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CAPITOLO II.
ОглавлениеI BIANCHI E I NERI.
«Vedess'io questa gente d'un cor piano
Ma ella è bianca o negra.»
—— Messer Cino, Canzone.
«Pistoia pria di Neri si dimagra,
Poi Firenze rinnova genti e modi.»
—— Dante, Inferno, canto XXIV.
Quale straordinaria impressione avesse prodotto nell'animo del capitan Vergiolesi l'annunzio di guerra recatogli dal De Reali può solo immaginarlo colui che, posto mente alle turbinose vicende dell'italiane repubbliche, e fra queste alla pistoiese, dovrà convenire che mai più prepotenti non dominarono come allora gli odi e gli sdegni; le ambizioni più violente degl'individui fra di loro, fra le diverse fazioni, fra l'una e l'altra città. Per lo che all'intelligenza di queste pagine reputiamo utile d'accennare di ciò che riguarda il signor di Vergiole e il cavalier De Reali; non che del civile stato di Pistoia, e de' politici avvenimenti che si compierono prima di questo tempo.
Dicemmo già che M. Simone De Reali fu valoroso capitano di parte Bianca. Ma però non di quelli cui il proprio partito suol soverchiar la ragione, nè altro attendono che a non far ciò che imprese a fare la parte avversa, ancorchè faccia bene. Antico errore degli uomini di parte, che per sistematica [pg!10] opposizione toccando spesso gli estremi, trasser la patria in man de' settari e in rovina. Riflessivo e prudente era invece l'animo del De Reali. Infatti quattro anni innanzi, quando i suoi concittadini per le intestine discordie de' Cancellieri videro ridotta in pessimo termine la città, si adoprò egli prima a far riunire il general Consiglio del popolo, perchè a una nuova magistratura che si chiamò de' Posati fosse data autorità e balia di far leggi e statuti per la pace della repubblica. E fu pure dei primi a proporre al Consiglio che per conseguir questa pace era d'uopo che almen per tre anni si desse ai Fiorentini, già loro alleati, la protezione e tutela della città. All'interne discordie forse un terzo che si fosse intromesso, più poi un'estranea autorità come quella, credè che più facilmente avrebbe conciliato le parti. Infine la sua mite indole e generosa non d'altro studiavasi che di rendere alla terra natale la perduta tranquillità e la sua floridezza.
Non così moderato era l'animo del Vergiolesi. Troppe condizioni poneva innanzi per ottener questa pace. E sì che egli pur la bramava: non però mai col piegarsi a siffatta tutela. Per lui era questo un troppo umiliar la città.
Nè poco ostacolo gli facevano a ciò i principii ereditati da' suoi maggiori. Non che di magnatizia prosapia, si diceva uscito dalla famiglia romana Vergilia, dalla quale, emigrata con molte altre in Etruria, vuolsi che il villaggio che la accoglieva prendesse nome Vergiole. Contava poi fra' suoi antenati fino dal 1156, da Guido che fu primo signor di Vergiole, lunga serie di avi che occuparono in patria e fuori i più nobili uffici. Noverava un Tancredi console dei militi; un messer Orlandetto gonfaloniere di giustizia; ed il celebre Guidaloste già vescovo di Pistoia, ed eletto anche capitan generale delle milizie, perchè di grand'animo e pratico molto delle cose di pace e di guerra. Ebbevi in fine messer Soffredi capitano e rettor di Bologna; e tutti costoro costantemente della parte de' Ghibellini. Di questi tempi poi il cavalier Bertino, e messer Luca fratelli del capitano Filippo; Fredi e Orlandetto, figli di questo, non avevano smentito in parole ed in fatti l'attaccamento alla parte della casata, irremovibili in quella lega dei Ghibellini e dei Bianchi.
