avi insanguinata
Seminò la ingiustizia: i padri l’hanno
Coltivata col sangue, e omai la terra
Altro frutto non dà.
Adelchi, tragedia.
L’ordine di questa nostra narrazione vuole, che per noi si esponga un prospetto dei casi della famiglia di Svevia, nei secoli decimosecondo e decimoterzo. La nostra mano si accosta tremando a vergare queste carte, imperciocchè i fatti dei feroci che vissero in cotesti tempi infelici appaiano scritti col sangue; nè occorra pagina di storia, che non gridi delitto. Chiunque ricusasse prestare fede a quanto andremo narrando, sappia che non seguirebbe sano consiglio, avendolo noi raccolto da antichi e da moderni Storiografi. Per questo sarà manifesto come l’uomo posto solo dal caso in quel consorzio, ai patti del quale non si trovò presente, nè avrebbe, trovandovisi, consentito giammai, qualora si avvisi scostarsene, rivendicando parte dei diritti pei quali fu conformato, si tiri addosso la guerra di tutti i suoi simili; i quali, non perchè la sua azione sia essenzialmente colpa, ma perchè apporta loro nocumento, lo condannano all’onta e alla morte, a nome di una legge che hanno costituita i più forti soltanto. Al punto stesso vedremo le nazioni di proporzionata forza, tra loro da nessuna altra legge costrette, tranne la giustizia di Dio, la quale o non temono, o irridono, muoversi intere l’una alla rovina dell’altra; la debole innocente additarsi ai posteri con nomi di scherno, le virtù sue convertirsi in argomento di vituperio, che la calunnia, compiacendo all’oro dei potenti, o per naturale propensione al male, vomiterà dalle sue mille bocche di rettile; l’avventurosa colpevole strascinare il mondo a fare omaggio al suo splendido delitto, e l’uomo, o nato o piuttosto educato per essere iniquo o stolto, nulla curando il sangue fraterno che gli bagna le piante, nulla le ossa insepolte, nulla il grido delle vittime che prorompe dai sepolcri invendicati, applaudirla nella ebbrezza del cuore con le stesse voci che innalza alla Divinità; onde la mente del lettore sarà percossa da quella sentenza, che sembra assurda, e suona pur troppo orribilmente vera: lo stesso delitto che manda l’uomo al patibolo, rendere illustri le nazioni nella memoria dei posteri. Vedremo nel girare dei tempi quanto si prolunghi perenne la sventura tra noi, e la gioia fugga veloce, e quindi ricaveremo un’altra dura sentenza: essere il male nostro proprio retaggio, e stoltamente affidarsi colui, che ogni speranza di contento ripone in altro luogo che in cielo. Si vedrà dal seno della tirannide nascere la licenza, e dal seno della licenza nascere la tirannide; e i popoli del continuo travagliarsi in traccia di una libertà, che conseguita non hanno saputo poi mantenere, come quella che richiede l’esercizio di tali virtù che essi non conobbero mai, o se pure praticarono una volta, sì il fecero non già per libera elezione, ma per paura d’imminente pericolo; onde trarremo motivo di tenere per vero il detto di quel filosofo: nessuno ente vivere al mondo più codardo di lui, che opera il bene per la sola paura del male. Finalmente vedremo lo schifoso spettacolo di una Nazione vinta, e pasciuta di obbrobrio, che solo si dimostra viva per le vili querele contro i suoi oppressori, e per le più vili invidie contro chiunque tra lei tenta con opera di mano, o di consiglio, sorgere dalla melma dell’anima sua; nazione nuda di virtù proprie, e di altrui, doviziosa dei vizii di tutta la terra; gonfia di orgoglio per una gloria antica che forma la satira più sanguinosa del vituperio moderno; superba di tali geste, che chi le imprese avrebbe voluto non farle, qualora avesse saputo che dovevano essere argomento di petulanza, anzichè di rampogna, a tanti miserabili, ridicoli, e scellerati nepoti: Popolo insomma già signore, – oggi locandiere di tutte le nazioni del mondo. – Oh! dall’alto delle rupi, inutile schermo ai fiacchi che non sanno contendere co’ petti, dal profondo dei mari che ti circondano, dalle foreste, dai campi… da tutto il creato, maladizione e sventura su te, vilissima schiatta, che non sai vivere nè ardisci morire! Possa consumarti il fuoco del cielo, e teco i padri, i figli, e i figli dei figli, poichè la goccia nera del cuore distilla di generazione in generazione, nè si diminuisce per tempo. La pianta della infamia si abbarbicò intorno l’albero della vita, e ne ha guaste le più profonde radici. Gli anni si portano la vita, che è il sepolcro dell’anima, e allora rimane dei trapassati la fama; – qual fama! Chi più vive è più scellerato o più vile, e le colpe che si portano alla fossa sono in proporzione degli anni che abbiamo vissuto. E Dio volesse, che per molti ogni anno della loro vita potesse essere contato da una bassezza soltanto!
Di qua dal Reno, tra la Franconia, la Baviera, e la valle dell’Eno giace un paese nominato Svevia. Corre fama che negli antichi tempi fosse Regno, nei successivi fu Ducato; finalmente nel secolo scorso perde anche questa prerogativa. La casa di Austria, e di Vittemberga, se ne divisero il suolo; nè ora incontriamo più principe in Germania che assuma il titolo di Duca di Svevia.
Nei secoli di cui abbiamo impreso a trattare durava una feroce guerra civile, cagionata dalle fazioni guelfa e ghibellina. Si riunivano i Guelfi sotto le bandiere dei Duchi di Baviera, stipite delle case di Hannover, di Brunswich, e di Modena: i Ghibellini si erano posti a capo i Duchi di Svevia, e così si chiamavano dal castello di Gibeling, che questi Duchi possedevano nella diocesi di Augusburgo.
Corrado III di Hohenstauffen, succeduto a Lotario III dopo gloriosissimo regno di quattordici anni, sentendosi nel 1152 sopraggiunto dal male di morte a Bamberga, chiamati a sè i principali Baroni dell’Impero, consigliava, lui morto, eleggessero Re il suo nepote Federigo; e diceva loro: – l’amore della patria doversi ad ogni affetto privato anteporre, principalmente da coloro che la Provvidenza chiama al reggimento dei popoli, e però egli, sebbene fornito di figli, amare meglio, che fossero con la pace dei fedeli Tedeschi privati baroni, che con la guerra regnanti: il suo nepote Federigo, come quello, che, pel matrimonio di Federigo il Guercio di Svevia con Giuditta figlia di Enrico di Baviera, riuniva il sangue delle due famiglie inimiche, affidargli di pace, non meno che di vigoroso governo, perocch’egli guerreggiando in Palestina lo aveva sempre veduto al suo fianco fare prove di prode e valente cavaliere. – Questa orazione di Corrado troviamo presso molti Storici celebrata come uno dei pochi fatti che onorano la nostra specie. Guardimi Dio da calunniare la memoria di tanto Imperatore; ma potè ben anche essere previdenza di uomo accorto, che volle fare sembiante di donare quello che non istava in sua potestà impedire: imperciocchè lo Impero fosse elettivo, nè il suo figliuolo presentasse quei vantaggi che sembravano derivare dalla elezione di Federigo.
Gli elettori dell’Impero convenuti a Francforte in generale assemblea, trovando i voti del defunto Corrado conformi ai desiderii loro, elessero Re dei Romani Federigo, dal bel colore d’oro dei suoi capelli denominato Barbarossa.
