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CAPITOLO V.
ОглавлениеCONSIGLIO E DIFESA.
«Molte volte addiviene che all'estremo
gaudio conseguita il lutto.»
—— Salomone nell'Ecclesiaste.
Fino dal far della notte le tenebre in quei tempi nella città eran fitte per ogni strada. Solo qualche lampada posta innanzi a sacri tabernacoli sui canti d'alcune case, a cura però di privati in opposizione agli errori de' Paterini, tramandava un piccol barlume, e serviva così a scopo religioso e civile.
Nell'uscir dalla festa, Cino si era accompagnato con l'amico Lemmo e col Cancellieri. Nè Lemmo si era premunito di lanterna, nè gli altri due avevano avvisato di farla portare ai propri servi, come soleva la nobil gente: e benchè i domestici dei Vergiolesi le avesser loro profferte, scherzosi e giulivi ne ringraziavan, dicendo che era un bell'andare al lume delle stelle; e già si erano incamminati per le proprie case.
Tutti dovevan fare la stessa via, e così l'uno all'altro poteva esser di scorta. Messer Cino, già venduta l'antica casa de' Sinibuldi in S. Maria cavaliera, insieme a quella de' Taviani e de' Cremonesi per erigervi l'attual palazzo del Comune, abitava ora in altra sua in parocchia di S. Ilario. Di qui doveva passare il Cancellieri, che, essendo de' Bianchi, aveva casa presso l'abbazia di San Bartolommeo in pantano, detta così perchè nella parte più bassa della città. Poco distante era la casa di Lemmo. Costoro, fin da quando erano usciti all'aperto, si erano accorti che uno sconosciuto, ravvolta la persona in ampio mantello, e chiuso il cappuccio, li seguitava. Quando ecco che giunto il Sinibuldi alla porta di casa e presso ad entrarvi, quell'incognito che dal lato opposto della via passava loro dinanzi, fu udito profferir chiaramente, benchè a voce repressa:—Maledizione!—
Tutti a un tratto posero la mano sull'elsa, non sapendo in quell'ora, per chi di loro e a qual fine un sì strano imprecare. E intanto che colui a gran passi si dileguava:
—Ma sapete ch'io dubito—disse il Sinibuldi—che sia stato dispetto di quel cotale perchè non m'abbia potuto aver solo per via! Da quella imprecazione, Lemmo, non ti parrebbe?
—Oh! appunto per te! Ad ogni modo meglio così, t'avremo salvato!
—Bada però—soggiunse Cino—che la spada al fianco non la tengo per nulla, e all'occasione l'avrei saputa impugnare. Ma, dico io, quella parola perchè appunto qui? Non ti par proprio per me?
E l'altro:—Ne avresti forse qualche ragione?
—Non dico questo; perchè assente da qualche tempo... Poi riflettendo:
—Se non fosse!... Alla festa mi parve che uno... con una tal guardatura! Messer... ma no... non è possibile! Oh! no, no, nissuna cagione... non so davvero...
—Via dunque non ti porre in sospetto. Sai già a che tempi viviamo!—E il Cancellieri egualmente rassicuratolo, si divisero ricambiandosi un amichevol saluto.
Ma però il Sinibuldi non mal s'apponeva. Lo sconosciuto era Nello de' Fortebracci. Una forte inimicizia perdurava da qualche tempo fra le loro famiglie. Dopo che i cittadini, avvenuto il crudel fatto de' Cancellieri, si videro spesso dalle torri con balestre e con pietre, e per le vie con stocchi e con spade venir fra loro a battaglia, accadde un giorno (così narrano le storie) che certi della parte Nera, cioè ser Fredi di messer Sozzofante, Bertino Niccolai, che guardava la fortezza [pg!56] del Pantano di messer Simone Cancellieri, e altri, stando in Pistoia presso alle case di messer Gherardo de' Fortebracci e consorti, messer Gherardo li volle offendere perchè egli era nipote di quel nobile cavaliere, messer Bertino, ucciso poco fa dallo Zazzara, fratello del detto ser Fredi. Dalle parole misero mano alle spade, tantochè per quella rissa tutta la città fu in armi. Ser Fredi e i compagni si accostarono a quei di casa i Sinibuldi; combattendo sempre con messer Gherardo e con quei di sua casa. I Sinibuldi, prode e gagliarda gente, vennero a tale assalto, che messer Loste de' Sinibuldi percosse addosso a messer Gherardo, e uno spiede molto grande infisse nel fianco a Braccino, uno dei figli di messer Gherardo, tanto che quel disgraziato fu tenuto per morto. Messo sopra un palvese, lo portarono a casa, ponendo ogni cura per veder di salvarlo; ma dopo tre giorni il suo povero padre lo dovè piangere estinto. Da quel tempo fu un odio implacabile fra la casa de' Fortebracci e quella de' Sinibuldi. Nello, come fratel di Braccino, aveva anch'esso combattuto per sua difesa.
