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CAPITOLO SETTIMO. LA CASA DI SVEVIA
ОглавлениеPonga il cor di Blacasso alle sue labbia
L’Imperator di Roma Federigo,
Finchè conquisi n’abbia
I Milanesi, che per ogni parte
Assedio posto gli hanno,
E vive senza suo retaggio, e i suoi
Tedeschi dentro al cor sentono affanno.
Serventese del Trovatore Sordella in morte di Ser Blacasso.
Sono l’uracano, il fulmine, e il terremoto, terribilissimi segni dello sdegno di Dio; ma più del terremoto, del fulmine, e dell’uracano, flagella terribile la umanità un Re scellerato. Qualora l’eterno Moderatore non lo condannasse a brevissima vita, parrebbe non voler tenere più il patto che strinse con Noè, quando promise, d’ora in avanti non avrebbe più distrutta la terra, perchè la schiatta umana cresce nella perfidia, e il pensiero della sua fanciullezza è vôlto al male.
Ma se la vita è breve, la infamia dura lunga: e noi nepoti contenderemo la memoria dei potenti colpevoli alla dimenticanza; e scenderemo nei sepolcri, e ne turberemo le ceneri. La corona che cinge quei teschii schifosi è un insulto per loro, uno scherno per noi. La spada logorata dagli anni giace al fianco di quelli senza taglio, e senza punta: – quel braccio tanto terribile non può più percuoterci… il verme lo ha vinto! e noi strappiamo impunemente ai tempi, e alla terra, quei nomi: e gli nudriamo di obbrobrio, e li tramandiamo agli anni futuri. Allorchè la mia voce sarà dimenticata, sorga una mente più calda, che ravvivi col disprezzo questa memoria di delitto; e possa il secolo che trascorre consegnarla al secolo che giunge, come un deposito che lo amico affida all’amico, onde la disperazione arda lenta lenta, a goccie infuocate, lo spirito del malvagio; e conosca, la morte essergli stata battesimo di maladizione per la vita interminabile dell’anima.
Se in alcuno dei nostri lettori si fosse suscitato un pensiero di amore per Enrico VII, che poc’anzi abbiamo veduto sollecitare il padre alla pace, sappia, queste considerazioni essere state fatte per lui. Nessuno sia così stolto da credere che un atto gentile derivi necessariamente da animo gentile. La più parte di noi pratica la virtù, perchè non fa frutto con la colpa, e commette la colpa, perchè non gli giova la virtù: nè lo spirito per questo si cambia in nulla, ch’egli rimane pur sempre tristo, o maligno, come la natura, o la educazione, ce lo ha dato. Se Enrico VII amò la pace, fu perchè il padre gli aveva promesso farselo compagno del potere, nè questo sperava conseguire, dove non avesse fine la guerra. Federigo considerando che non avrebbe mai ottenuto con le armi un dominio in Italia, tentò acquistarlo per via di pratiche, e fece tenere proposito a Guglielmo II di Napoli, santissimo Re, detto il Buono, se volesse concedere la sua zia Gostanza, figlia postuma del Re Rogiero, ad Enrico suo figlio. Guglielmo non avendo prole consente al trattato. Nel 1184 è fama che seguissero in Milano questi sponsali, sedendo su la cattedra di San Pietro Urbano III. ed è pur fama, che Enrico oltre i diritti sul Regno di Napoli ricevesse in dote centocinquanta somari carichi d’oro, di vasellame di argento, vesti, sciamiti, grisi (forse vaj), ed altre preziose masserizie. Di lì a qualche anno morto Guglielmo il Buono, sebbene il Regno cadesse a Gostanza, i Siciliani, comportando gravemente la straniera dominazione, chiamarono Re Tancredi, Conte di Lecce, e Principe di Taranto, figlio illegittimo di Rogiero Duca di Puglia. Enrico VII disposto a volere ricuperare i suoi diritti implora il soccorso dei Pisani e dei Genovesi, promettendo loro amplissimi privilegii, si avanza dal lato di Cepperano, ed occupa tutta Terra di Lavoro fino a Napoli, il quale tien fermo per Tancredi. Una terribile epidemia distrugge l’esercito tedesco, che, costretto ad abbandonare il Regno, fugge a Genova. Riccardo Conte di Acerra ricupera Terra di Lavoro. La Imperatrice Gostanza, che