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CAPITOLO I.
ОглавлениеIL CASTEL DI VERGIOLE.
«E rimembrando delle nuove talle
Ch'ivi son delle piante di Vergiole,
Più meco l'alma dimorar non vuole,
Se la speranza del tornar gli falle.»
—— Messer Cino da Pistoia, Sonetto.
Erano gli anni 1305 allorchè un cavaliere cinto di tutt'arme, e portante sull'elmo un bruno pennoncello, al cadere dell'ultimo giorno d'aprile uscivasi di Pistoia per la porta di Ripalta, volgendo a maestro il suo focoso destriero. Le messi verdeggianti per ogn'intorno, l'aere tepido anche oltre l'usato, e una pienezza di vita che alla nuova stagione par che in ogni essere si trasfonda, sembrava rallegrassero il cavallo e il cavaliere. Non appena ebbe corso un breve tratto di strada, ch'egli accennando ad un paesetto sul primo colle a maestro, e dimandato a certuni che tenevano la stessa via, se fosse quello Vergiole;
—Messer sì—rispondevagli un montanaro—lassù entro alla valle è il castello del capitano.
E il cavaliere inchinata la testa verso di lui come a modo di gratitudine, pago di non essersi ingannato, si rimetteva a galoppo sul suo cammino. Finchè sopra un ponte assai stretto varcato l'Ombrone, cresciuto allora per lo sciogliersi delle nevi appennine, e che, senza sponde, per largo tratto si dilagava; poco stante si faceva a salire più lentamente per un viottolo tortuoso e assiepato tanto di stipe del vicin bosco, e [pg!2] d'altri arbusti, che ad ogni svolta gli paresse impedito il sentiero. Però quelle stipe rosso e bianco fiorite, miste ai bianchi-spini stellati, e agli abbraccia-bosco a fior giallo mandavano già intorno un grato odore aromatico; e stavano a compensare dell'orrido delle piante più alte, come di querci e castagni, che bruche bruche vi sorgevan per mezzo, non avendo che allora incominciato a spuntare le prime foglie. Se non che a misura ch'ei s'elevava, spingendo la vista più sopra fra i novelli divelti, e certe regolari piaggette, scorgeva agevolmente la via che restavagli a fare, divisa dai campicelli, per basse siepi di pruneti e virgulti: mentre là per quei campi si vedea qualche vigna; qualche frutto primaticcio già in fiore, come il mandorlo, il pesco e il susino; e frammisti a filari i pallidi olivi: che agitati in quell'ora da un venticello più mosso, con quelle piccole e spesse foglie bianche e verdastre, ne mostravano l'ampia chioma vagamente variabile di colore.
Quivi sorpreso al grandioso spettacolo del sole al tramonto, arrestava per poco il cavallo: e rivoltosi indietro, rimirava nel piano la città di Pistoia allor piccoletta, ma ben murata e turrita, cui le fertili e pittoriche valli dell'Ombrone e di Brana fanno magnifico anfiteatro. Poi si faceva a percorrere ansiosamente col guardo le sue pomifere coste allora fiorenti, e le vaghe circostanti colline, che, a colui che si avanzi per le nordiche terre appaiono presso che dell'ultime a offrire il prodotto delle vigne e degli oliveti: e dove nondimeno lussureggiano di tal guisa, che sembra faccian qui ogni sfoggio di lor piena vegetazione. Ammirava infine con compiacenza quell'orizzonte sì lucido, che le segna d'intorno la bella cinta de' monti a settentrione, tutti coperti di castagneti e di querci, e nell'alture appennine, di faggi e d'abeti. I quali monti da un lato, movendo dal Sasso di Cireglio, si distendono in ampia cerchia a declive verso ponente sino al Castello di Serravalle: da dove poi prolungandosi a mezzodì da Montalbano a Pietramarina, lasciano però tanto spazio da far sì che si scorga in fondo in fondo come in panorama, e spesso quasi in un gran velo diafano tutt'avvolta Firenze. Sul lato opposto dal punto più culminante dei monti del Teso, [pg!3] altri monti, altri poggi che volgono in semicerchio. E dove gli altri, intorno al bacino che la pianura pistoiese racchiude, nelle medie stagioni, investiti dai raggi del sole al tramonto, si colorano in cupo azzurro; quelli invece a greco-levante prendono una tinta sì vivace e rossastra, che quasi li diresti di granito orientale. Tutti poi per altri gioghi ricongiuntisi ai colli di Fiesole e fino a quelli dell'Apparita, stanno ora come fiorente e trionfale corona di tre città.