Quanto poi s’ingannassero intorno alla indole mite di Federigo, lo videro nel giorno della sua incoronazione a Ratisbona, dove supplicato a graziare certo Barone, superbamente rispose: «per rendere severa giustizia secondo le leggi, non già per perdonare i colpevoli, sono stato eletto sovrano.» Al punto stesso per non isfiduciare gli elettori, che tanta speranza di pace in lui avevano riposta, dichiarava volersi rimettere alla decisione della Dieta di Gostanza intorno la lite del Ducato di Baviera, attualmente pendente tra lui ed Enrico il Lione, Duca di Sassonia. La Dieta gli rese sentenza contraria, ed egli parve acquietarsi, finchè nei successivi tempi capitatogli il destro spogliò Enrico di ogni suo possesso, e dichiaratolo traditore, lo pose al bando dello Impero.
Nessuno Imperatore fu più vaso di guerra, più cupido, o più presuntuoso di lui. Egli voleva l’impero Romano qual era sotto Augusto restituire; egli l’Armenia, la Siria, l’Etiopia, l’Egitto, non che Italia, Francia, e Inghilterra sottomettere. Vero è però che tanto grandiosi concetti finirono in una lunga guerra, all’ultimo per lui sventurata, in Italia; ed in alcune scorrerie piuttosto da ladrone, che da Imperatore, in Armenia.
Mentre che Federigo dimorava a Gostanza, Albernardo Alamano, e maestro Omobuono, cittadini lodigiani, trovandosi colà, a caso od a consiglio, tolte in mano due croci, siccome correva costume dei supplicanti, si fecero a visitare Federigo, e pietosamente gli esposero i danni della patria loro, cagionati dalla orgogliosa Milano, la quale, per le concessioni degli Imperatori Ottoni reggendosi fino dal 960 a libero reggimento, era salita in tanta grandezza, che di ogni costituzione imperiale non curante o sprezzante, a null’altro intendeva che ad ingrandirsi, sottomettendo le prossimane città.
Queste cose, sebbene per nulla contribuissero sopra le determinazioni di Federigo, ormai disposto a calare in Italia dal punto del suo incoronamento, valsero nondimeno a sempre più concitarlo, vedendo di poter trarre profitto dalla divisione delle città italiche. Quindi è che, quasi per tentare gli animi, mandò Sicherio suo Segretario a Milano per intimare che i Lodigiani negli antichi diritti si ristorassero, e per raccogliere il Fodero, il Mansionatico, e la Parata, contribuzioni usuali pel passo degl’Imperatori: consistenti, la prima nelle derrate necessarie al suo mantenimento, e a quello del suo seguito: la seconda nella provvisione degli alberghi; nel riattamento di ponti e strade la terza.
Sicherio presentatosi al Consiglio di Milano espose la sua commissione, e mostrò le lettere. I Milanesi in risposta gliele strapparono di mano, e in sua presenza ingiuriosamente le calpestarono. Sicherio, fuggendo a precipizio, scampava mala pena la vita. I Lodigiani adesso, considerando lo aiuto lontano, e i Milanesi vicini, spedirono una chiave d’oro a Federigo, perchè si affrettasse. I Milanesi, parimente, conoscendo avere mal fatto, mandarono all’Imperatore una coppa d’oro piena di danaro, la quale non fu accettata.
Volgeva l’ottobre del 1154, allorchè Federigo con numeroso séguito di Baroni, tra i quali era notabile il suo stesso emulo Enrico il Lione, tutti vestiti di bellissime armature, e di magnifiche stoffe, mosse per la valle di Trento in Italia. Questa compagnia, poichè ebbe fatta alcuna dimora su le rive del lago di Garda, si condusse direttamente nei prati di Roncaglia, dove per antica consuetudine si tenevano le Diete nazionali. Qui Federigo ascoltava con piacere infinito le scambievoli accuse delle città italiche, in ispecie quelle contro Milano; imperciocchè partendosi di Germania non avesse ben risoluto se Milano, o Pavia, avrebbe distrutto: e solo in Roncaglia si decideva contro Milano, come quella che sembrava dovergli più lungamente resistere. Poneva fine al congresso, e comandava ai Consoli milanesi Oberto dell’Orto, e Gerardo Nigro, che lui e il suo esercito guidassero a Novara. I Consoli, da buoni cittadini, tenevano questi insolenti più che potevano lontani dalla patria loro, e per sentieri piuttosto malagevoli li conducevano, reputando nonostante questo accorgimento potere in ispazio convenevole di tempo il cammino per a Novara fornire. Attraversava la fortuna i generosi disegni: le piogge dirotte guastarono tanto le strade, che la vettovaglia cominciò a mancare. Federigo, che aveva dato quella incombenza ai Milanesi, onde far nascere un appicco per romperla, non è da dirsi se si mostrasse crucciato per questo accidente. Cacciava dal suo campo i Milanesi, le Campagne loro mandava a sacco, i ponti sul Ticino ardeva, Rosate, Trecate, Galliate, e Mummia, nobilissimi castelli, sovvertiva. Tentarono i Milanesi placarlo con preghiere, e con doni, ma furono sempre rigidamente ributtati; dalle quali cose inaspriti, attribuendo a colpa dei Consoli quello che si dipartiva da mal talento di Federigo, insorsero pieni d’ira contro di loro, e ad Oberto dell’Orto fino dalle fondamenta rovinarono la casa. La qual cosa dimostra come fare del bene ai tuoi simili, specialmente poi alle turbe mutabili e matte, il più delle volte venga considerato delitto, il quale non può andare immune di pene condegne.
Federigo, per adempire i desiderii di Guglielmo Marchese di Monferrato, muove contro Asti e Chieri. Trovatele vuote di abitatori, la prima abbatte, la seconda incendia; poi contro Tortona. Pretesto della guerra erano le ingiurie commesse dai Tortonesi a danno di Pavia; cagione vera l’essere collegati a Milano. Troppo lunga sarebbe la narrazione, quantunque piena di lagrime, della guerra di esterminio da loro preposta al mancare di fede verso Milano. Da levante, ponente, e tramontana, duramente assediati si difesero; alla vista dei proprii concittadini prigionieri, dal barbaro nemico impiccati, non piegarono; per sessantadue giorni dalle mura i nemici respinsero; le mine fatte alla Rôcca Rubea, per via di contrammine resero vane: finalmente consumati i cibi, – le acque, che andavano ad attingere fuori della città, con pece, zolfo, ed altre immondezze dall’assediatore guastate, si arresero. Prometteva Federigo lasciare la città intatta; avutala, comandava ai Pavesi la distruggessero. I cittadini sotto rigido cielo, in rigida stagione, andavano pietosamente tapinando. Il loro venerabile Abate di Bagnolo, mediatore del trattato, afflitto per tanto tradimento, si lasciava morire di affanno.