Ma perchè mai sì fiera minaccia contro di Cino, assente in allora e da ambe le parti stato sempre stimato affatto estraneo a questi corrucci?
È da sapere che Nello da qualche tempo si era perdutamente invaghito della bella Selvaggia. Una tal sera, incontratala ad una festa che si dava dai parenti di lui, colpito da tant'avvenenza, le volse gli occhi sì desiosi, che ella non dubitò di rispondervi con un sorriso: quel sorriso però che una fanciulla felice ed ingenua concede ad ognuno. Ma l'errore di certi uomini fatui sovente gli è questo, di presumere da ciò d'aver avuto un ricambio d'amore. E Nello di fatti, fin da quel giorno incantato ed illuso per tanta grazia, si era ingegnato di essere sempre dov'ella soleva recarsi. Favellarle di già aveva potuto più volte, e anco, benchè indarno, le aveva aperto il suo cuore. Al ricco giovane poi non era mancata una schiera di adulatori, che già si rallegrava con lui della bella conquista; benchè in fondo non fossero altro che suoi desideri, e a misura che gli crescevano, e altri lo lusingava, gli paressero quasi che realtà; cosicchè per tal guisa anche il suo amor proprio v'era forte impegnato. Ma [pg!57] come sperare che ella obbliasse per lui quell'amore che sin dai primi anni portava al suo Cino? Donzella com'era di squisito sentire, rigettò da sè con bel garbo ogni profferta dello altero giovane, del quale poi nè pregi morali, nè della persona potevano ispirarle affezione. Pure egli fidava sempre che almeno per ragione di convenienza la famiglia di lei non avrebbe sdegnato di stringersi in parentela con un giovine, solo in famiglia, e con uno dei più ricchi magnati della città. Tanto era innanzi in quest'idea vanitosa, che non potè concepire come attenderne una repulsa. Ma i Vergiolesi, pel gran rispetto che avevano al voler di Selvaggia, tanto più che si erano accorti della sua assoluta avversione, non che consigliarvela, non le ne tennero parola.
Frattanto l'arrivo inatteso di messer Cino era stato pel Fortebracci come un colpo di fulmine che l'aveva atterrito. Odiava già in cor suo il troppo noto rivale. Ma pure illudendosi, badava a pensare:
—Se ella non ha dato risposta alle lettere mie; se non ha voluto udire quel tale che si doveva intromettere presso di lei per appagare le mie brame, dovrò perdere ogni speranza? Il riserbo suo naturale le avrà forse imposto di non riscrivermi. È probabile anche che non abbia creduto di dover affidare ad estranei una risposta sì grave, dalla quale sa omai che mi attendo o la vita o la morte!
Di queste e somiglianti illusioni pascevasi tuttavia messer Nello. Ma com'ebbe inteso che il rivale era giunto; che da lei, rientrando in città, era stato salutato in tal modo da far parlare di sè: poi, per colmo, alla festa quei loro sguardi e quei detti, dei quali egli stesso dovè esser testimone,... tanto lo invase la gelosia, tanto l'odio contr'a Cino, che in quella sera giurò d'assaltarlo, e di provocare una sfida.