E un altro vago fenomeno, rimirando giù in basso, l'aveva sorpreso. In ogni pianura che la ricingano i monti, il cadere del sole offre sempre un aspetto di meraviglia: ma qui e in questa stagione, direi soprammodo incantevole per certa speciale configurazione dei luoghi. Infatti la catena dei poggi che si dilunga da settentrione a mezzodì, divide a ponente questa valle d'Ombrone da quella di Nievole: ed il sole col calarvisi dietro, manda refratti i suoi raggi quasi che paralleli attraverso alle depressioni della giogaia, e all'alte torri del castello di Serravalle; e stampa per cotal guisa sulla verde pianura, in direzione di levante, brillantissime strisce dorate, che tratto tratto mutando di luogo, producono effetti sempre nuovi e bellissimi. Per lo che ei vedeva per esse Pistoia investita come da un torrente di luce, e tinte in bel porporino le sue mura e le torri; mentre, altri lucidi solchi si distendevano su i circostanti terreni, in quel tempo la più parte palustri: e tanto splendore seguitando con l'occhio, quelle vivide strisce le scorgea prolungate sino a Firenze. E se elevandosi un poco per le dette colline, cotal fenomeno era bello in quel tempo, non è a dire quanto apparisca più incantevole adesso; potendovisi scorgere a occhio nudo, quando l'aria sia pura, irragiata la gran torre del palazzo della Signoria, e la cupola di S. Maria del Fiore: monumenti secolari i più maestosi e per arte stupendi. S'aggiungano a questi cento e cento altri de' più moderni che stan cogli antichi in così vaga armonia; e Firenze dovremo pur convenire che l'è unica forse delle città italiane che, senza tener conto dei pregi più eletti di civiltà, anche dal lato solo materiale ed artistico alletti cotanto per essere degnamente ammirata.
[pg!4] A tal vista non è a dire qual commozione si suscitasse nell'animo del cavaliere! Quando omai vedutasi venir meno la luce diurna, immerso in quella mestizia che anco al cuor d'un guerriero suole infonder quell'ora, non pensò più che a riprender via per quella piaggia, e arrivare alla meta proposta.
Sovr'un poggio dirupato e per la più parte di macigno, che oggi a grandi filoni vedresti coperto di musco, d'edera e di gramigna e intersecato d'una folta querceta, sedeva un tempo il castello del Vergiolesi. Un duplice filare di cipressi gli apriva l'adito dal fianco di ponente: una forte e prolungata muraglia lo assicurava da mezzodì posando a scaglioni fin giù nel burrone. Il rio della Tazzera che sotto gli si biforca, e ne bagna il poggio tutt'ora, lo presenta da ogni parte scosceso, e come a guisa di piccolo promontorio, sol dal lato di settentrione-ponente ricongiungendosi al monte. Non rimangono adesso che poche vestigia del fabbricato. Nondimeno da quelle può argomentarsi ove fosse situata la torre che sporgeva di lassù da una cinta merlata a vedetta della pianura. E ancor vi si scorgono i sotterranei del castello assai spaziosi: e fra la bassa querceta e fra i cerri, i mucchi delle pietre di quelle mura che circoscrissero l'estensione del fortilizio: e le cui bozze quadrate di grigia arenaria hanno servito, non sono molti anni, a inalzare il campanile della prossima chiesuola d'Arcigliano.