[pg!11] Ora nissuno più del capitano avvisava che se le molte milizie, come dicevasi, insiem collegate, venissero a quest'assedio, male da soli avrebber potuto resistere. Vedeva che molti dei cittadini più valorosi erano stati cacciati, e così la sua parte, per adesso dominatrice, a breve andare correva rischio d'essere umiliata e disfatta. Non per questo era uomo da trarne sgomento. In faccia anzi al pericolo gli cresceva l'ardire. Benchè presso al duodecimo lustro, si sentiva animo giovanile e capace di grandi cose. Se queste poi in pro della patria, nol trattenevan dubbiezze od ostacoli. Ma sebbene i più savi in politica sien d'avviso non esservi principii certi e norme invariabili per giovarle, se non quelle dell'onestà, e doversi anzi mutar consiglio ne' modi, ove l'esigano gravi cause e il pubblico bene, per lui non era sì agevole il rimoversi dalle proprie opinioni, e la sua parte una volta abbracciata, doveva esser quella. Un carattere sì tenace del suo proposito, e l'autorità di probo cittadino, ed esperto nell'armi, aveva influito a condurre alle sue parti, non che quelli di sua parentela, moltissimi di città e del contado. Si tenevano infatti nella casa dei Vergiolesi in Pistoia i più importanti consigli. Di qui si deliberava sulle pubbliche aziende; le opinioni più generose si rafforzavano, e prendevan voce per ogni lato.
Messer Fredi, di lui figliuolo, non meno del padre era fervido e risoluto: congiungeva però alla fierezza dell'uomo d'armi tale urbanità, tali attrattive nell'aspetto e nel favellare, che, come in lui eran doti spontanee e naturali, gli acquistavano fra' suoi compagni stima ed affezione particolare, e una deferenza a' principii del padre suo, ch'ei pur professava. E lo notavano come il modello del proprio zio messer Bertino, quattr'anni innanzi ucciso a tradimento da quelli di parte Nera, e che passava pel più nobil cavaliere della città. Messer Orlandetto, il minore de' figli, non differiva nell'animo dal fratel suo; sicchè ambedue per indole nobile e generosa formavano il vanto della famiglia, e la speranza del lor partito.
I deplorabili ultimi avvenimenti, e le discordie più accalorite della città, avevano da qualche tempo fatto men tollerante, [pg!12] aspro anzi e risentito l'animo del capitano; il quale solo talvolta placavasi, e rimetteva del consueto disdegno al cospetto di sua figlia Selvaggia.
Costei con un parlar dolce, e sempre giusto e persuasivo, esercitava sopra di lui tale arcana potenza, che egli, pel grande affetto che le nutriva, senza esitare piegavasi al piacer suo. Chè anzi ogni più lieve alterazione di salute o di spirito della diletta figliuola, bastava a recare in quel forte animo il più grave sgomento.
Conferiva non poco quest'amore per essa a moderarlo con la consorte. La quale quanto più implorava dal cielo a' suoi cari più miti gli spiriti, e il viver cittadino più riposato e tranquillo, ad ogni nuovo rumore per la città, più si poneva in angustie, e stava in sospetto pel marito e pei figli. Per lo che messer Lippo, se ella alcun giorno gli fosse apparsa timorosa ed afflitta, usciva subito in rabbuffi e in rampogne; o per lo meno soleva ammonirla che l'occhio bagnato di lacrime non è atto a vedere. E allora, ponevale innanzi la fredda ragione, l'onor di famiglia e i diritti di cittadino, che ad ogni modo con le parole e con l'armi chiedevan difesa e vendetta. Tali erano e così insite in tutti quelli animi queste gelose passioni, che l'offesa più lieve, o quale si fosse divergenza di parti bastava loro a por mano sul brando.
Ma di tal fiamma distruggitrice chi primo portò qui la favilla? Come e per quali cagioni fu secondato un incendio, che or celato ora aperto e in varie forme ebbe fomento per tanti anni?