Intanto Cino, ignaro di tutto questo, non mancò di recarsi puntualmente nel giorno appresso dal Vergiolesi, e stettero insieme a lungo e segreto colloquio. Nel tempo che il capitano gli confidava la notizia dell'assedio, questi gli confermò pur troppo ciò che gli aveva scritto da Bologna, che ogni dì più il partito dei Bianchi in quella città andava scadendo, e sottentrava l'avverso. E aggiungevagli che già non solo [pg!58] si cospirava pei Neri, ma v'era chi aizzava la plebe mutabile per mille guise, perchè provocasse con fieri motti, e atterrisse poi con minacce quanti erano, gli estranei in specie, che se li credesse contrari. Sicchè egli, avutane già qualche mala parola, vide non esser più tempo di rimanere per aspettarsi di peggio, e all'improvviso se n'era partito. Assicurava però il capitano che l'amico suo, messer Onesto Bolognese, l'avrebbe informato di tutto e si terrebbe in debito di riferirglielo.
Il Sinibuldi, uscito da lui, non ebbe altro pensiero che quello della sua donna e di chiedere però d'essere introdotto nelle stanze di monna Adelagia e di Selvaggia; e non è a dire il contento che ne provò all'udire come subito gli fu concesso! Egli era di nuovo inebriato d'amore! E come avrebber potuto svolgergli pur quella immagine dalla mente tutte quante erano dame e donzelle che aveva incontrato alla festa, coi loro sguardi prolungati, con le dolci parole e i lusinghieri sorrisi, dopo aver riveduta una volta sì gentile e sì bella la sua Selvaggia? Essa era stata per lui assente un essere soprannaturale, uno spirito consolatore, un angelo! Ora non solo la preferiva di già a tutte quelle vaghe donne, che ivi ebbe incontrato, ma gli pareva che Selvaggia splendesse unica di pregi i più eletti, e stando fra loro le onorasse e le adornasse, come colei che destava in tutti, al solo vederla, reverenza, meraviglia e piacere. Pure la sua trepidazione nel riporre il piede su quelle soglie fu grande. Ma il gradimento amichevole, con che venne accolto, fu pari alla gentilezza di quelle anime. In quel incontro familiare i cuori dei giovani provaron di nuovo quel senso di un affetto consolato che non s'esprime. Madonna Adelagia, che aveva avuto sempre tanta stima per Cino, gli portava affezione come a figliuolo, e ora si compiaceva che i propri figli rannodassero con lui l'amicizia. Perchè ella dicevagli:
—Molto sì, molto per costume e per dottrina avranno da imparare da voi! Oh! se il mio Orlandetto poteste dirigermelo negli studi, ve n'avrei davvero debito e grazia!
Orlandetto, di già avvenente garzone, e cui ella nutriva un affetto particolare, varcava allora di tre anni il terzo [pg!59] lustro, e più che agli studi si sentiva inclinato agli esercizi cavallereschi. Or pensiamo se messer Cino ebbe in grado cotal proposta; sicchè subito le rispose che nulla gli sarebbe stato più caro che di fare il piacer suo. Si aggiungevano a queste le preghiere di Selvaggia; nè altro vi voleva perchè ei ne provasse tutto il contento che suol destare una bella e fortunata occasione. Amico già di famiglia, vedeva con ciò un nuovo titolo che per frequentarla legavalo ad essa, e in tal maniera, che nessuno onesto avesse a ridirne. Ciò, più che a lui, aggradiva a Selvaggia, che, come abbiam detto, non bramava l'affetto suo in alcun modo svelato: quasi le paresse che quel fuoco, quanto più nascosto, dovesse esserle anche più sacro.
Dal lato di mezzodì, la casa de' Vergiolesi aveva contiguo un piccolo giardino e una privata cappella. Solo una bassa muraglia separavalo dalla strada. Or come sulla sera Selvaggia soleva recarvisi,
—Vogliamo—disse alla madre—che dopo tanto messer Cino rivegga con quanta cura coltivammo sempre le nostre piccole aiuole?—ed ella volenterosa assentendo, a pochi passi erano già nel giardino. Ivi ogni fiore di primavera faceva bella mostra; ed erano tali che dai petali colorati tramandavano quasi tutti un odore gratissimo.