Era presso al castello un tempietto di pietra, che dal suo campanile a foggia di torre con gli archi aperti a semicerchio, appariva di quelli tanti che restano ancora su queste colline, fondati sino dal tempo della Contessa Matilde. Poco più in basso dal lato di levante sorgeva un palazzotto d'un solo piano; i cui pertugi sbarrati di ferro; la campana che in mezzo a un arco a sesto acuto stava sopra di esso, e lo stemma della repubblica pistoiese sopra la porta, avrebbe dato facilmente a conoscere che quella era una potesteria. Ivi infatti risedeva il potestà dei due prossimi paesetti, di Vergiole e di Gello. Vi s'accedeva per questa medesima via; l'antica mulattiera dell'alta montagna che seguitava fino a Prunetta: quindi per S. Marcello fino al varco di [pg!5] Boscolungo per Modena. Un piano inclinato, e lastricato a frequenti risalti e cordonati dava l'accesso, alquanto ripido, alla parte anteriore del castel di Vergiole. La sua torretta si vedeva spiccare in mezzo a belle selve di castagni. Aveva dinanzi un piazzale, d'onde s'entrava, varcato il ponte levatoio, nel centro della fabbrica, che era un cortiletto, capace d'accogliervi pochi fanti e cavalli.
Non appena il cavaliere giungeva sulla crina del poggio, che la scolta della torre l'aveva annunziato al fido scudiero del Castellano. Guidotto, tale era il suo nome, stava occupato a forbire le armi del nobil Signore, cui per doppio titolo dipendeva, essendo figlio del castaldo di Vergiole. Affacciatosi agli spaldi, col suo occhio di lince anche a molta distanza aveva già subito riconosciuto il cavalier De Reali, e prevenivane il capitano. Intanto il cavaliere giunto al piè del castello, trovava sulla scalinata lo scudiero che venivagli incontro; e aderendo al desiderio di lui che era sceso di sella, lo invitava a salire: mentre un palafreniere già pronto, presogli a mano il cavallo, girando a tergo gliel conduceva alle stalle.
Non erano però sfuggite all'occhio di lui che saliva due gentili donne: una delle quali provetta d'età, l'altra giovanissima e bella, che dal sinistro lato del monte dirette a quella volta, pareva che forse per l'ora assai tarda affrettassero il passo più dell'usato. Come appena il cavaliere le ravvisava, e fatte omai più vicine, ben s'accorse che con qualche sorpresa si erano soffermate e gli volgevano il guardo, cortesemente le salutò. Varcato poi il ponte levatoio, la porta del castello si chiuse dietro di lui.
Era giunta la sera. Lo scroscio del sottoposto torrente si confondeva con l'alitar fra le fronde d'un vento sommosso più dell'usato e più fresco. Le incognite intanto a prender posa dalla salita si eran soffermate su quel breve ripiano del quale il castello si circondava. A poco a poco disparivano al guardo loro che spaziavasi intorno, non che la città, i villaggi, i verdi campi e le grosse fiumane; financo il prossimo bosco di pini, d'albatri, e de' rigogliosi felceti, dove soleano recarsi a diporto, e ne venivan pur dianzi. Non mai [pg!6] il sole era caduto sì splendido fra le prossime torri di Serravalle. In quel campo del cielo ancora infiammato dal raggio estremo del gran pianeta, era tornata a brillare di sua luce soave la stella d'amore. L'affissò con desio la donzella, e traendo un lieve sospiro, si volse alla madre, le porse dolcemente il suo braccio, e a brevi passi se n'entravano nel castello.
Ma mentre ogni cosa nel silenzio della notte taceva, mentre placido era l'aspetto della natura, vegliavano, e come onde in tempesta agitavansi i pensieri per entro alla mente del Signor di Vergiole, e del novello arrivato.
Era questi il valoroso cavaliere messer Simone di Filippo Reali di Pistoia. Non appena l'uno l'altro si erano avvicendati il saluto, che il De Reali, al capitano venutogli incontro nella sala del castello di già illuminata, presentava una lettera ch'ei diceva di grande importanza.
—Da dove, o cavaliere?