posando su la fede dei Salernitani soprastava a Salerno, è dai cittadini consegnata a Tancredi. Questi, come uomo di cuore magnanimo, la rimanda ad Enrico senza riscatto; della quale cortesia come fosse in séguito ricompensato, vedremo tra poco. Rogiero primogenito di Tancredi, sua consolazione e conforto, dopo avere condotto a moglie Irene, figlia d’Isacco Angelo Imperatore di Costantinopoli, moriva. Tancredi soprappreso di acerbissima doglia lo seguitava nel sepolcro, lasciando Sibilia moglie, Guglielmo, Albinia e Mandonia, figli suoi. Enrico VII, saputa la morte del valoroso Principe, cammina celerissimo contro il Regno, e per questa volta gli viene fatto di conquistarlo. La Regina Sibilia ripara co’ figli nel castello di Calatabellota, in que’ tempi stimato insuperabile. Enrico le fa proporre di uscire, e nella Contea di Lecce, prima signoria del suo marito, restituirla. Accetta la sventurata: di lì a poco, ecco come Enrico adempiva i patti promessi: Guglielmo fece abbacinare, e privare dei genitali, sì che presto se ne moriva; Sibilia, Albina e Mandonia, mandò in carcere nei Grigioni. Ora si manifesta il suo feroce talento: fatti prendere tutti coloro che avevano parteggiato per Tancredi, ordinò che sul capo loro si ponessero corone di ferro infuocate, e con chiodi roventi vi si conficcassero. Riccardo Conte di Acerra, caduto in suo potere, fu strascinato a coda di cavallo, poi appiccato pei piedi; nè mai, finchè visse quel crudele, consentì che si rimovesse dallo infame patibolo. Margarito Grande Ammiraglio ebbe gli occhi divelti, i genitali recisi. I Genovesi e i Pisani non solo delle cose promesse non soddisfece, ma ben anche della buona fede loro schernì. Poi, come se infierire contro i vivi fosse poco, volse il suo furore contro i morti. Fatti disseppellire i cadaveri di Tancredi e di Rogiero, strappò loro con rabbia la corona reale dal capo. Le sue crudeltà e rapine di tanto si aumentarono, che il Papa gli spedì un Legato per farle cessare; egli poi non pure non le cessò, ma anzi le accrebbe, e, con infinito dolore dei Palermitani, tutti i tesori dei defunti Re, i vasi di oro e di argento, le tavole, le lettiere dello stesso metallo, i panni tessuti di seta, di porpora e di oro, con infinite altre preziosità mandò in Germania. In questo lo arrivava la mano della morte: fatto odioso ai sudditi, ed alla sua stessa moglie Gostanza, si narra, che, per veleno da lei medesima propinatogli, morisse in Messina il 28 settembre 1197. Rimasta Gostanza assoluta Regina, inviava deputati al Pontefice, affinchè consentisse che il cadavere dell’Imperatore si sotterrasse in sacrato, e la investitura del Regno al suo figliuolo Federigo concedesse. Rispose Celestino, la sepoltura in sacrato ad Enrico non concederebbe, se prima non si ristorasse Riccardo Plantageneto del danaro estorto, allorchè ramingo pei suoi dominii lo aveva tanto vilmente imprigionato: la investitura a Federigo non ricuserebbe, dove pagasse mille marchi di argento ai Cardinali. Volendo Gostanza adempire la prima condizione, e riputando che sarebbe stato un fare ingiuria alla memoria del defunto marito restituire direttamente il danaro a Riccardo, come cosa rubata, si avvisò, che col dare all’Abbate Cistercense trecento marchi di argento, l’affare sarebbe composto; ma l’Abbate ricusò, dicendo, non potere offrire su l’altare di Cristo altre oblazioni che quelle monde di ogni nequizia umana. Finalmente si trovò modo di far seppellire Enrico dentro un’arca di porfido nel Duomo di Palermo, dove attualmente aspetta il giudizio di Dio. Per la seconda condizione tutto fu in breve accomodato, e Federigo ricevè la investitura del Regno. Così ridotte in buono stato le cose, moriva Gostanza il 25 novembre 1198 lasciando con poco retto consiglio Innocenzio III, creato Pontefice in quell›anno medesimo, tutore del figlio Federigo, e assegnandogli, perchè non ricusasse, l›annuale pensione di trentamila tarì.