Federigo, ricevuta la corona reale a Pavia, s’indirizza a Roma. Adriano IV, in quel tempo surrogato ad Anastasio IV, cominciava il suo Pontificato con atto di rigore: trovando apertamente contraria ad ogni suo comando o consiglio la città di Roma per le prediche di Arnaldo da Brescia, la scomunicava. I Romani, per liberarsi dallo interdetto, pregarono Arnaldo volesse in qualche parte allontanarsi. Questi, cedendo ai tempi, si riparava in Otricoli, castello dei Conti di Campania. Adriano lo voleva morto, e di vero egli non era uomo da lasciarsi vivo: di anima ardente, di maschia eloquenza; nel sembiante, e più nei costumi, severo; innamorato dell’antica libertà, che i suoi contemporanei non sapevano nè volevano conoscere; dopo avere ascoltato a Parigi le lezioni del famoso Pietro Abelardo, si dette prima in Brescia, poi in Roma, a declamare contro i costumi dei chierici, in quei tempi infelici pur troppo, e con gemito degli stessi romani Pontefici, tralignati: predicava gli ecclesiastici non dovessero possedere beni terreni, non temporale dominio; non averlo ritenuto San Piero, e San Lino, anzi proibito espressamente Gesù Cristo; le citazioni di Tito Livio mesceva con quelle dell’Evangelo; Camillo e Scipione con San Pietro e San Paolo; sacro e profano, ogni cosa a rifascio. Di questo, poco, o nulla, si curavano i popoli; ma quando, rapito alla considerazione delle cose future, profetava Arnaldo risorgerebbe dalle rovine il Campidoglio; risorgerebbero il senno e il valore romano l’augusto Senato, terrore o riverenza delle nazioni, risorgerebbe. – si sollevavano a maraviglioso concitamento e già sembrava loro vedere innalzarsi pel cielo l’aquila temuta al vittorioso suo volo: di Papa, di Cardinali, di Chiesa, non si teneva più conto; Consoli, Tribuni, e Senato, occupavano le menti di tutti. A queste cose, di per sè sole sufficienti a condannare Arnaldo, si aggiunsero alcune massime, meno che rette, sul mistero della Trinità, forse attinte dal suo maestro Abelardo, che fu nel 1110 condannato nel Concilio di Soissons ad abbruciare di propria mano il libro da lui composto intorno questa divina materia. Il Concilio lateranense secondo, tenuto sotto Innocenzio II, lo dichiarava eretico, e come scomunicato lo condannava. Arnaldo ripara a Gostanza; perseguitato da San Bernardo fugge a Zurigo, dov’ebbe per alcun tempo stanza e vita sicure. – Ma per lo esilio di Arnaldo non cessavano le turbolenze romane. Innocenzio II, dopo essersi invano adoperato a quietarle, ne moriva di affanno. Lucio II, vestito degli abiti pontificali, mentre vuole salire al Campidoglio, côlto alla tempia da un sasso cade miseramente ammazzato. Eugenio III è costretto a fuggire, e lascia alla Provvidenza prendersi cura della Chiesa, poichè vede tornare invano ogni mezzo terreno. Nel Pontificato di Eugenio fu richiamato Arnaldo a Roma, dove stette fino al 1133 sempre vegliando alla grandezza di un popolo, che parve destinato dai cieli a non essere più grande. Adriano adesso lo chiedeva a Federigo: questi, che desiderava essere coronato dal Papa, arresta il Barone presso cui riparava Arnaldo, e lo costringe a consegnargli quel male arrivato. Cinto da numerosa milizia s’incamminava Arnaldo a Roma per ricevere, come malfattore, la pena sul luogo del delitto. S’innalza il rogo, si sottopone la fiamma… cresce… gli avvampa le vesti… gli abbrucia le piante… E dove è il popolo, che Arnaldo voleva far grande? – Il fuoco gli consuma il corpo: i suoi occhi, disperati di umano soccorso, si affissano ai firmamento: il firmamento non si muove: egli è fatto cadavere… polvere… E dove è il popolo, che Arnaldo voleva far grande? – Si raguna la cenere; si disperde al vento: il popolo accorre, urla, schiamazza, e vuole salvarlo. – Oh! come burlevole saresti, umana razza, se tu non facessi così sovente piangere!
Federigo, andando a Viterbo, incontra il Pontefice Adriano nei campi di Sutri. Era costume che i Regnanti Incontrando il Pontefice gli si prostrassero, gli baciassero il piede, gli tenessero la staffa, e la Ghinea per lo spazio di nove passi romani gli conducessero. Lo Svevo, sdegnando coteste cerimonie, si fa arditamente incontro ad Adriano, che lo respinge, e gli nega il bacio della pace. I Cardinali spaventati fuggono a Civita-Castellana: una aperta rottura sembrava imminente, allorchè Federigo, mosso dall’esempio di Lotario II, si dispone fare a Nepi quello che aveva ricusato a Sutri, e così pacificato col Papa s’incamminano insieme alla volta di Roma. È fama, che Federigo, nello eseguire queste cerimonie, sbagliasse staffa; la qual cosa essendogli fatta osservare da certo famigliare del Papa, rispondesse: ch’egli non aveva mai fatto lo staffiere, volendo con questo mordere la bassa nascita di Papa Adriano; come se non fosse maggior gloria di piccolo farsi potente; che nato grande mantenersi in grandezza.
Mentre così si avvicinavano a Roma, ecco occorrere a Federigo una magnifica ambasciata del Senato e del popolo romano, che ammessa alla sua presenza così cominciava: «Gran Re, noi, di straniero che eravate, vi abbiamo sollevato all’onore di essere cittadino, e Principe nostro;» e così continuavano, fino ad esporre per patti della sua incoronazione il pagamento di cinquemila libbre di oro, e la concessione al Senato di reggersi come meglio gli piacesse. Federigo, a mala pena contenendosi, tutto infiammato nel volto rispondeva: «Roma o omai gran tempo che è convertita in nudo nome; voi mentite, se osate affermare me essere vostro Principe per elezione della vostra volontà: Carlomagno e Ottone vi hanno vinto con le armi, ed io sono vostro Sovrano per legittima possessione… partite.»
Giunto innanzi Roma si attendò fuori delle mura: dipoi, per consiglio del Pontefice, mandati innanzi mille cavalieri ad occupare la città leonina, e il ponte sotto il castello di Sant’Angiolo, andò a San Pietro, dove dalle mani del Papa ricevè scettro, spada, e corona, applaudente lo esercito. Compiuta la cerimonia, tornava al campo. I Romani ragunatisi al Campidoglio risolvono non soffrire tanto manifesto disprezzo; assaltano la città leonina, e quanti Tedeschi vi trovano uccidono. S’ingaggia una molto terribile battaglia davanti Sant’Angiolo. I Romani combattono francamente fino a notte; allora con la perdita di mille duecento uomini sono respinti. I Tedeschi però, non estimandosi sicuri, si ritirano a Tivoli, dove Alessandro assolve i soldati, dichiarando: non essere delitto versare il sangue dei popoli per mantenere i Principi, ma vendetta dei diritti dell’Impero. E sempre così! Federigo lascia il Pontefice a Tivoli, e volte le armi contro Spoleti, divenutagli nemica per la prigionia di Guido Guerra, e pel rifiuto di certo Fodero, la vince, la saccheggia, e la incendia. Ormai in questa impresa le cose gli andavano a seconda, e di certo gli sarebbe venuto fatto di conquistare il Regno di Napoli. dove i suoi Baroni, obbligati a seguitarlo per due soli anni, volendo tornarsene a casa, non lo avessero costretto a congedarli in Ancona. Egli poi traversata Romagna con modesta compagnia, alquanto tempo dopo teneva lor dietro. Giunto a Verona, poichè questa città godeva il privilegio di non dare il passo alle milizie imperiali, gli apprestavano un ponte su l’Adige. Il ponte fu dai Veronesi costruito con questo intendimento, che quando gli Imperiali fossero in parte passati, col gettare zattere cariche di terra nella corrente superiore del fiume, si rompesse, e così divisi, potessero agevolmente trucidarli. Ma l’inganno tornò in capo agli ingannatori; perchè i Tedeschi, duramente incalzati dalla gente del contado, passando a precipizio scamparono; gl’inseguenti rimasero rotti, ed una parte di questi, senza poterli soccorrere. stette sopra una riva, dolente spettatrice dello scempio che si faceva su l’altra dei suoi infelici compagni.
Questa è la prima spedizione di Federigo in Italia. narrata diligentemente da Ottone Frisingen, figlio di Leopoldo di Austria. Ben altre sei, sebbene con maggiore brevità, ne verremo esponendo, tutte piene di casi scellerati. Ora l’ordine della narrazione ci porta a contare le vicende del Reame di Napoli.