—Dal comando generale delle armi.
—Che mai?—Ed apertala, e rapidamente percorsa:
—E questo financo dovevano aspettarci? Oh! voi pure, voi pure il sappiate.
E portagli la carta, il cavaliere la svolse e ad alta voce leggeva:
«Capitano Vergiolesi,
I miei fidi di Fiorenza e di Lucca mi mandano celato avviso che fra qualche giorno le milizie di queste repubbliche si raccorranno in un campo presso Fiorenza, e che ivi attendono il Duca di Calabria per venire con grosso esercito ad assediare Pistoia. Starò ancora aspettando più certe novelle: ma frattanto la città vostra è in pericolo! Venitevi senza indugio. Attende da voi anch'adesso e consiglio e soccorso
—— Il vostro Capitan degli Uberti».
—E il mio braccio e quello dei miei figliuoli lo avrà!—Così di subito il Vergiolesi; che ad un tempo afferrata la spada distesa sul tavolino, forte sdegnato ripercotevala su di [pg!7] esso. Quindi al cavaliere risolutamente accennando con mano d'assidersi presso di lui, in questi termini gli favellava.
—È omai lungo tempo, e voi pure il sapete, che i Fiorentini e i Lucchesi si collegano ai nostri danni. Ma con qual dritto e con qual giustizia chi è mai che nol vegga?
—Io mi spavento, o capitano,—soggiungeva il Reali—a pensare di qual novella vi sono stato latore. Perchè ove noi, che pochi pur siamo in faccia ad un'oste così poderosa, da altre genti potessimo almeno aspettare un sostegno, con più coraggio potremmo tentar la difesa. Abbiamo, è vero, i Pisani; abbiamo i Senesi, e gli Aretini amici di nostre parti; ed essi, si dichiararono che ci avrebber soccorso: ma più credo io di danari che d'uomini, stretti che sono di guardare i propri confini. Ora, siamo noi ben sicuri di que' di quassù? (e accennava all'Appennino) da' quali forse il più valido aiuto d'armigeri....
—Vero pur troppo!—interruppelo il capitano.—I Bolognesi erano nostri antichi alleati. E adesso, chi l'avrebbe pensato?.... Oh! messer Cino, l'amico nostro, già di costoro....
E il Reali—Nol sapete? Fino di ieri ei tornava fra noi.
—Tornato! così fuor di tempo? Gravi dunque oltre modo debbono esser gli eventi: perchè pochi giorni decorsi sapete voi quel che di là mi scrivesse?
E fattosegli più d'appresso e premendogli un braccio, con più bassa voce e lenta e repressa, diceva:
—Che da qualche tempo era un continuo apparire a Bologna di Fiorentini e Lucchesi: e rimanevan celati e segreti conciliaboli vi tenevano. Che le calunnie contro a' Bianchi avean già quasi sovvertito il pretore; e più che le parole, la gran quantità di fiorini d'oro corrompeva la moltitudine e si comprava un partito. Che già i Neri prendevan baldanza: e d'altra parte fra i Bianchi l'irritazione era giunta a tal punto, che erano per irromper le ire, non volendo più sopportare i lor dispregi e gl'insulti.
—Dio!—esclamò il Reali—che speranze abbiam dunque a nutrire dopo siffatto abbandono? In che mai dobbiam noi confidare?
[pg!8] —Nelle nostre armi e nel nostro coraggio!—proruppe il Vergiolesi.
E in così dire, levatosi risoluto, afferrava con la destra nuovamente la spada, e la sinistra orizzontalmente distesa, alquanto immobile si rimaneva. Sicchè, alto com'era della persona, fiero nel volto, e con occhi nerissimi scintillanti, ti sarebbe sembrato non altrimenti che un supremo capitano di guerra, che innanzi a' suoi prodi ha intimato la pugna.
Appresso commetteva al Reali riferisse all'Uberti, che la mattina veniente avrebbe assistito alla solenne conferma de' suoi uffici, e conferito con lui; e senza più si eran divisi.
[pg!9]