Noi non istaremo a narrare come adoperasse Innocenzio la sua qualità di padre del pupillo Federigo, per togliergli gran parte dei feudi donati da Enrico VII ai suoi cavalieri, protestando esser parte delle donazioni di Carlomagno, e della Contessa Matelda: non come dopo una rotta di Marcovaldo tedesco, che pretendeva sottomettere la Sicilia, supponesse un testamento di Enrico VII, nel quale, tra le altre disposizioni, si ordinava al figlio Federigo riconoscesse il Reame della Chiesa, ed alla Chiesa, lui morto senza figli, ricadesse; non come, incapace a difendere il Regno dai Tedeschi, chiamasse con poca prudenza Gualtieri di Brienna, marito di Albinia, figlia di Tancredi liberata dalla prigione di Enrico, il quale avrebbe certamente spogliato del Regno il giovanetto Federigo, se per irrimediabile piaga, ricevuta in un fatto d’arme sotto Samo contro il Conte Diopoldo, non avesse perduto la vita; nè pure narreremo come Filippo, zio di Federigo, invece di sostenere le parti del nipote in Germania, se ne facesse incoronare Imperatore a Magonza, mentre un altro partito coronava Ottone, Duca di Aquitania, in Aquisgrana; non come Filippo, aiutato da Filippo Re di Francia, fugasse Ottone da Colonia, sovvenuto da Riccardo Re d›Inghilterra, e come indi a poco assassinato dal Signore di Witellaspach, al quale tradiva la promessa di dargli in moglie sua figlia, lasciasse Ottone pacifico possessore dell›Impero: solo racconteremo, che il Papa, di cui continuo disegno era impedire la riunione del Regno di Napoli agli Stati degl›Imperatori Germanici, consentì, in danno di Federigo, col trattato di Spira, coronare Ottone in Roma. Scendeva questi per la valle di Trento in Italia, assumeva la corona reale a Milano, la imperiale a Roma; ma giunto al sommo della sua dignità, scoprendosi avverso al Pontefice, negò cedere il patrimonio della Contessa Matelda, e si volse alla conquista della Sicilia. Innocenzio, non avendo armi, adoperò le scomuniche; e tanto erano tali mezzi potenti a quei tempi, che gli Arcivescovi di Magonza, di Treveri e Turingia, il Re di Boemia, il Duca di Baviera, con molti altri Baroni dell›Impero, di súbito ribellatisi, strinsero lega con Filippo Augusto contro Ottone, e riuniti a Bamberga lo dichiararono decaduto dall›Impero, e Federigo in suo luogo surrogarono. Ottone, abbandonato ogni disegno in Italia, torna velocissimo in Lamagna. Veramente Innocenzio non avrebbe voluto che Federigo si mescolasse nelle cose dell›Impero, ma adesso non gli si presentava persona migliore per opporla ad Ottone, e nelle cose di questo mondo bene spesso non si fa come si vuole, ma come si può: certo è poi che questo fu caso unico di vedere i Ghibellini prendere le parti della Chiesa, e muoverle contro i Guelfi.
Intanto Federigo lasciato Napoli si porta a Genova, poi ad Aquisgrana, dove Re dei Romani lo confermarono. In questa, Ottone muovendo contro Filippo Augusto di Francia pervenne al ponte di Bouvine, tra Lilla e Tournay, dove il 27 luglio 1214 toccò la memorabile rotta, per la quale disperando di più risorgere si ritirò al castello di Harburgo a piangere le sue colpe, e logorare tra le penitenze la vita. Innocenzio percosso da gravissima malattia si moriva: fu egli uomo di molta dottrina, delle cose legali intendentissimo profondo, cupido di regno. Il suo Pontificato va famoso pel fondamento che dette alla Inquisizione; imperciocchè sebbene il Tribunale del Santo Officio, propriamente detto, cominci sotto Innocenzio IV, pure fu Innocenzio III, che commise a San Domenico di Guzmano predicasse contro gli Albigesi, e con ogni sforzo s›ingegnasse a distruggerli.
Erano gli Albigesi una setta di Manichei fuggiti dall›Asia per le persecuzioni degl›Imperatori Greci, e ricovrati in Linguadoca presso il Conte Raimondo di Tolosa: si chiamarono anche con diversa denominazione Paterini, da Puti (soffrire), per distinguersi dai Martiri della Chiesa cattolica. Consisteva la eresia loro nel credere la esistenza di due principii, l’uno buono, l’altro tristo. Attribuivano al primo il Testamento Nuovo, al secondo il Vecchio: negavano la discesa corporale del Salvatore su la terra; credevano gli uomini angioli decaduti, che dovevano tornare un giorno alla gloria antica; rigettavano le indulgenze, il purgatorio, e i miracoli, non meno che la transustanzazione , il culto della Vergine, la dannazione dei fanciulli morti senza battesimo. San Domenico, per consiglio del Pontefice, recatosi nella Gallia Narbonese, suscitò contro essi una Crociata, concedendo quelle medesime indulgenze, che solevano darsi a coloro i quali passavano a combattere in Terra Santa.