La gran lotta fra l'Impero e la Chiesa, suscitatasi in Germania pe' diritti a conceder titoli e investiture, ne diede l'origine. Il grido de' Guelfi e de' Ghibellini, partito dalla battaglia di Wisenberg, si diffuse prima per Lamagna, poi su i campi d'Italia. Qui dunque come colà si parteggiò sulle prime pe' medesimi pretendenti: o per Cesare e i fautori appellaronsi Ghibellini, o per Pietro e si dissero Guelfi. Come coloro che avevano ereditato le fiere lotte di Gregorio VII e di Arrigo IV, cercavano le parti di far trionfare ciascuna la propria supremazia: la quale mirava, per l'una a fondare un nuovo regno o meglio federazione in Italia, che distruggendo [pg!13] ogni traccia delle conquiste longobarda, greca e araba, dipendesse da Roma; per l'altra invece da Aquisgrana. Ma imperatori e papi, che dovevan comporre a concordia la specie umana, la turbarono trasmodando ne' loro poteri non ben definiti.
Ildebrando immaginò di levar la Chiesa a prima potenza della terra; e per toglierla affatto dalla sudditanza degl'imperatori, che per vero con le investiture dei benefizi ecclesiastici si erano arrogati un diritto che ad essa spettava, egli solo voleva esser detto re dei re, signore de' dominanti. Ma gl'imperatori, presumendo di avere ereditato la potestà antica dell'Impero Romano, sdegnarono di sottostare a cotesta dipendenza. La Chiesa, o meglio la Curia romana frattanto, col suscitar pur essa a pro suo l'elemento dell'antico Impero Latino, e con la sua rappresentanza che era in Roma nel Senato, studiavasi d'amicarsi i Comuni italiani favorendo le tendenze d'emancipazione dei popoli, cui già pesava la straniera supremazia. E per questo lato in que' primi tempi l'alta protezione pontificale potè essere all'Italia di molto vantaggio. Ma in questo mezzo i Comuni, traendo profitto dalle discordie che non cessavano fra la Chiesa e l'Impero, non vollero più sottostare nè all'uno nè all'altra. Fu da quel tempo che ciascuno non pensò più che a provvedere a se stesso. Già da ogni parte s'era svegliato uno spirito nuovo. Cominciarono i popoli a scuotere il giogo feudale mantenuto dalle due potestà; poi a volere un governo d'ampia forma repubblicana, civili e propri Statuti. Gli Italiani liberati dai barbari, fatti ricchi e potenti pe' grandi commerci, avevan sentito la propria forza, la virtù e la dignità d'un gran popolo. Sorgeva infatti fin da quel tempo pei municipi la prima aurora di libertà: la quale, per quanto osteggiata dai loro dominatori, nei due secoli appresso andò sempre diradando le invide nubi, finchè con la crescente luce di civiltà il genio italico ravvivato, apparve alla fine nel suo pieno splendore.
Perduravan le funeste contese fra la Chiesa e l'Impero, allorchè, dopo la morte del secondo Federigo, il Comune di Pistoia coi più della Toscana si volse al partito dei Guelfi. Sperarono sorti migliori dalla protezione non più di un [pg!14] principe straniero, ma italiano e pontefice. Tardi però s'accorgevano che questi, debole per sè come principe, non con armi proprie ne prendeva la tutela, ma sì con quelle di altri stranieri.
Nondimeno in Italia a quel tempo ogni Comune, novello polipo, viveva già d'una vita propria, e fra loro era sorta una nobile emulazione.
Negli ultimi trent'anni con che compivasi il tredicesimo secolo, Pistoia col suo distretto fioriva già di commerci, d'industrie, di banche: aveavi culto di lettere e di scienze, e grande amore di arti belle. In prova di sua cultura basterà ricordare per le prime un Meo Abbracciavacca, un Lemmo Orlandi, e lo stesso sciagurato Vanni Fucci, assai pregiati fra i trovatori; poi quel Soffredi del Grazia, uno de' più antichi prosatori italiani, le cui scritture sono innanzi al 1278. L'amor per le scienze si facea manifesto per quel famoso frate Leonardo pistoiese che primo scrisse un trattato sul computo lunare (1280) e per la cattedra di Leggi che dal celebre Dino da Mugello si teneva in Pistoia. Di messer Cino de' Sinibuldi non è a dire, quando tutti ancora l'ammirano e gli fanno onore.