I Normanni, divenuti cristiani, dopo il conquisto della Neustria grandemente si dilettarono di sante pellegrinazioni; e visitata da prima Gerusalemme, passavano in Puglia, dove adorati i santuarii del monte Gargano e del monte Cassino, se ne tornavano in patria. Nel 1016 cento di questi Normanni trapassando per Salerno, allora governato dal Duca Guaimaro III, videro con maraviglia una masnada di Saracini sbarcare di nave, mettere a contribuzione la città, e aspettando il tributo darsi a banchettare trascuratamente sul lido: molto e più stupirono poi, allorchè i Salernitani, invece di apparecchiarsi a combattere, prepararono le cose richieste: onde sentendosi punti di vergogna per loro, sortirono dalla città, si gittarono addosso ai Saracini, e, molti uccidendone, costrinsero i rimanenti alla fuga. Pensisi quali accoglienze facesse loro Guaimaro. Voleva ad ogni costo ritenerli, ma rifiutarono; promettevano che gli avrebbero mandato alcuni compagni, e riccamente regalati si congedavano. Giunti in patria, la bellezza di questo nostro suolo esaltando, gli ori e le sete ricevute in dono mostrando, e sopra ogni altra cosa facendo gustare le frutta, che seco avevano recato, invogliarono gran parte dei concittadini loro a passare in Puglia. Di qui la conquista normanna del Regno di Napoli: vennevi primo Drengotto con poca fortuna: vennevi con migliore nel 1035 Tancredi di Altavilla coi suoi dodici figliuoli. Ponendosi ora sotto il comando di un Duca, ora sotto quello di un altro, vendendo il proprio braccio, per lo indebolimento di tutti giunsero a tale grado di potenza, che Papa Lione IX, timoroso pei suoi Stati Romani, predicò la Crociata contro di loro. Il Pontefice, quantunque sovvenuto da Tedeschi, Greci, Campani e Pugliesi, disfatto alla battaglia di Civitella, combattuta il 18 giugno 1053, cadde nelle mani di Unfrido braccio di ferro, Conte di Puglia, primogenito di Tancredi di Altavilla. Le molte cortesie adoperate dal Conte Unfrido al Pontefice, di nemico ch’egli era, glielo resero tanto benevolo e amico, che potè indurlo a investirlo, a nome di San Pietro, delle presenti e delle future conquiste, promettendogli in cambio un censo annuale di ottomila once d’oro. Morto Unfrido, succedeva Roberto il Guiscardo. Le conquiste di questo eroe furono tante, e tanto maravigliose, che gli antichi cronisti vollero, piuttosto che al suo valore, attribuirle a miracolo. La morte lo colse a Cefalonia nel luglio del 1085, allorchè si apprestava ad occupare la Grecia. Lasciò due figli, Rogiero Gran Conte di Puglia, o Boemondo: questi contesero del Principato, finchè la guerra delle Crociate aprendo vastissimo campo all’ambizione di Boemondo, passò in Soria, dove sottomise e tenne Antiochia. Rogiero, rimasto tranquillo possessore del retaggio paterno, muore a Melito nel luglio del 1101: gli succede Guglielmo, che, defunto anch’egli a Salerno nel 1127 senza prole, lascia tutti i suoi Stati a Rogiero II, suo cugino, figlio di Rogiero I, il quale, vivendo il Guiscardo, aveva conquistato Sicilia. Questo Rogiero II fu di mano, e più di consiglio, valoroso; per concessione dell’antipapa Anacleto II assunse corona reale; perdè, e ricuperò il Regno di qua dal Faro sotto Lotario II; fece prigioniero Papa Innocenzio II, e lo costrinse a confermargli la investitura del Regno di Sicilia; finalmente, dopo lunga e gloriosa vita, morì a Palermo nel febbraio del 1153. lasciando Guglielmo I detto il Malvagio regnante ai tempi del Barbarossa.
Fu il Regno di Guglielmo, non tanto per le forze degli esterni nemici, quanto por le interne rivoluzioni, tutto sconvolto. Maione, uomo oscuro di Bari, salì a tanta altezza di potere su l’animo del Re, che nessuna cosa, per quanto grande ella fosse, da altri fuorchè da lui si amministrava. La petulanza di questo Ministro si manifesta dalla domanda ch’ei fece ai Frati di Monte Cassino, affinchè registrassero sopra il loro libro dei Defunti (dove solamente si segnavano Papi, Imperatori, Re ec.) la morte dei suoi genitori: e i Monaci, però che l’adulazione sia stato male di tutti i tempi e di tutti, scrivevano sul libro: – Curazza mater Madii Magni Admirati Admiratorum obiit VII. K. Augus. Et Leo pater Admirati Admiratorum obiit VI. I. Sept. – Ora non rimanendogli più nulla da desiderare, come Ministro, e Grande Ammiraglio degli Ammiragli, sollevò la mente a più alti disegni. Tentò e vinse l’onestà della Regina. I primi gradi della milizia al suo fratello, e al suo figlio, concesse. Simone suo nepote creò Gran Siniscalco; mediante il matrimonio di sua figlia sperò farsi partigiano Mario Bonello cavaliere di moltissimo seguito nel Regno. Istruì eziandio pratiche con Alessandro, perchè ad esempio di Papa Zaccheria, che rimosse Childerico dal trono di Francia, deponesse Guglielmo, e lui in sua vece costituisse. Alessandro, conoscendo la malvagità di Maione, ributtò il trattato. Non per questo si rimase l’Ammiraglio, che anzi, considerando come fossero di grave impedimento ai suoi disegni Roberto Conte di Loritello, Simone Conte di Policastro, e Roberto Principe di Capua, signori riputatissimi, e parenti del Re, si accostò ad Ugone Arcivescovo di Palermo, uomo anche egli avido di dominio, e abbindolatolo con infinite promesse, gli scoperse i suoi segreti pensieri, e lo indusse a giurare, che in ogni fortuna, per quanto fosse stato in lui, lo avrebbe sostenuto. Intanto il Re Guglielmo stavasi chiuso nel suo palazzo di Palermo, sospettoso della lega che correva voce avessero stretto a suo danno gl’Imperatori Federigo Barbarossa, ed Emanuelle Comneno: dubitava della fede dei suoi Baroni; dubitava dei parenti, di sè medesimo dubitava. Maione conobbe essere giunto il tempo di rovinare gli odiati nemici, che con altrettanto odio lo ricambiavano. Cominciò da Roberto di Capila, che in quel torno dimorava a Sorrento; da prima lo mostra quale uomo pericoloso alla pace del Regno; vedendo che le parole trovavano tenero nell’animo di Guglielmo, lo accusa di ambiziose macchinazioni, finalmente di segrete intelligenze col nemico. Si spediscono genti ad arrestarlo. Roberto, avvertito in buon punto, si parte di Puglia, e con molti seguaci ripara negli Abruzzi. Rimanevano i Conti Simone e Roberto. Maione fece insorgere una rissa tra le milizie comandate dal Cancelliere Asclettino, e quelle del Conte Simone; descrisse quel tumulto come gli parve; aggiunse essere il Conte cagione di cotesti disturbi, congiurare insieme col Conte Roberto in pro del Principe di Capua; suppose lettere e messi, per modo che il Re, fatto arrestare Simone, senza pure ascoltarlo, lo condannava a perpetua prigionia.
Gravissima fu la indignazione dei popoli per così grave attentato; oggimai non potendo più sopportare la tirannide di Maione e di Guglielmo, proruppero in manifesta rivolta. Si videro a un punto la Calabria, la Puglia e la Terra di Lavoro, ardere di crudelissima guerra. Il Conte Roberto vinse Taranto; sovvenuto da Emanuele Comneno superò Bari, poi Brindisi; – tutta la Puglia sossopra. Nè meglio andavano le cose in Terra di Lavoro, chè quivi infuriava il Principe di Capua. Nel Picentino, meno Amalfi, Napoli e Palermo, ogni altra città venuta in mano di Riccardo dell’Aquila Conte di Fondi. Il Conte di Rupe Canina aveva sottomesso tutto il contado di Alife.