Ora San Domenico, sovvenuto dal Conte Simone da Monforte, scorre i contadi di Tolosa, Albi, Carcassona ed incendia Beziers; finalmente, seguendo il suo cammino, cade in potere degli Albigesi, i quali gli domandano se tema la morte: «Io temere la morte!» rispondeva il Santo «io temere la morte per la fede, per la gloria di Cristo, e della Santa Chiesa romana? Non mi uccidete a un tratto, vi prego, ma a poco a poco mutilate ciascheduno dei miei membri, e mostrateli ai miei occhi; poi strappate anche questi, e lasciate così il mio corpo, in mille parti piagato, rotolarsi dentro il suo sangue, finchè giunga il punto della morte.» Gli Albigesi lo lasciarono in libertà.
Innocenzio non potè mai ottenere da Federigo, che decretasse la pena di morte contro questi, ed altri eretici, siccome Arnaldisti, Gazari etc. – Onorio III suo successore valse però ad ottenerla, come si rileva dalla costituzione Hac edictali conservata nel Codice Giustinianeo. A noi duole non potere più a lungo seguitare la storia degli Albigesi, chè il nostro soggetto ci preme; onde null’altro possiamo fare di meglio che rimandare il lettore all’opera che l’irlandese Mathurin con tanta forza d’immaginazione ha composto intorno le loro vicende.
Onorio III, conformandosi in tutto alla politica d’Innocenzio, esitava a concedere la corona Imperiale a Federigo; nondimeno costretto poneva per condizioni, che il Regno delle Sicilie al suo figliuolo Enrico cedesse, la Contea di Fondi alla Chiesa restituisse, egli a militare in Palestina trapassasse. Federigo prometteva tutto, perchè a promettere non iscapitava nulla; ma ricevuta la corona imperiale, se ne andò in Puglia: dove, vinti i Conti di Aquila, di Caserta, Tricarico, e Sanseverino, acquietò il Regno, vi promosse le arti e le lettere, instituì Università; e molte altre cose così per la pace, come per la guerra lodevoli, condusse a buon fine. Il Papa, che non voleva venire ad un’aperta rottura con Federigo, e d’altronde lo temeva vicino, si avvisò, per mandarlo in Palestina, di dargli in isposa Yole figlia di Giovanni di Brienna erede del Regno di Gerusalemme. Lo Imperatore, che poco tempo innanzi aveva perduta la prima moglie Gostanza di Arragona, tolse ben volentieri Yole, che fanciulla leggiadrissima era; ed apprestata una flotta s’incamminò col Langravio di Turingia alla conquista di Gerusalemme l’otto settembre 1227. – Qualunque però ne fosse la causa, di lì a pochi giorni vôlte le prue, tornasi in Calabria, prorogando la impresa all’anno venturo.
Era morto il prudente Onorio, ed in suo luogo sedeva Gregorio IX dei Conti di Signa, siccome Innocenzio III, il quale forte sdegnato del ritorno di Federigo, senza nè pure citarlo, lo scomunicò nel settembre di quell’anno medesimo 1227. Federigo per niente sbigottito appella da questa sentenza al Concilio, ordina continuarsi nei suoi Stati gli uffici divini, lascia al governo del Regno il suo suocero Giovanni di Brienna, e si reca a Tolemaide. Quinci mandava Legati al Papa, affinchè si placasse; questi rispose, instigando il Brienna a ribellargli il Regno. Federigo, fatta pace col Soldano, torna in Italia, vince il Brienna e il suo esercito, distinto col nome di chiavesignato da quello di Federigo, che si chiamava crocesignato. Il Papa è costretto a ricomunicarlo.