Del culto poi delle arti belle (esse pure sicuro argomento di civiltà) fanno fede pur sempre, il celebre altar di S. Jacopo di bassi rilievi d'argento, che, con la Sagrestia de' belli arredi, segnano dugent'anni del buon tempo dell'orificeria, de' ceselli, de' nielli e di smaltature. Il quale altare dall'orafo cittadino Ognabene, e da altri si cominciò ad arricchire di pregiati lavori fino dal 1287. Aveva dipinto in cattedrale il pistoiese Manfredino d'Alberto, che adornò San Michele di Genova nel 1292, e l'altro pittore e mosaicista Vincino che lavorò nel Camposanto di Pisa. Quindi son ricordevoli, il palazzo del Comune ed alcuni bei templi: le sculture poi dei pergami, d'un Guido da Como; le mirabili d'un Guglielmo; e le quasi uniche d'un Giovanni, l'uno e l'altro pisani. E se si pensi che queste opere sorsero le più sul finire del secolo XIII, e appresso, in una piccola città, fra le lotte della civiltà e del dispotismo, fra i corrucci più fieri de' cittadini divisi, sono anche oggetto di maggior meraviglia. [pg!15] A queste prove di civil governo aggiungi gli Statuti pistoiesi, che furono de' primi in Italia (circa il 1117) a distruggere i privilegi feudali, a recare fra i cittadini una più equa ripartizione di diritti: infine i belli ornamenti della propria milizia.
Le quali istituzioni, degne invero di forte e libera gente, avrebbero assicurato a Pistoia le più prospere sorti, se il mal seme, sparso prima in Firenze pel crudo fatto de' Buondelmonti, non avesse prodotto entro di essa e nelle terre vicine l'amaro frutto della discordia.
In Pistoia di questi tempi primi a insorgere e parteggiare con nuovi nomi furono i Cancellieri; sopra gli emuli Panciatichi potenti già per dovizie acquistate con la mercatura, per uomini d'arme, chè ne contavano lino a cento, e diciotto cavalieri a spron d'oro, per grandigia e per ambizione di dominio. Rifugge l'animo a ricordare le feroci rappresaglie, prima fra le dette casate le maggiorenti in città, insorte poi fra una medesima parentela, intendiamo fra quella de' Cancellieri. L'aspra vendetta del taglio d'una mano presasi da uno di loro sopra un giovinetto parente, dal quale innanzi per rissa un figliuolo dell'altro era stato non gravemente ferito: vendetta tanto più cruda quanto che il feritore era venuto a chieder perdono agli offesi; fu cagione che la detta casata col nome di Bianchi e di Neri (così detta o dai nomi delle madri stesse, o dai colori che portavano in guerra, o da qualsiasi altra cagione) si dichiarò avversa e divisa in cotal modo, che trassero seco i cittadini d'ogni ordine o da una parte o dall'altra, e fieramente s'inimicarono.
Tutti ora a Pistoia come a Firenze si dissero Guelfi, ma nel fatto con diverse intenzioni, quelle, cioè, di far risorgere più violenti gli sdegni fra nobili e popolo. Di qui la suddivisione dei Guelfi di Pistoia in Bianchi e in Neri, e questi con propri capi ed insegne. Ma feroci e temibili tanto, che i capisetta bisognò incontanente bandirli a Firenze. I Bianchi, poichè furon vinti, cercarono aiuto colà presso dei Ghibellini, e vi trovaron parteggiatori nella famiglia dei Cerchi: i Neri unitisi a' Guelfi, in quella de' Donati.