—Vedete—diceva a Cino la madre—vedete un poco bellezza di rose che abbiamo! Da questo nostro rosaio fu colta da Selvaggia la rosa che vi porgeva iersera.
—Tanto più l'avrò cara—ei rispose—quanto che ambedue vi adoperaste sì bene alla piena vegetazione di questa che per me è la regina dei fiori. Quante volte, credetelo, nella mia lontananza ho ricordato anche i fiori del mio paese! E di questi che amo tanto, di là dall'Apennino pel clima più rigido non potendo trovarne in questo mese che raramente, e tanto più, sì gentili cultrici, sovvienmi d'avere scritto una canzone che incomincia così:
Deh quando rivedrò 'l dolce paese
Di Toscana gentile
Dove il bel fior si vede d'ogni mese!
—Sì veramente; il giardin de' bei fiori!—soggiunse la [pg!60] madre.—E un benedetto Eden sarebbe il nostro, ove orride serpi non vi stessero ascose. E voglia il Cielo!... perchè un funesto presentimento... da qualche tempo!...
E in questo dire, vedutasi innanzi dischiusa la porta della cappella, com'era solita in quell'ora, vi si recò a pregare. Allora subito messer Cino si fece a narrare a Selvaggia quel che la sera dopo la festa gli era accaduto, quanto a quell'incognito e alle udite parole.
—Santa Vergine!—esclamò ella—non altro poteva esser costui...
—Chi dunque, chi mai?
—Nello de' Fortebracci!
—Oh! ecco—replicò Cino:—sovvienmi alla festa, quand'io parlava con voi d'una certa sua guardatura... Ma è noto già il suo naturale, e non credeva giammai!... E che vuol egli da me? Ma voi dunque sapete...
Allora Selvaggia, benchè trepidante, a togliergli ogni sospetto, gli andò svelando rapidamente le insistenti profferte dell'amore del giovane e il franco animo con cui le ebbe respinte.
Stupì egli a tal nuova, e bastò ciò per comprendere la cagione non solo, ma le possibili conseguenze di quella minaccia.
—Ahimè!—sospirò ella—che della vostra assenza gli amici vostri avessero dovuto dolersi, era ciò naturale. Ma che adesso, tornato in patria, si debba tremare per voi!... ed io, messer Cino, io esserne la cagione!...
Ed egli:—Ogni periglio sarebbe lieve a sfidare quando fosse per voi, dolce mia donna!
—Oh! non dite questo! Di voi unicamente mi preme ora!
—Dunque anche lontano... voi di me solo, o Selvaggia,... nè mai obliaste?...
Ed essa, abbassato lo sguardo; poi sollevatolo a lui, con passione soggiunse:
—E con qual core l'avrei potuto? Ora poi che siete alfine fra noi e che le vostre parole tanto mi rassicurano!... Valoroso di rime e di leggi! Ah! sento che la gloria vostra quasi è la mia; e come vi bramo, sarete, n'ho fede, onorato [pg!61] dovunque. Ma, se alcun potere posso avere sul cor vostro, Cino, di grazia ascoltatemi. Furibonda è l'indole di costui; la vostra vita è preziosa: e per tante ragioni, che potete pensare, non deve esporsi a un terribile rischio. A Fredi, mio fratello, che è di animo conciliativo e a noi benaffetto, andate e confidate ogni cosa. Egli solo può deludere in tutto quel forsennato, voi porre in calma e a un tempo me stessa.
—Oh! generosa! tanta previdenza per me mi dà prova che anche il cuore v'ha parte. Ve ne saprò esser grato, non dubitate! Ora e sempre il vostro volere sarà il mio!—E come in atto di solenne promessa, messer Cino le stese la destra. Ella accoglievala nella sua; e fu una di quelle strette di mano che vanno al cuore.
La madre era tornata in giardino. Ei le accompagnava alle proprie stanze, e si partiva da loro risoluto di dare effetto all'amoroso consiglio.