Le città lombarde erano già decadute da quelle virtù, che le avevano unite nella gloriosa Lega contro il Barbarossa. Cominciarono le contese cittadine tra nobili e popolo, aprendo così la via al primo ambizioso che volle dominarlo. Già fino d’ora molti cittadini reggevano la patria loro a modo tirannico, siccome i Signori da Romano, da Cammino, da Este, da Doara, e Pelavicino: in breve la stessa Milano vedremo cadere sotto il dominio dei Signori della Torre. Imprevidenti però del pericolo vicino, temevano il lontano, onde i deputati di Bologna, Piacenza, Milano, e di altre ragguardevoli città, si ragunarono nella chiesa di Santo Zenone di Mosio su quel di Mantova, e quivi stabilirono la seconda Lega Lombarda per quindici anni. Intanto Enrico, sollecitato, secondo che porge la fama, dal Papa, e dai Lombardi, si ribellava a suo padre. Come questa vicenda avesse fine vedemmo al Capitolo quinto. Ormai Federigo, non potendo più comportare il manifesto disprezzo che i Milanesi facevano della sua autorità, dichiarò loro la guerra. La minuta descrizione delle cose particolari di questa impresa vorrebbe altra estensione di quella propostami nel presente Capitolo: narrerò i fatti principali soltanto, e da prima la battaglia di Cortenuova, nella quale ebbero i Milanesi dolorosa sconfitta. Tornava nell’agosto 1237 Federigo di Lamagna, conducendo seco duemila cavalieri tedeschi: giunto che fu a Verona, occorse in diecimila Saraceni, ed aggiuntili al suo esercito entrò sul contado di Brescia. I Milanesi con la gente della Lega si posero subito in cammino, e andarono ad incontrarlo sull’Oglio. Bellissima era la situazione presa, per modo che Federigo, non volendo assaltarli con tanto suo manifesto svantaggio, s’ingegnò di trarneli fuori, valicando il fiume a Montecorvo, e spargendo la fama di andarsene a svernare a Cremona. Rimasero all’inganno gli avversarii, che stimando poterlo leggermente danneggiare per quella confusione che mena sempre seco la ritirata, si dettero ad inseguirlo. Pervenuti a Cortenuova, invece di fuggente, trovarono lo esercito imperiale schierato in ordine di battaglia: di tornare indietro non era più tempo; e’ fu mestieri combattere. Ma disordinati, siccome avviene a cui insegue troppo fidente della vittoria, e stanchi dal travaglioso cammino, furono abbattuti, e dispersi. Solo la compagnia della morte tenne fermo all’urto della cavalleria tedesca, e con valore inudito resse fino a notte, difendendo il Carroccio, nè si ritrasse prima di averlo spogliato di ogni suo ornamento. Più del giorno fu sanguinosa la notte, imperciocchè i fuggiaschi non potendo salvarsi pel contado cremasco rimontarono l’Oglio, e si dispersero per quello di Bergamo molti rifiniti dal disagio caddero morti per via; molti per quei sentieri paludosi, o tentando tragettare il fiume, si sommersero; moltissimi dai Bergamaschi sollevati contro di loro furono uccisi. Tra per la battaglia, tra per la fuga, meglio di cinquemila uomini perirono; sarebbero morti tutti, se Pagano della Torre Signore di Valsassina non gli avesse raccolti, e questo fu il principio dei Della Torre in Milano. Pietro Tiepolo, figlio del Doge di Venezia, Podestà, imprigionato da Federigo, è da lui indegnamente fatto decapitare in Puglia, su la torre di Trani posta lungo la riva del mare, affinchè la flotta veneziana, che per quelle spiaggie veleggiava, lo potesse vedere. Seguiva l’assedio di Brescia, nel quale si rinnuovarono tutte le barbarie adoperate dal Barbarossa nello assedio di Crema: ma Federigo non potè superarla, e gli convenne ritirarsi a Cremona senza avere nulla acquistato. I Veneziani, tutti sdegnosi della morte del Tiepolo, presero parte alla Lega; il Papa Gregorio non solo si univa contro Federigo, ma ben anche lo scomunicava. Allora non si conobbe più freno: intese l’Imperatore a sollevare gli Stati del Papa; il Papa, a sollevare quelli dell’Imperatore. Federigo però più potente in armi, meglio istruito nell’arte di lusingare le passioni, superati gli ostacoli, va a Roma. I Romani gli si dimostrano favorevoli, il Pontefice parve ormai disperato. Mentr’egli tutto dolente stava ad aspettare gli ultimi danni, gli sorge in mente un pensiero, donde nacque la sua salvezza: si volge al Vaticano, toglie le teste di San Pietro e di San Paolo; le porta in processione per tutta la città, rimettendo a quei Santi la cura di difenderla: se ne commossero i Romani; di nemici che gli erano, si convertirono subito in caldi difensori, e presa la croce, si dettero a combattere Federigo; il quale sebbene facesse tra crudelissimi tormenti morire quanti crocesignati gli capitavano in mano, pure non potè superare Roma, e sdegnoso e avvilito si ridusse nei suoi dominii di Puglia.