Guglielmo, logorando neghittosamente la vita nel suo palazzo, tutte queste cose ignorava, chè con molta avvedutezza gliele nascondeva Maione. Si manifesta finalmente la rivolta in Palermo: allora Guglielmo, conosciuto il pericolo, si mostrò al popolo, ed acquietò il tumulto: Butera occupata dai ribelli ricupera, Simone sprigiona, appresta milizie, e valica il Faro. Maione fu ad un punto maravigliato e atterrito da così repentino mutamento; e da che non gli fu possibile sopire quel subito ardore, stimò meglio seguirlo. Guglielmo continuando il suo cammino campeggia, ed espugna Brindisi, fuga il Principe di Capua, distrugge Bari, prende Taranto, e duramente assediando Benevento, costringe Papa Adriano IV, principale fautore di quelle sommosse, a concedere vantaggiosissime condizioni di pace. I Baroni ribelli, disperati di potere resistere, cercano salute. I Conti Roberto, di Rupe Canina, ed altri, riparano in Lombardia. Roberto Principe di Capua, mentre vuol passare il Garigliano, tradito dal Conte Riccardo dell’Aquila, che col secondo tradimento fugge la pena del primo, e consegue la infamia di ambedue, è condotto a Palermo, dove crudelmente abbacinato perde la vita.
Ma il terrore, dove non sia da milizie permanenti conservato, non vale nè anche per poco a frenare i popoli ribellanti. Tornato appena Guglielmo agli ozii del suo castello di Palermo, la Puglia imprende a tumultuare di nuovo. Maione stimò bene spedire Mario Bonello a comporre que’ moti. Questi, parte per l’odio segreto che portava all’Ammiraglio, il quale, volendolo ad ogni costo per genero, gli attraversava le nozze con Clemenza Contessa di Catanzaro, da lui ardentemente amata; parte pei discorsi di Rogiero da Martorano cavaliere di molta reputazione, congiurò co’ suoi nemici, ed anzi promise loro di ucciderlo. Intanto Maione, stimando giunto il tempo di mandare ad esecuzione le cose concepite, si consigliava con l’Arcivescovo; si accordarono su la morte del Re, su la tutela dei figli dissentirono. La pretendeva l’Ammiraglio: Ugone, conoscendo la sua perfidia, non voleva concederla: cominciarono scambievolmente a dolersi; poi vennero ad acerbe parole, alla fine partirono nemici. L’Arcivescovo è avvelenato. Tornava il Bonello, e assicurava Maione essere le cose di Puglia affatto quietate: saputa la contesa dell’Arcivescovo con l’Ammiraglio, si fa a trovare l’Arcivescovo giacente in letto, dal quale intesa la trama di Maione, sempre più si conferma nel proponimento di ucciderlo. Ora l’Ammiraglio, vedendo che il tossico amministrato ad Ugone non faceva gran frutto, timoroso dell’esito, presone seco uno più violento, andò con lieta faccia a trovarlo: gli favella dolcemente, protesta volergli ritornare amico, scapitare ambedue in quella contesa; pensasse a sanare; a lui più che ad altri stare a cuore la sua salute; avergli perciò recato un suo medicamento, che per certo lo avrebbe tornato da morte a vita. L’Arcivescovo, conosciuta la perfidia, si scusò con arte, e chiamato il Vescovo di Messina, mandò ad avvisare il Bonello come l’Ammiraglio si trovasse in casa sua. Maione, ricambiate molte parole di amore con Ugone, partiva; la notte era oscura, nè alcuno del séguito dell’Ammiraglio temeva insidie; giunto che fu alla chiesa di Sant’Agata, il Bonello, fattoglisi addosso, gridava: «Sei morto, traditore e adultero del mio Re.» Parava l’assalito il primo colpo; ma dal secondo mortalmente trafitto cadeva. Mentre però l’Ammiraglio di morte sanguinosa sopra la pubblica strada finiva la vita, quasi fosse consiglio della Provvidenza, l’Arcivescovo, da fiere convulsioni travagliato, in mezzo ad atroci dolori di viscere spirava l’anima.
Il Bonello fugge da Palermo. Il Re, udito il caso, sentì gravissimo sdegno per la morte del suo favorito; molto maggiore la Regina. Alla fine Guglielmo, conosciuta la perfidia di Maione, tra i tesori del quale fu trovata una corona reale, chiama in Corte il Bonello, e lo ritorna in grazia. Ma l’odio della Regina vegliava contro di lui, e ad un Re sospettoso riesce facile cosa persuadere ch’è traditore un potente ed ardito Cortigiano. Il Bonello, accortosi del temporale, macchina nuova congiura, e vi trae il Conte Simone, e Tancredi di Lecce, parenti del Re, tenuti per suo comando a guisa di prigionieri con molti altri principali Baroni dell’Isola. Ciò fatto, accorre a Mistretto suo castello, per provvederlo di arme e di vittovaglie, onde in caso di fortuna contraria gli fosse aperta una via di salute. Mentre che qui dimorava, un discorso imprudente, da certo soldato, partecipe del negozio, tenuto al suo compagno, costrinse i congiurati a precipitare gl’indugi. Il Gavarretto custode del Conte Simone e di Tancredi, secondo il convenuto, li toglie di prigione, e questi seguiti da molti s’incamminano alle stanze del Re. Sedeva tranquillamente Guglielmo ragionando con Enrico Aristippo: alla vista di Simone e di Tancredi, sdegnato perchè senza suo ordine gli comparissero innanzi, prese a minacciare, poi a fuggire; ma presto raggiunto con le spade nude dal Conte di Lesina e da Roberto Bovense, uomini feroci, questi dissero di levargli la vita, e lo facevano; ma Riccardo Mandra gli rattenne, e provvide alla salvezza del Re trasportandolo prontamente in prigione. Allora, secondo l’ordine della congiura, cavato fuori del palazzo Rogiero, primogenito di Guglielmo, lo fecero cavalcare per la città, e lo salutarono Re. In questa Gualtieri Arcidiacono di Ceffalù andava esponendo i delitti di Guglielmo, e confortava con la speranza delle virtù di Rogiero: il popolo applaudiva! Ma il Bonello non si vedeva. Senza un conveniente sussidio di armati non si ricava frutto dalle congiure: partiva Tancredi ad affrettarlo. Ormai erano trapassati tre giorni, nè il Bonello nè Tancredi comparivano. Romualdo Arcivescovo di Salerno, Roberto Arcivescovo di Messina, l’eletto di Siracusa, e il Vescovo di Mezzara, sia perchè in questa mutazione avessero perduto, sia che in una nuova sperassero acquistare, si dettero a persuadere ai Palermitani sprigionassero il Re: lo sprigionarono. I congiurati, dalla velocità dei moti smarriti e confusi, abbandonano Palermo. Guglielmo, trascorrendo armato le vie della città, vide farglisi incontro Rogiero, amabile ed avvenente giovanetto, sua gioia nel tempo passato, ora tutto giubbilante per la ricuperata libertà del padre; preso da profondo dispetto non ravvisa in lui il figlio, ma il nemico che volle strappargli la corona e la vita: lo percote nel petto: il giovane spira l’anima senza mandare un gemito: il popolo applaudiva! Guglielmo, avvedutosi del misfatto, deposta la veste reale, mettendo dolorosi guai, come se avesse perduto l’intelletto, schiuse le porte del palazzo, chiunque passava traeva dentro, e amaramente piangendo gli raccontava la sua disavventura. Tra tanto dolore domestico fu posta in oblio ogni pubblica vicenda. Il Bonello, un’altra volta perdonato, congiurava un’altra volta. Richiesto dal Re di una spiegazione intorno alla sua condotta, rispondeva superbo. Il Re si armava; vinti i ribelli, parte uccideva, parte bandiva: il Bonello rinchiuso in oscurissima prigione, poichè ebbe gli occhi abbacinati e i nervi sopra i talloni recisi, piangendo il duro destino, di vilissima morte terminava la vita. I rimanenti giorni del Re Guglielmo furono uno alternare di ribellioni, di ferro e di veleno. Le dure estorsioni, con le quali angustiava i sudditi, appaiono più spaventose che credibili. La sua crudeltà fu tale, che non si sbramasse neppure sopra i nemici fatti cadaveri; a brani a brani, su per la pubblica piazza, a vista di popolo, gli facea mettere dai morsi di affamati mastini: e il popolo applaudiva! – Nel 1166 la morte pose fine alla sua esistenza, che, e per lui, e per gli altri, era stata flagello.