La città era tuttora inconsapevole della minacciata sciagura, quando la mattina seguente un suonare a distesa della campana maggiore della torre della Cattedrale la faceva avvertita che il general Consiglio del popolo doveva convocarsi in straordinaria seduta. In un baleno si sparse che questa volta si teneva nella chiesa di S. Giovanni for civita; così chiamata anche allora, benchè dentro al secondo cerchio, dall'essere stata eretta fuori del primo. Altre volte, come sta scritto, radunavasi in Cattedrale, e anche nel tempio degli Umiliati. Costume antichissimo; perochè reputavano quel magistrato non altrimenti che un sacerdozio civile; il quale, siccome per amor di giustizia dal principio religioso doveva informarsi, per la santità del luogo che l'accoglieva, ingenerasse nel popolo maggior rispetto e autorità.
—Una grave comunicazione del potestà! si era già incominciato a vociferare.
—Cose serie!!—a mezza voce ripetevano per la via: e intanto si facevano capannelli per ogni lato, e l'uno l'altro s'interrogava:
—Che se ne dice? Ci hanno dato forse l'assalto ad altre castella que' Paterini?
—Uhm! che volete sapere quel che mulinano i Guelfi? E il peggio, crediatelo, gli è dei nostri che aizzano!—E un altro:—e dite anche de' Neri fuorusciti.
—O quelli sì che tirerebbero all'esterminio! Per vendetta peggio che tutti!—Badate, messeri—soggiungeva un buon vecchio—quando chi non c'entra ci vuol metter, le mani, e' non ne va una bene! Si vede proprio che il bene stare ha a durar poco nel mondo! Vedete un po'! ieri l'altro tutti in gioia e in festa, e oggi... che sarà mai?
In questo mentre s'udivano alcune voci:—Indietro, indietro! Libero il passo!—Erano i donzelli del Comune che ammonivano la folla. I signori del Consiglio s'avvicinavano.
Usciti dal palazzo comunale venivano a due a due, molto gravi nell'aspetto gli operai di S. Jacopo e di S. Zeno; il sindaco del Comune e della grascia; i dodici anziani, e ultimo il gonfaloniere di giustizia co' suoi ufficiali e co' suoi militi, e vari donzelli che portavan le insegne.
Entrati in chiesa, vi trovavano già schierati i dugento consiglieri, il potestà e capitano di guerra, col Vergiolesi primo capitano della cavalcata, e il cavalier De' Reali; anch'essi dei consiglieri, che solevano scegliersi da ogni classe di cittadini. Sedeva il gonfaloniere nel primo posto, con attorno gli anziani sopra un alto ripiano, cui può dirsi facesse spalliera il bel pulpito marmoreo di Guglielmo da Pisa, che da soli trentaquattro anni v'era stato scolpito. A destra, in luogo del pari onorevole, il potestà: e in gran cerchio ellittico a doppio ordine i consiglieri. Fra gli spettatori, i cittadini più riguardevoli, e di quanti era capace la chiesa. Le porte da tutti i lati di essa, che era isolata, le guardavano poche milizie cittadine. Conferiva d'assai alla maestà di quel tempio la sua primitiva semplicità. Un gran trittico con buoni dipinti all'altar maggiore, cui pregavano i fedeli vòlti ad oriente, e soli altri due altari dai lati con bei lampadari e le pareti in gran parte dipinte di sacre istorie, ne costituivano tutto il suo ornamento.
Non appena il gran consesso posava, che il gonfaloniere sorse il primo a far noto che di gravi cose i padri della patria eran chiamati a trattare, e di gravi novelle a ricever [pg!63] contezza, e queste dall'onorevole potestà che a cotal fine vedevan fra loro. Il quale, come n'ebbe avuta facoltà, levatosi, così prese a dire:
—Magnifici ed onorevoli, gonfaloniere di giustizia, anziani e consiglieri del popolo! Non mai per più grave cagione mi faceva a compire solennemente l'ufficio di potestà e di capitano di guerra, che vi piaceste affidarmi, nè per più urgenti casi dovevasi qui radunare il general Consiglio del popolo. È d'uopo che voi sappiate, e da me che per certa scienza ne son fatto sicuro, qualmente il Comune di Firenze, collegatosi con quello di Lucca, ha già deliberato di spedire le proprie milizie e molte straniere a por l'assedio a Pistoia!