Gregorio Papa, rimesso della presente paura, volgeva la mente a cose maggiori; convoca per l’anno seguente un Concilio a San Giovanni Laterano, e manda lettere circolari a tutti i Vescovi della Cristianità, affinchè intervenissero. Federigo adesso temendo che il suo credito non diminuisse in Lombardia, vi torna con buono esercito, e dopo di avere ad avventuroso fine condotte alcune imprese, assedia Faenza. Qui fu che mancatigli i danari mise in corso monete di cuoio, le quali in séguito, con raro esempio di fede, riscosse pel prezzo di un agostaro l’una, senza apportare il minimo scapito ai possessori. Guglielmo Ubbriachi Ammiraglio dei Genovesi imbarcava i prelati francesi riunitisi in Nizza all’oggetto di portarsi al Concilio. Federigo manda tosto il figlio Enzo o Giovanni colla flotta siciliana per collegarsi a quella dei Pisani, capitanata da Ugolino Buzzaccherini dei Sismondi, e muoversi contro la genovese. S’incontravano il 3 maggio 1241 le due armate nemiche tra il Giglio e la Meloria, e ne seguiva una fiera battaglia, nella quale i Genovesi furono disfatti, ed ebbero diciannove galere prese, e tre cacciate a fondo. I prelati si mandarono nelle prigioni di Puglia, dove si racconta che fossero legati con catene di argento. Ricchissima raccolsero la preda: la fama riporta che i Pisani e i Siciliani si dividessero a moggia il danaro. Come se poi questa ingiuria fosse poca, tanto si adoperò Federigo, che fece ribellare alla Chiesa Giovanni Colonna Cardinale di Santa Prassede, il quale condusse seco nella rivolta i castelli di Colonna, Lagosta, Palestina, Monticello, e più altri. Gregorio IX profondamente angustiato nell’animo, non potendo più comportare tanto acerbo dolore, moriva. Ora non è da dirsi a qual punto si sollevasse la superbia dello Imperatore. Il collegio dei Cardinali di sei soli individui si componeva. Celestino IV nominato Pontefice visse diciotto giorni: dopo lui la Chiesa stette per ben due anni vacante. Insoffribili erano ed obbrobriose le minacce e le villanie, che adoperava Federigo contro il consesso dei Porporati. Odasi un po’ con quali parole gli salutasse: «A voi figli di Belial, a voi figli di Efrem, a voi gregge di perdizione indirizzo la parola, a voi colpevoli di ogni umano sconvolgimento, pietra di scandalo di tutto l’Universo.» Nè andò molto, che lo percosse il gastigo: nel 24 giugno del 1243 fu eletto Papa Sinibaldo del Fiesco, Cardinale di San Lorenzo in Lucina, col nome d’Innocenzio IV. Appena Federigo lo seppe, che vôlto ai suoi cortigiani disse loro: «Di questa elezione noi abbiamo disavanzato assai, imperciocchè costui, che ci fu amico Cardinale, ci sarà nemico Pontefice.» Volendo però se fosse stato possibile nell’antica amicizia continuare, mandò suoi Legati ad Innocenzio per proporgli il matrimonio di una sua nipote con Corrado figlio dello Imperatore, purchè dal proteggere i Lombardi desistesse, ed il Legato che contro di lui predicava la Crociata richiamasse. Si condussero queste pratiche, ora più, ora meno lentamente, fino al 1244, nel qual anno, quando sembrava che fossero vicini a concludere, Innocenzio, avvertito che i Frangipani trattavano di rendere a Federigo le fortezze che tenevano al Colosseo, si traveste da soldato, fugge da Roma, s’imbarca a Sutri, e ripara in Genova sua patria. Se Federigo congiurava contro il Papa, questi dal canto suo non se ne stava. Dicesi, che fosse scoperta in quell’anno stesso una cospirazione ordita dai Frati Minori contro la vita dello Imperatore, e che la più parte di loro ne avessero le mani tagliate, e la testa recisa.