Molti dei fatti siciliani fin qui raccontati succedevano contemporanei a quelli di Lombardia che ora siamo per raccontare; ma a noi piacque separarneli, sì perchè possono stare divisi, sì perchè ordinati disgiuntamente fra loro rappresentano un quadro molto meglio importante. Torniamo adesso a parlare di Federigo. Andava questi forte cruccioso contro Papa Adriano per la pace conclusa con Guglielmo I; era il Papa adirato contro Federigo per l’arresto dell’Arcivescovo di London. Questi semi di mala intelligenza proruppero in manifesta discordia, allorchè Adriano mandategli sue lettere, dopo averlo gravemente ammonito, scriveva: «rammentasse bene, ch’egli teneva lo impero come beneficio della Chiesa;» la qual parola significava feudo. A questo motivo, sebbene di per sè stesso sufficiente, si aggiunse la notizia che Adriano aveva fatto dipingere sopra le pareti del palazzo di Laterano Lotario II genuflesso innanzi Alessandro II, tenendo le mani sopra quelle del Pontefice con sotto l’iscrizione:
/# «Rex venit ante fores – jurans prius urbis honores, Post homo fit Papæ – sumit quo dante coronam:» #/
la qual cosa stava a dimostrare vassallaggio. Federigo, insofferente di tante ingiurie, cala pel Friuli un’altra volta in Italia, passa su quel di Brescia, dove pubblica una disciplina per l’esercito, e cita i Milanesi. Comparsi, gl’interroga, perchè abbiano riposta Tortona, sottomessa Lomellina, i ponti su l’Adda e sul Ticino rifabbricati. I Milanesi, non potendo con le armi, si difendevano con le parole; non si ascoltavano, e si ponevano al bando dell’Impero. Federigo avanzandosi è respinto al ponte di Cassano. Ladislao Re di Boemia valica l’Adda a Cornaliano; i Milanesi ritirandosi abbandonano il ponte; i Tedeschi incalzando superano i castelli di Trezzo e Melagnano, e pervengono sul contado di Lodi. Qui fu che Eberto da Butena, stimando con un súbito assalto superare Milano, partiva con mille cavalieri alla volta di questa città. – Non uno di loro sopravvisse a recare la novella della strage degli altri. Federigo muove con tutto l’esercito contro Milano; considerando difficile l’assedio, stabilisce il blocco. Divide in sette corpi l’esercito, e li pone a guardia delle sette porte della città. I Milanesi sortono e rompono il corpo di Corrado Conte Palatino; ma sovvenuto a tempo da Ladislao di Boemia gli ributta con perdita. Invano con eroico valore quaranta Milanesi contro esercito di centomila uomini difesero un arco antico posto in mezzo del campo; invano tentarono i cittadini nuove sortite e alcune ne trassero ad avventuroso fine. Milano è costretto a piegare. Guido Conte di Biandrate, mediatore per la pace, conclude il 7 settembre 1158 un trattato nel quale si conveniva, che i Milanesi cedessero le Regalie; novemila marchi di argento, e trecento ostaggi consegnassero: Federigo all’incontro la facoltà di governarsi a modo loro concedeva, del solo giuramento di fedeltà si contentava. Ciò fatto, fu nuovamente convocata per San Martino la Dieta a Roncaglia. V’intervenivano Bulgaro e Martino scolari d’Irnerio, reputatissimi giureconsulti invitati da Federigo. Disputarono se l’Imperatore fosse padrone del mondo. Negò Bulgaro, affermò Martino. Si racconta che l’orazione di Martino piacesse tanto a Federigo, che sceso da cavallo glielo offrisse in dono, per lo che Bulgaro con un bisticcio latino dicesse – Amisi equum, propter æquum (perdei il cavallo per difendere il giusto). Bartolo, quell’aquila dei giureconsulti antichi e moderni, giunse nei tempi posteriori a qualificare eretico chiunque si fosse avvisato sostenere diversa sentenza. La qual cosa sta a dimostrare, nel dizionario dei legisti eresia suonare generosità: tanto è vero che ogni arte ha i suoi termini proprii, o come oggi diciamo tecnici! Conseguenza di questa Dieta fu, che Federigo rivendicasse le Regalie, e si attribuisse il diritto di mandare Vicarii nelle città lombarde per governarle a piacer suo. Malgrado i patti poco tempo innanzi conclusi con Milano, non volle eccettuarla dalla decisione della Dieta; mandava un Vicario a reggerla; questi tutto rotto di battiture gli tornava in breve, cacciato a vituperio dalla città. Federigo, convocata una Dieta ad Antimaco, mette i Milanesi al bando dell’Impero. I Milanesi si uniscono ai Cremaschi, ed apparecchiano le difese. L’Imperatore assedia Crema. Diremo noi la nefanda strage commessa da Federigo di quanti prigioni gli venivano in mano? Diremo come facesse appendere vivi moltissimi ostaggi cremaschi intorno ad una torre per muoverla sicura contro la città, e come i padri di cotesti infelici, fermi di salvare la patria, urlando disperatamente, lanciassero sassi ed armi, per respingerla con la morte della propria prole? La torre fu bene costretta a indietreggiare, ma lurida di sparse cervella e di sangue, – ma maladetta per generosi parricidii… Diremo come tanti sforzi tornassero vani, e come la città fosse tradita, arsa, distrutta? No, esponiamo, se non più glorioso, meno lagrimevole fatto alle armi italiane. Correva il 9 agosto 1160, allorchè Federigo sapendo che i Milanesi si erano messi in campagna, accorse a guerreggiarli con Novaresi, Pavesi, Comaschi ed altri infiniti. La fortuna gli fu di tanto cortese che gli venne fatto di circondarli: ormai pareva non potessero sfuggire l’universale esterminio. I Milanesi, nulla per questo caso sbigottiti, divise in due le milizie, attendono battaglia. Federigo comincia un furiosissimo assalto; le masnade romana e orientale, duramente percosse, piegano e fuggono; egli le incalza, giunge al Carroccio, ne uccide di propria mano i bovi, e rapisce il gonfalone. Intanto per altra parte la seconda ala milanese, vinti i nemici, tornavasi al campo. Udita la nuova del Carroccio, tutta baldanzosa per la fresca vittoria, si precipita sul vincente Federigo; questi lunga pezza tien fermo; alfine, sopraffatto da irresistibile impeto, si volge in vergognosa fuga, lasciando arme e prigioni.