Però questa fazione de' Bianchi e de' Neri non è a credere, come da alcuni fu asserito, essere stata la favilla che [pg!16] suscitò la fiamma delle discordie di Firenze. Bisognerebbe avere obbliato le vecchie ire personali di quei cittadini fin da quelle de' Bondelmonti e degli Amidei; la superbia dell'antica nobiltà già alle prese con la gente nuova: l'una capitanata da Corso Donati, l'altra da Giano della Bella; e di qui sino a quest'anno le rappresaglie, le uccisioni, gl'incendi; e per fine la spedizione violenta degli usciti contro la città loro; spedizione che, sebbene fallita, pose il colmo alle divisioni. Esse eran già all'estremo fra quelle mura, quando i fatti di Pistoia vi s'immischiarono. I quali, secondo che rilevasi da Dino Compagni e dal suo moderno illustre biografo e commentatore, Carlo Hillebrand, altro non furono che una suddivisione de' Guelfi, e un episodio di quella feroce epopea di sciagure italiane, che dopo dieci anni non si udì più ricordare, perduto nei primitivi nomi di Ghibellini e di Guelfi. Terribile lezione pur sempre pei popoli bramosi di libertà, perchè serbino concordia; se pongano mente che mali indicibili procacciassero allora le divisioni d'una sola famiglia!
Alla fazione de' Neri s'accostarono tutti i Guelfi aristocratici: a quella dei Bianchi i Guelfi popolari: quelli sostenitori delle pretese feudali; questi bramosi di conservare la loro libertà democratica. Parteggiavano co' Bianchi in Firenze gli uomini più notevoli per nobiltà di natali, per indole buona, per ingegno e sapienza. Un Guido Cavalcanti, gentile poeta; l'intemerato storico Dino Compagni; oltrechè l'astrologo Cecco d'Ascoli, i verseggiatori Guittone d'Arezzo e Jacopone da Todi: lo storico Giachetto Malespini, il giureconsulto Donato Alberti, il legista Petracco; e in fine, a porre in fama la schiera, Dante Alighieri.
Stavano all'incontro pe' Neri molti de' popolani con a capo Corso Donati; i Frescobaldi, i Pazzi, i della Tosa. Questo rinnovarsi dell'antica lotta, benchè per breve, ma più violenta, non però fece sì che le sette, invocando i simboli di parte del papa o dell'imperatore, parteggiassero con loro e per loro. I nuovi nomi non furono che una parola d'ordine, cui rispondevano per ravvisarsi le famiglie nemiche. Si accostavano di preferenza a quella fazione d'onde speravano [pg!17] maggior beneficio, o temevano minor danno. Infine, per avervi man forte a schiacciar l'avverso partito escludendolo dagli onori e dai beni della repubblica per ottenerli essi stessi. E infatti, per l'assenza dall'Italia e per l'abbandono dell'imperatore, i Guelfi, non più come un tempo popolari tutti, ma parte ora aristocratici, riuscirono in ultimo a prevalere. E ciò perchè aiutati da papa Bonifacio che da Roma potentemente li favoriva, tanto da mandare un venturiero di Francia a capitanarli, e a far quel gran male che poi diremo. E soprastarono anche per altra ragione. Perchè gli Spini di Firenze che eran banchieri del papa e altri aderenti Neri, allora siccome sempre, nel temporale governo lo circuivano, e volentieri per loro utile lo secondavano. Si ebbe un bel chiedere a Bonifazio s'interponesse a concordia: quella sua indole violenta all'uffizio di paciere non s'affaceva gran fatto. Nondimeno inviò a tal uopo a Firenze il cardinal d'Acquasparta. Inutilmente però. I Bianchi avevan già occupato il governo: e temendo che la corte di Roma abusasse de' poteri che dimandava per abbassarli, rifiutarono al cardinale di ridarsi in balìa. Ed ei sì partì e la città interdisse.