Il Papa, disposto di procedere affatto nemico contro di Federigo, convoca un Concilio a Lione per la festa di San Giovanni. Nel 28 giugno del 1245 ne fu tenuta la prima sessione nel Convento di San Giusto, assistendovi centoquaranta Vescovi. Cominciò Innocenzio esponendo i mali della Chiesa; la Russia, la Polonia, e parte della Ungheria, dai Tartari devastate; Gerusalemme presa dai Carismieni. Costantinopoli dai Vataci minacciata: tutti questi mali attribuisce a Federigo; di spergiuro, di empietà, e di eresia lo accusa. Taddeo da Suessa Legato imperiale, vedendo il Cancelliere Piero delle Vigne non levarsi a difendere il suo signore, sorge arditamente, scusa Federigo, e lo dimostra prontissimo a combattere contro gl’Infedeli. Innocenzio chiede sicurtà; Taddeo nomina i Re di Francia, e d’Inghilterra; il Papa gli ricusa. Nella seconda sessione Taddeo con apprestata orazione difende Federigo; qualifica per parte del suo signore, menzognero il Vescovo di Catania, che ripeteva le accuse del Pontefice, ed annunzia che lo Imperatore sta per comparire di per sè stesso al Concilio. Il Papa vuol pronunziare la sentenza; gli Ambasciatori inglese e francese lo costringono a concedere le proroghe per dodici giorni. Taddeo, tentati gli animi dei Cardinali, e trovatili tutti prevenuti in favore d’Innocenzio, avvisa Federigo, che si era avanzato fino a Torino, che non si affatichi di andare più oltre; essere la causa sua oggimai terminata. Sorgeva il giorno 17 di luglio, e col giorno si apriva la terza sessione. Si presentava Taddeo protestando incompleto il numero dei Vescovi, e perciò, dove fosse pronunziata sentenza, fino di allora frapponeva appello a più completo Concilio. Ciò nondimeno ributtate Innocenzio le proteste, pronunzia la sentenza contro Federigo come misleale vassallo della Chiesa, violatore dei patti giurati, sacrilego, eretico, e finalmente, secondo lo usato costume, chiudeva così: «Noi dunque che sebbene indegni teniamo luogo del nostro Signore Gesù Cristo; Noi, cui furono volte le parole di San Pietro Apostolo, tutto quello che avrete legato su la terra sarà legato in cielo; Noi, co’ Cardinali nostri fratelli, e il sacro Sinodo, deliberammo, essersi questo Principe reso indegno dello Impero, degli onori, e delle dignità. Dio pei suoi misfatti lo respinge, nè soffre ch’ei sia più Imperatore. Noi manifestiamo alla gente, siccome è legato dai suoi peccati, respinto da Dio, privato dal Signore di ogni dignità, e di queste cose anche con la presente sentenza lo priviamo; quelli che gli sono tenuti per giuramento sciogliamo; anzi per nostra autorità di più oltre obbedirgli vietiamo, non pure come ad Imperatore, ma benanche in qualunque modo pretendesse obbedienza, e lo anatema nostro fino di adesso decretiamo contro loro, che in qualunque modo, e sotto qualunque pretesto, lo sovvenissero ec.»
Pronunziata la sentenza, i Cardinali rovesciarono le candele, che tenevano accese, in atto di esecrazione; Taddeo da Suessa fuggì dal Concilio, percuotendosi il petto, ed esclamando «Giorno d’ira è questo! giorno di sventura e di sangue!» Giunge le novella a Federigo, che furiosamente levatosi in piè grida: «Chi è questo Papa che mi ha ributtato dal suo Sinodo? Chi è colui, che vuole toccar la mia corona su la mia testa? Chi è colui che lo può? Dove sono i miei gioielli? Presto, recatemi i miei gioielli.» Glieli recavano: aperta una cassetta, dove teneva diverse corone, ne tolse una, e se la pose in capo dicendo: «Oh! ella non è per anche perduta; nè Papa, nè Sinodo, me l’hanno tolta, nè me la torranno senza che sangue ne costi.»
Dopo questa sentenza Federigo non ebbe più un’ora di bene. Innocenzio spedì lettere circolari per ribellargli la Sicilia; tentò farlo morire per opera di congiura ordita dai figli del Gran Giustiziere Mora, dai San Severino, e dai Fasanella: andato a vuoto il tentativo, non cessò dalle insidie, anzi viepiù accendendosi in quelle istigò Piero delle Vigne, rimasto trascurato in corte dopo il Concilio, a ministrargli il veleno. Giaceva Federigo leggermente ammalato, allorchè Piero si dispose all’opera di perfidia: fattosi alla camera dove era l’Imperatore, lo confortò a bere certo liquore composto da un suo medico, e gli affermava che ne sarebbe tosto guarito. Federigo di tutto già consapevole assentiva; giunto che vide il medico, si volse a Piero e gli disse: «Piero, è questa la bevanda che l’amico porge allo amico ammalato?» Poi con aspetto feroce ordinava al medico gli desse la tazza; questi pauroso della vita finge sdrucciolare, cade, e la rovescia per terra: poco gli giovava il consiglio; lo sparso liquore fu verificato per veleno, ond’egli n’ebbe la testa mozza. Piero poi, privato degli occhi, e rinchiuso dentro un monastero, dà del capo nel muro, e miseramente finisce i suoi giorni.