Se un pari numero di soldati avesse per ambedue le parti combattuto anche in séguito, e solo fosse stata contesa di valore, la prodezza italiana avrebbe certamente prevalso; ma nel successivo anno, centomila Tedeschi scesi dall’Alpi in soccorso dello Imperatore, lo riposero in grado di scorrere il Milanese. Orribile fu il guasto che cagionava; a quanti poteva far prigionieri le mani recideva; finalmente dopo infinite crudeltà tornava ad assediare Milano. Di lì a poco le provvisioni, sia che non se ne potessero, o non se ne volessero raccogliere, mancarono in questa città. Chiesero i Milanesi di venire ai patti; rispondeva Federigo, non volerli ricevere che a discrezione. I nobili si disponevano piuttosto a morire; la plebe si ammotinò, e li costrinse a cedere. Qui comincia la pietosa rovina di Milano, di cui la descrizione volentieri esporremmo, se molte gravissime cose non ci rimanessero a raccontare. Fu il diroccamento di Milano operato da mani italiane; nè più crudelmente avrebbero fatto gli stessi nemici. Questa era la carità della patria nei nostri padri! Nè ciò dico per dimostrare che noi siamo migliori: ma essi non furono meno scellerati di noi: – iniqui tutti! Ormai il governo di Federigo era divenuto increscioso alla più parte delle città lombarde; nessuna poteva sperare di resistere sola: unite, sarebbe stata cosa da tentarsi, e la tentarono. Prima Verona ne fece proposta: Padova. Vicenza, Treviso, acconsentirono seconde; poco dopo Venezia. Federigo, ch’era tornato in Lamagna a cagione di una sommossa, scende nuovamente in Italia, ma adesso per Valle Camonica onde evitare i Veronesi. Seguiva un congresso nel Monastero di Santo Jacopo in Pontida, tra Milano e Bergamo, dove gli abitanti della Marca di Verona convengono con Mantovani, Cremonesi, Bresciani, Bergamaschi, Ferraresi, e Milanesi, e giurano di non posare le armi finchè non abbiano i perduti diritti ricuperato. Federigo evitando questa improvvisa tempesta va a Roma, in parte la incendia, poi muove per Napoli. La peste gli distrugge l’esercito; a guisa di fuggiasco passa per Lucca, e s’incammina a Pontremoli, di cui gli abitatori gli si oppongono, e minacciano arrestarlo: sovvenuto dal Marchese Malaspina giunge a salvarsi in Lamagna. La Lega, divenuta di giorno in giorno più formidabile, fabbrica tra il contado di Pavia e quello del Conte di Monforte, nel confluente del Tanaro e della Bormida, sopra un terreno limaccioso e arrendevole, una città che in onore di Alessandro Pontefice chiamano Alessandria. Federigo oltremodo sdegnoso per questi avvenimenti, non potendo venire in persona, mandò per reprimere la ribellione il suo Vicario Cristiano Arcivescovo di Magonza: questi dopo alcuni fatti, che si vorrebbero raccontare se mostrassero almeno quella specie di coraggio che mostra il ladrone su la pubblica via, stringeva d’assedio Ancona. I Veneziani, separatisi dalla Lega Lombarda, si uniscono a Cristiano, e l’assaltano dal lato del mare. Gli Anconitani adesso si chiariscono veri eredi delle glorie passate, e degni figli di sangue latino: assaliti, tennero fermo; assalitori, respinsero. In una sortita ruppero il nemico con sì fatto impeto, che, fuggendo alla dirotta, lasciò in potere loro una torre: era questa macchina, quantunque di legno, fortissima, e tutta piena di armati, che facevano sembianza di volerla difendere fino all’ultimo sangue. Ognuno dubitava; quel pericolo certo atterriva tutti; la più parte diceva lasciarla stare. Stumara, valorosa gentildonna, vergognando della viltà loro, senza mettere tempo tramezzo, preso un tizzone, si scaglia a tutta corsa verso la torre: vi giunge, vi appicca il fuoco, nè prima si diparte, che, suscitato un altissimo incendio, conosce, di lì a poco sarà ridotta in cenere. Tanto valore fu per essere indarno, a cagione del difetto di vettovaglie: mancate le cose convenienti a cibarsi, mangiarono cuoio, schifosi animali, e sozzure: finalmente finirono anche queste. I buoni, che sono sempre i pochi, dimessa la faccia aspettano l’ultimo momento; i tristi, tenaci della vita quanto più meritano la morte, si sollevano, schiamazzano, e testa a cui si oppone: di súbito sorge un vecchio cieco, che, ringraziando il cielo per averlo privato della luce, onde non vedere questo giorno di avvilimento, e d’infamia, rimprovera chi parla di resa, li dispera del perdono nemico, dimostra loro potersi salvare la città; resistessero: a questo non avergli riserbati il Signore, conforto dei miseri, riparatore della sciagura; in lui confidassero, in lui che infrange i denti al lione, e toglie il veleno al serpente. La plebe taceva; i più prudenti prevalendosi del tempo ragunano quanto più possono danaro, ne caricano una barca, che, guidata da gente esperta ed ardita, passa a salvamento per le galere veneziane, giunge a Guglielmo Marchesella, capo dei Guelfi di Ferrara, e lo sollecita di affrettarsi al soccorso. Intanto la fame diventava incomportabile in Ancona. Usciva una nobile donna dalla casa di certa vicina, dove l’aveva condotta il bisogno a ricercare un po’ di pane per sostentarsi, e nudrire col latte un bambinello che si recava in braccio, – e non lo aveva trovato; – egli era rigoglioso e bello; stava assopito col capo mollemente appoggiato alla spalla della madre, che con pietà lo sogguardava. Si sveglierà quell’innocente, nè troverà nel suo seno alimento che valga a nudrirlo! – I passi della madre sono tardi e mal sicuri; all’improvviso inciampa in qualche cosa, che le si pone tra i piedi:… era un soldato che giaceva sfinito dalla fame; ella lo scuote, e gli dice: «Da molti giorni io mangio cuoio bollito, e il latte è presso a mancare al mio fantolino; àlzati nonpertanto, e se nelle mie poppe trovi di che sollevarti, confortati per la difesa della patria.» Innalza i pesanti occhi il soldato. vede la gentildonna, la vergogna gli riconduce il vermiglio sul volto, e sostiene quel corpo estenuato; sorge, si lancia contro i nemici, alquanti ne uccide, e cade trafitto sul campo.
Guglielmo Marchesella, co’ danari di Ancona ragunate genti e vettovaglie, arriva a Falcognara, quattro miglia distante dalla città assediata. Si ferma, e sopraggiunta la notte, ordina ai soldati sospendano uno o più lumi alle lance, e si fa oltre gridando; gli Anconitani rispondono: Cristiano atterrito fugge su le montagne picene, poi pel Ducato di Spoleti. I Veneziani a lor posta si ritirano. Ancona è liberata.