A queste parole un fremito generale si destò nel Consiglio, e fra i cittadini che v'assistevano.
—Pur troppo—seguiva egli—un nuovo ed ingiusto atto che non ha nome! Tanto più che da qualche tempo lo Stato nostro tranquillo a nissun de' Comuni che or ci minaccia aveva dato occasione di lamentare una offesa.
—Noi invece finora i provocati e gli offesi!—s'udì ripetere con isdegno da diversi.
Quindi uno di essi:
—E qual ragione e qual diritto pongono innanzi costoro per l'iniquo divisamento?
Cui il potestà:
—Ragioni e diritti voi dite! Nè tampoco saprebbero immaginarli, se non que' del più forte, ch'essi poi non osan di far palese. Perchè anzi io vi dico che di nascosto si apprestan le armi; e che appellato, è in via il duca di Calabria co' suoi migliaia di Mughaveri e Catalani, e piomberanno fra breve, come lupi sopra gli agnelli, su questa nostra sventurata città!
Alzatosi allora il capitan Vergiolesi:
—Permettetemi, o signori, ch'io vi palesi tutto l'animo mio. Diritti nissuno potrebbe lor consentire, ma neppur solo pretesti: quando altre volte noi, seguendo parti diverse da quelle loro, nondimeno siam rimasti in un pacifico accordo. Ma certo parve che qualche diritto se l'arrogassero da quell'infausto [pg!64] giorno che (per unico miglior mezzo!...) fu opinato il nostro governo dovesse darsi in tutela de' Fiorentini!
—E che?—soggiunse il De' Reali—sarebbe mai questo un rimprovero d'un consiglio, del quale i' mi fui il principale autore? Capitano! Noi chiedevamo posa alle funeste divisioni d'alcuni magnati, ai tumulti dei discordevoli cittadini, alla fazione de' Neri, e Firenze ce la otteneva!
—Ma crediatelo—riprese l'altro—non per nostro, ma per loro vantaggio! Perchè voi vel sapete, i principali di tal fazione erano a Firenze i Cerchi, gli Adimari e que' della Tosa, tutti già Ghibellini, e che ora collegati coi Bianchi han creduto d'assicurarsi così un partito più stabile. Che ci valse l'aver mandato fra noi un potestà e un capitano per riformarci a parte Bianca; veder disfatte da' militi loro e da una plebaglia comprata le case de' Rossi, de' Sinibuldi, de' Tedici, de' Tebertelli, de' Ricciardi, de' Lazzari; arsa perfino e distrutta la fortezza di Damiata, e così la parte Nera e Guelfa cacciata dalla città; quando, sotto un nuovo pretesto di pace, altra mano più potente e tirannica, invocata da un fiorentino, e cui Fiorenza follemente si sottopose, tentò di tornarci a parte Nera, e fra quella e la nostra repubblica fu cagione di nuove discordie? Un Corso Donati non doveva mai, non che essere udito, ricevuto neppure dal pontefice Bonifazio! Invece blandito questi da una lusinga, e dell'occasione facendo suo pro, chiama a soccorso uno straniero, chiama di nuovo il Francese! Oh! ma qual velo gli cadeva in Anagni! Che poi si dovesse aspettare Italia dagli stranieri, glie l'avevano omai palesato l'Angioino ed i vespri di Monreale! Mala pianta per questo suolo era quella del fiordaliso! Fosse stato pur d'oro, egli era un fior de' Capeti! E chi fu primo a gradirlo? I Fiorentini! I Pistoiesi non già! Quando Carlo, sceso dai nostri monti pel greto d'Ombrone, s'avvicinò a Pistoia, ci avvisammo venire a noi un Signor senza terra, che facilmente però si sarebbe tolta l'altrui; sicchè non era tempo di cogliere fronde d'olivo per fargli festa; ma sibbene, come fu fatto, di rafforzar la città; e solo in questo modo premuniti e sicuri uscir fuori e onorarlo. Ed egli sel seppe e non osò venirvi! E bene andò: che, per quanto piccolo Stato, [pg!65] con dignità ci facessimo intendere! Oh! quella volta il maligno Muciatto Franzesi che lo guidava, non rise, no, de' suoi stolti consigli! Ben Fiorenza sua patria ne dovè piangere, e ravvedersi, ma tardi, e pagare intanto con gli esilii e le multe di tanti nobili cittadini troppo caro quel suo mal consiglio e quella sua cecità!