Allora la signoria di Firenze opinò di poter conciliare senza esterno intervento col porre a confine i caporali d'ambe le parti. Ma i Neri di subito con Corso Donati andarono al papa, e lo incitarono contro a' Bianchi, e, come gli chiamavano, contro a' cani del popolo per abbassarli, e favorire la nobiltà. Or come a Bonifazio premeva molto di abbassare Federigo usurpator di Sicilia, e di ripor questo regno in mano degli Angioini di Napoli da lui deferenti, invitò a tal impresa Carlo di Valois, fratello di re Filippo di Francia, e con questa spedizione colse il destro ad un tempo di favorire i disegni de' Neri, inviando il francese, come già l'altro Carlo d'Angiò, in qualità di vicario in Toscana con cinquecento cavalli, e col titolo di paciere di Firenze. Sperava il papa con ciò di recarsi in potere assoluto, e alle sue parti tutti quanti i Comuni. «Così (osserva uno storico illustre) nell'anno medesimo in cui a Roma si dava col giubileo general perdono a tutti i peccati degli uomini, si preparava ivi [pg!18] stesso una grande iniquità, che a Firenze e altrove fu cagione di lunghe sciagure.»1
Mentre queste cose da siffatti protettori si macchinavano, e il consiglio de' Posati a Pistoia aveva già consegnata per amor di concordia la signoria per tre anni al Comune di Firenze, la fazione de' Bianchi fiorentini abusando della fiducia, non appena giunta in Pistoia, per afforzarvisi di prepotenza cacciò la Nera, e ne disfece le case e le torri. In questo modo riformata la parte Bianca, poco stette che non fosse poi fatta segno alle tremende vendette de' Neri che tenevano il governo di Firenze e di Lucca, e secondavano le male arti de' fuorusciti. Che volesser costoro già l'abbiam detto. Chiamar lo straniero a Firenze per lor private vendette, era massima iniquità. E lo straniero avido di potere e di danaro, venne e vi si fece tiranno. Scellerato paciere, che a nome del papa dava forza ai ribaldi di riempire di sangue e di desolazione tanto bella città! Sotto il suo usurpato governo ogni sorta di nefandità fu commessa. Al principio dell'anno 1302, Carlo di Valois macchiato omai di molti delitti, se ne partì e andò a Roma per aver consiglio dal papa, e gli chiese danari. Bonifazio (come narra pure Dino Compagni) gli replicò che mandatolo a Firenze, lo aveva messo nella fonte dell'oro. Risposta che bene spiegava la qualità delle sue intenzioni.
Dai fatti che seguitarono, apparisce secondo i cronisti e lo storico prelodato, che fin d'allora fu stabilito l'esilio dei Bianchi. Infatti il Valois tornò a Firenze, e sapendo che ivi era la fonte dell'oro, saziò a quella le bramose sue voglie. Fece altre rapine; diè sentenze di morte; pubblicò i beni, e arse le case ad alcuni, che falsamente e con empio artificio furono accusati di aver cospirato per ucciderlo. Imprecato da tutti, deliberò di partirsi; ma prima «nuovi tormenti e nuovi tormentati!» Per mezzo del suo vil potestà, procede alle condanne del bando, ed esiliò oltre a seicento cittadini, i principali de' Bianchi, che sparsi per Toscana e fuori, fecero causa comune coi Ghibellini. Tra questi esuli [pg!19] fu anche il grande Alighieri. Citato a comparire per essere stato dei Bianchi, e per aver contrastato alla venuta dello straniero, non si presentò, ed ebbe arse le case, confiscati i beni, e condanna di morte! Ma egli aveva il modo a vendicarsi solennemente delle scellerate condanne; e fra le miserie dell'esilio, sentì crescersi la forza dell'animo per consacrare all'infamia i furibondi settari, e i suoi giudici iniqui.
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