Federigo nell’ottobre del 1174, abbandonata Lamagna, per la parte del monte Cenisio raggiunge il suo Vicario Cristiano; in passando arde Susa, occupa Asti, e viene ad assediare Alessandria. La difesa di questa città meriterebbe descrizione ben lunga: e’ fu un fatto di arme da celebrarsi quanto qualunque altro antico, o moderno; perchè, a dire vero, sebbene gl’Italiani di que’ tempi apparissero scellerati, pure era loro più facile mostrarsi magnanimi, che a quei di oggi mostrarsi non vili. Alessandria, difesa da un argine di terra male assodata, ributtando l’Imperatore, chiarì nuovamente che il petto di cittadini disposti a morire sia il miglior baluardo per la tutela di un popolo. Federigo ricorse al tradimento, ma non ne ricavò altro che infamia. Sempre ributtato, scioglie dopo quattro mesi l’assedio, e si ritira a Pavia. Nel nuovo anno 1176 Wiemanno Arcivescovo di Maddeburgo, Filippo Arcivescovo di Colonia, e molti altri prelati vengono con numerosissimi eserciti pei Grigioni e per Chiavenna in soccorso dell’Imperatore. Nel 29 maggio si combatte la battaglia di Legnano. Questa terra, posta tra l’Olona e il Ticino, lungo la via che mena al Lago Maggiore, occuparono i Milanesi, come quella che offre ottime situazioni per la difesa, e per offendere ha non lontane vastissime pianure dove si possono spiegare numerose milizie. Federigo si attendò a Cariate, piccolo borgo, lontano circa mezzo miglio da Fagnano, nel quale sorgeva un antico monastero, fabbricato dalla Regina Teodolinda di santa memoria. Combattevano co’ Milanesi. Bresciani, Piacentini, Novaresi, Lodigiani e Vercellesi: coi Tedeschi i Comaschi, i Pavesi e il Marchese di Monferrato. Sul far del giorno settecento cavalieri lombardi mossero contro Federigo: questi manda a incontrarli cinquecento dei suoi; si comincia la battaglia: combattevasi francamente per ambedue le parti, chè i Tedeschi erano in quel tempo i migliori cavalieri del mondo, e gl’Italiani pieni di ardire per la causa difesa. Nondimeno i Tedeschi, per nuovi rinforzi, sempre crescenti, rompono gl’Italiani, e gli mettono in fuga. Ora i vittoriosi, invece di starsi rannodati ad aspettare le rimanenti forze nemiche, si danno ad inseguire i vinti, ed incontrate per via alcune schiere bresciane, quelle parimente percuotono e disperdono. L’Imperatore sebbene biasimasse cotesto intempestivo inseguire, volendosi nondimeno prevalere dello sgomento che le prime mosse avevano gettato nelle file lombarde, carica col grosso dei fanti la compagnia del Carroccio; questa al primo impeto scompigliata si piega, quasi fuggendo; Federigo incalza, e già sta presso ad impadronirsi del gonfalone. Allora la compagnia della Morte, composta di novecento giovani e nobili cavalieri, tutti legati col giuramento di vincere o morire, che formava la schiera di riscossa, visto quell’estremo caso, si getta da cavallo, si prostra, invoca il nome di Dio, dei Santi Pietro ed Ambrogio, ripete ad alta voce il giuramento, e si precipita nella zuffa. Federigo, respinto da quella dura carica, torna all’assalto; nuovamente ributtato, si volge ai suoi per inanimirli: ma questi scorati, esitano, e si perdono; la furia dei rovinanti nemici gli sfonda; Federigo stesso rovesciato da cavallo viene con pericolo di vita travolto nella fuga. La battaglia è convertita in miserabile strage di gente sbandata. Molti furono i morti sul campo, moltissimi i sommersi nel Ticino. Ai Comaschi, siccome traditori, non si dettero i quartieri, e mala pena ai Tedeschi. Venne in potere dei Lombardi il tesoro imperiale, lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia di Federigo medesimo; per più giorni non si ebbe nuova di lui. La Imperatrice rimasta a Como lo pianse per morto, e si vestì a lutto.
Federigo non pertanto viveva: fatto prigioniero dai Bresciani, si traveste da mendico, e ricompare a Pavia con l’onta di una disfatta sul volto. Fremeva il superbo nel doversi dir vinto: ma i casi più potenti di lui lo costringevano a mandare a Roma ambasciatori per la pace, tanto adesso da lui lealmente domandata, quanto poc’anzi perfidamente conclusa con Ezzelino padre del feroce Ezzelino da Romano, ed Anselmo padre di Buoso da Doara, a nome della Lega Lombarda. Convennero di un Congresso in Bologna; poi mutarono in Venezia, a patto che non c’intervenisse lo Imperatore se non a pace fermata. I Ministri non si accordavano; invece di pace proponevano tregua di quindici anni pel Papa e pel Re di Sicilia, di sei per la Lega Lombarda. Federigo domanda avvicinarsi al luogo del Congresso, e al punto stesso, senza nessuna risposta aspettare, lasciata Pomposa, villa nel contado di Ravenna, giunge a Chiozza. Parte dei Veneziani tumultuando chiede che sia ammesso in città; il Papa, e i Legati Siciliani sostengono doversi stare ai patti: accetti la tregua, e la ratifichi, altrimenti si allontani; se ai cittadini piacesse riceverlo, lo ricevessero, ma essi partirebbero nel punto stesso, protestando contro la manifesta infrazione del diritto delle genti. Alla fine Federigo per mezzo del Conte Enrico Dessau accetta la tregua il 6 luglio 1177. Allora mandato a prendere a Chiozza dal Senato veneziano, fu dal Doge Sebastiano Ziani condotto a grande onoranza sopra la piazza di San Marco, dove incontrato il Pontefice, secondo quello che narrano gli antichi cronisti, toltasi la porpora imperiale dalle spalle la stese per terra, e quindi prostratosi si curvò in atto di baciare il piede al Papa Alessandro, che ponendoglielo in vece sul collo esclamò: Super aspidem et basiliscum ambulavi etc. Alle quali parole Federigo rispose: Non tibi, sed Petro: – e il Papa di nuovo: Ego sum vicarius Petri. Questa istoria, comunque si veda tuttora con bellissime pitture effigiata su le pareti della Sala grande del Consiglio di Venezia, reputasi dai moderni storiografi una favola, senza però che ne abbiano esposto le cagioni, almeno per quanto mi riuscisse di poter ricercare. Passarono gli anni della tregua senza che accadesse azione degna di memoria; e già si avvicinava il tempo di riassumere le offese, allorchè Federigo, ormai disperato di fare buon frutto in Italia, e indotto dalle istanze del figlio Enrico VII a convertire la tregua in pace durevole, mandò al Congresso di Piacenza Guglielmo Vescovo di Asti, Enrico, Teodorico e Rodolfo, per trattare l’accordo. Questi convennero dei preliminari, e invitarono i deputati delle Repubbliche lombarde alla Dieta di Gostanza. Conservasi il libro della Pace di Gostanza su la fine del Codice dell’Imperatore Giustiniano, come monumento importantissimo, non pure per avere lungo tempo regolato i diritti delle genti in Italia, quanto per dimostrare la indole del Barbarossa. Costretto a cedere, vuol far sembianza di donare; e con orgoglio, che disdirebbe alla vittoria, concede cose, che appena si ricercano dai vinti. La prudenza dei Lombardi chiaramente si manifesta in questa occasione, imperciocchè, poco curando la petulanza dello stile ampolloso, guardarono ai loro interessi, e lasciarono ch’ei si sfogasse. Il proemio della Pace di Gostanza litteralmente volgarizzato dice: «La benigna ed infinita serenità della imperiale clemenza ebbe sempre in costume di reggere i popoli con larghezza di favore e di grazia, per modo, che sebbene debba, e possa con rigida severità punire i delitti, pure ama piuttosto governare l’Impero Romano con la propizia tranquillità della pace, e con pietosi affetti di misericordia chiamare la insolenza dei ribelli alla dovuta fede, ed all’ossequio di debita lealtà ec.» Dopo tanto pomposo cominciamento l’Imperatore cede tutte le Regalie, i contadi, i diritti acquistati per prescrizione, quelli di levare eserciti, afforzare le mura, rendere giustizia; annulla le confische dei beni, e le Infeudazioni in danno delle città; approva che sollevandosi qualche disputa tra lui e un popolo, il Vescovo decida; promette non dimorare tanto lungamente in una città da farle guasto. I Lombardi convengono di ricorrere ad un suo Vicario, o Podestà, per l’appello delle cause maggiori di venticinque lire; si obbligano a corrispondere del Fodero, del Mansionatico, e della Parata; patteggiano rinnuovare ogni dieci anni il giuramento di fedeltà.
Così, dopo il sagrifizio di oltre un milione di uomini in sette diverse imprese, finivano i disegni ambiziosi di Federigo in Italia. Ma quel suo spirito non poteva durare in riposo: nulla curando gli anni, ormai divenuti molti, nulla i disagi e i pericoli, appena giunse novella in Occidente che Saladino aveva preso Gerusalemme, tolta la croce, con novantamila combattenti traversò l’Ungheria, la Bulgaria, la Grecia, e giunto in Soria, mentre intende a conquistare le terre soggette al Saladino, bagnandosi nel fiume Salef ossivvero Cidno, dove anche Alessandro stette per perder la vita, miseramente annegava. Altri scrisse, che fu fatto annegare: ma la prova del delitto sta in mano di colui che può sempre punirlo. Questa è la Crociata, ch’espugnò Tolemaide, nella quale intervennero Filippo il Bornio Re di Francia, e Riccardo Plantageneto Re d’Inghilterra, insieme a moltissimi Baroni di tutta Cristianità, ed esposta con tanta sapienza di storia dal chiarissimo Gualtiero Scoti.