Federigo, considerando sollevarglisi attorno tanti odii, timoroso di sè, chiedeva pace. San Luigi e la Regina Bianca intercedevano. Innocenzio per questa volta non ricusò; ma per condizioni di pace ordinava, che lo Impero di Germania concedesse a Corrado, il Regno di Napoli ad Enrico, entrambi suoi figli; ed egli si recasse a Gerusalemme. Mentre che questi accordi si trattavano, giunse la novella in corte della ribellione di Parma. Federigo, messa ogni altra cura da parte, intese con tutto l’animo a ricuperarla. Ell’era città importantissima per lui, perchè apriva comunicazione con Verona, Germania, e gli Stati di Ezzelino da Romano, potente capo dei Ghibellini in Lombardia. Accorso con ogni suo sforzo, la cinge di soldati, ordina guardarsi diligentemente le vie onde nessuna cosa potesse entrare, od uscire; poi innalzato un ceppo sopra un monticello poco distante dalla città, quivi ordina che giornalmente a vista degli assediati recidansi le teste di quattro cittadini parmigiani.
Sebbene tessendo la storia dei figli di Eva, veniamo necessariamente, e con infinito nostro dolore, a raccontare una serie di delitti, a Dio non piaccia, che per noi sieno celate le poche azioni che possono ridondare in onore di quelli. I Pavesi, che noi vedemmo costanti, ostinati odiatori dei Guelfi, non sostennero tanto scempio, e notificarono allo Imperatore che cessasse, altramente si partirebbero, imperciocchè essi erano venuti a fare da soldati, non già da carnefici.
L’Imperatore, quasi per anticipare quello che aveva in mente eseguire, ordinò si fabbricasse una città, alla quale pose nome Vittoria, per trasportarvi, quando che fosse, la gente di Parma espugnata, ed intanto disegnava di prendervi i quartieri da inverno. Correva il giorno diciottesimo di febbraio 1248, allorchè i Parmigiani, avendo saputo che Federigo si era allontanato con assai gente per cacciare col falcone, si disposero tentare disperata sortita. Non fu per questa volta la fortuna contraria ai generosi. Gl’Imperiali, assaltati allo improvviso, dopo leggera resistenza si danno alla fuga; ne segue strage infinita. Taddeo da Suessa, e il Marchese Lancia, caddero morti sul campo, tentando ritenere i fuggitivi: inestimabile tesoro venne in potere dei vinciiori, e la stessa corona imperiale. Federigo ritornava adesso tutto umile ad implorare la pace con Innocenzio, offrendo passare in Terra Santa; non si ascoltava. Allora vide quello che doveva considerare innanzi, cioè, che fino a tanto che ei fosse stato perdente, il Papa non si sarebbe piegato a meno severi consigli. Si volse dunque in Toscana, ed inasprito pei recenti disastri, ne uscì tutto sanguinoso di nefandi omicidii. Superato il castello di Capraia, dov’erano riparati gran parte di Guelfi, tutti fece annegare: al solo Zingane Buondelmonti per odioso privilegio (e stimò fargli favore) ordinò che si strappassero gli occhi, e si gittasse nelle prigioni di Puglia. Ma quasi che di ogni misfatto dovesse immediatamente pagare la pena, poco tempo dopo, il suo figlio Enzo combattendo a Fossalta contro i Bolognesi fu vinto e fatto prigioniero; nè mai in séguito per prego, o per minaccia, dal Comune di Bologna lasciato partire, e realmente trattato, visse ventidue anni in quella città. Federigo, tentato nuovo motivo per la pace, e nuovamente respinto, se ne andò in Puglia a macchinare nuove imprese, ed a prepararvisi, allorchè la morte lo giunse a Ferentino il 13 decembre 1230. Innocenzio così annunziava al mondo la sua morte: «Si rallegrino i cieli, esulti la terra, che il fulmine, di cui Dio da gran tempo ci minacciava, si è convertito con la morte di un uomo in freschi zeffiri, ed in limpide rugiade.»