E nondimeno questo preteso paciaro che non fece pur contro noi? A mano armata ci assale; e non potendo in città (che le nostre armi gli posero nel codardo animo lo sgomento!) si appaga di sorprendere e derubarci le vicine castella; tanto che la sua caritativa missione recasse a lui qualche frutto! Serravalle, il Montale, Lamporecchio, pur troppo v'è noto! forti castella per sito, e ben munite di nostre milizie, ci furon sottratte con violenza ed inganno!
Pure a noi era giunto favorevole il destro di far costar cara a Fiorenza la zizzania tornata a spargere per man di costui sul nostro terreno! Il cardinal da Prato ne incoraggiava; non ci mancavano le armi dei nostri alleati Aretini, Bolognesi e Romagnoli, talchè la spedizione della Lastra dell'anno decorso, alla superba repubblica doveva esser di funesta memoria. Non ci voleva che la giovanile imprudenza di Baschiera de' Tosinghi: che impaziente dell'aspettare il soccorso dei nostri col degli Uberti, per troppo impeto in prima, in ultimo per viltà, un'impresa sì certa voltò in danno ed in lutto! Di qui l'ardir del nemico, e questa fiera vendetta onde ora ci assale! Frattanto io propongo al Consiglio che statuisca, che per savi uomini da lui eletti si debbano senza indugio apprestare armi ed armati, e ogni sorta di fornimenti a una valida resistenza.
E allora il De Reali:
—Ma prima che imprendiamo una guerra sì disuguale di forze, prima di correre un estremo pericolo, abbiamo noi ben ponderato se meglio non fosse acconciarsi alla proposta di riprendere in Pistoia i Guelfi Neri che respingemmo; e per amor di concordia, piuttosto che le vite dei cittadini, sacrificare i nostri, giusti sì, ma privati rancori?
Cui il venerando Astancollo Panciatichi, subitamente levatosi, rispondeva:
[pg!66] —Che ascolto io mai? Quando la vipera vi s'è avventata altra volta, e v'ha ferito del suo stral velenoso, vorreste voi per lo meglio riporvela in seno? Chi non sa che a siffatte ferite unico rimedio è un ferro rovente e senza aspettare? Cittadini! il mio voto concorda con quello del capitan Vergiolesi. Armi, armi, armi! Si muniscano poi le nostre mura validamente; ma ricordiamo che il più valido usbergo loro debbono essere i forti petti dei cittadini.
E il degli Uberti:
—E questo pure è il mio avviso; e come capitano di guerra chiedo ampie facoltà per provvisioni di viveri e d'armi.
—Sovvengavi—riprese il Vergiolesi—come il degli Uberti conosca già il valore dei nostri militi. Egli strenuo e degno erede del gran Farinata, li condurrà alla vittoria, non altrimenti che fece un altro nostro potestà, Corso Donati, capitanando a Campaldino le nostre schiere, sicchè pei loro ardimenti ne trionfarono. Sovvengavi infine che un mezzo secolo fa, se dovemmo subire un assalto improvviso dei Fiorentini, sapemmo anche respingerli.
Infervorati così quelli spiriti, senz'altro opporre, che anzi per voto unanime statuirono doversi trarre le somme occorrenti per una pronta difesa. Di che la direzione suprema voller commessa al degli Uberti e al Vergiolesi. Deliberarono poi che tutti i fuorusciti Bianchi, e quanti erano alleati Bolognesi, Pisani, Aretini e Senesi, s'invitassero a collegarsi e a venir loro in aiuto. Molte altre cose provvidero per l'interno. E infine, sulla proposta del Vergiolesi, elessero giudice delle cause civili nella città Messer Cino de' Sinibuldi; reputando che, tornato in patria in sì difficili tempi, col senno e con la dottrina potesse molto giovarla. Con questa unanime deliberazione il Consiglio fu sciolto.
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