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CAPITOLO IV.

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AMORE E DANZE.

«Vidi. . . . . . . . . .

Gente che d'amor givan ragionando.

. . . . . . . . Ecco Selvaggia,

Ecco Cin da Pistoia.»

—— Petrarca nel Trionfo d'Amore.

«Vedete, donne, bella creatura

Com' sta fra voi maravigliosamente!

Vedeste mai così nuova figura,

O così savia giovine piacente?

Ella per certo l'umana natura

E tutte voi adorna similmente;

Ponete agli atti suoi piacenti cura,

Che fan maravigliar tutta la gente.

Quanto potete a prova l'onorate,

Donne gentili, che ella voi onora,

E di lei in ciascun loco si favella.

Unque mai par si trovò nobiltate,

Ch'io veggio Amor visibil che l'adora,

E falle riverenza, sì è bella!»

—— Sonetto di M. Cino per Selvaggia.

In quella parte più elevata della città di Pistoia, quasi rimpetto all'antica chiesa di S. Prospero, ora detta di S. Filippo, sorgeva la casa de' Vergiolesi. Era essa, con le più di quel tempo, tutta fabbricata a mattoni senza intonaco o tinta qualunque: con alcune scorniciature dei medesimi alle finestre di sesto acuto, e con grandi archi di pietra che mettevano alle sue logge. Solevano queste, di facile accesso [pg!39] perchè al pian terreno, servir di convegno ai cittadini per novellare, giuocare a tavole, a scacchi, o per negoziare di faccende pubbliche e di private. Nelle case de' magnati era qui dove in prima i forestieri si ricevevano, e gli uomini d'arme della famiglia vi dimoravano come di guardia. Una parte di quell'architettura che avea del grandioso, potè vedersi anco a' dì nostri, finchè la moderna industria, gretta per lo più anche ne' pubblici palazzi, non ne tolse quasi le tracce. Solo adesso la pubblica coscienza per quelli antichi e monumentali ha gridato: «Se non siamo da tanto da poterne erigere de' somiglianti, che almeno, a documento di storia d'un popol grande, si sappiano conservare!» Quanto a questa casa, ad attestare che ivi era, non vi rimane adesso che lo stemma della famiglia a bande trasversali, e nell'interno un avanzo della sua torre. Tutto quel fabbricato, fino all'antica chiesa di S. Biagio può dirsi essere stato un castello presso alle mura del primo cerchio, ed era in quel tempo di pertinenza di messer Lippo de' Vergiolesi.

All'un'ora di notte di quel primo di maggio questa casa splendeva già torno torno di faci, e molti panegli ardevano fin sulle cime della sua torre. Nel cortile come nella loggia si vedevano alcuni uomini d'arme dipendenti dal suo signore. Molta gente andava e veniva per quella via, anche uomini e donne della campagna; perchè cotesta notte, seguitando la festa, i ponti levatoi delle porte della città v'era ordine non dovessero alzarsi. Si soffermavano incuriositi, come suol farsi dal popolo per ogni insolita cosa, e scorgevan di già dai piccoli vetri delle finestre illuminata una fila di stanze a maestro, fino alla gran sala che volgeva a ponente. Stavano nelle anticamere li scudieri ed i servi della famiglia; pronti questi ai comandi; quelli ad annunziar gl'invitati introdotti nelle sale di essa.

In una di queste, la più prossima alla gran sala, erano intorno disposte molte sedie a bracciali, guernite di velluto a colori diversi; belli stipi intarsiati di legni rari e di pietre preziose con sopra vasellami di freschi fiori. I torchietti pure che la illuminavano eran cinti di fiorite ghirlande, conforme il carattere della festa. Là sopra una di quelle sedie, [pg!40] dove nel dossale si vedeva trapunto in seta e in argento lo stemma dei Vergiolesi (uno scudo a sbarre trasverse bianche e celesti), vi si trovava adagiata una gentil donna. Un abito di drappo oltramarino dai colori dello stemma gentilizio, tessuto a fiorami d'oro, con le maniche chiuse al polso; una berretta di velluto chermisi guernita di grosse perle; cintura e fermagli ricchissimi, la designavan subito per una nobile dama. Infatti era essa madama Adelagia consorte del capitan Vergiolesi. Benchè innanzi con gli anni, serbava pur sempre nel volto le tracce della prima avvenenza. L'animo poi sì affettuoso per la famiglia e a tutti indistintamente cortese, le avea conciliato e le manteneva la riverenza d'ogni classe di cittadini.

E già alcuni degl'invitati le facevan corona. Fra questi, favellando col suo Orlandetto, si vedevano nobili damicelli in veste color cilestro o rosato, con in mano piccolo berretto rosso, giubboncino di raso, e calzoni a due colori stretti alla gamba. Allorchè fra di loro col fratello ser Fredi giungeva Selvaggia.

Vestiva essa un bianco abito serico, stretto alla vita con cintura d'argento ed un aureo fibbiale. Una sopraveste egualmente serica cilestrina con grandi maniche aperte dal gomito al polso, e sopravi bottoni e ricami d'oro, ne arricchivano l'ornamento. Oltrechè sul confine delle candide braccia le si avvincevano due smanigli con perle, che pure a un sol filo le pendevano dal collo. Un serto cesellato in argento le cingeva la bianca fronte, e le teneva raccolto il bel volume de' suoi capelli, sì biondi che parevano fila d'oro, e a grandi ricci le cadevan sugli omeri. Il suo volto era bianco rosato. Gli occhi, Cino stesso cel dice, eran soavi e pien d'amore. Alta della persona, snella e dignitosa a un tempo nel portamento. Disegnandone le belle forme, potea dirsi che ritraessero di tutta la grazia greca. La sua voce financo, nè troppo esile, nè troppo grave, le usciva con un suono sì dolce e sì melodioso da farsi udir per incanto. Cotali pregi si piacevano d'ammirare l'invitati alla festa nella nobile figlia del Vergiolesi; quando li scudieri vennero annunziando le une poco dopo le altre, co' lor cavalieri consorti [pg!41] e famiglie, madonna Oretta de' Panciatichi; Imelda e Viola di messer Rinieri de' Cancellieri di parte Bianca; monna Alagia degli Uberti; donna Fiore de' Gualfreducci; donna Ghisola de' Lazzari; monna Bice de' Muli; Dialta de' Tedici; Finamore de' Sodogi; Lieta de' Reali; donna Porzia de' Rossi; donna Lauretta di Laute de' Sinibuldi, l'amica intima di Selvaggia, e le donzelle cugine sue Vergiolesi, Lamandina, Guidinga, Matelda, Albachiara e Argenta. Queste con alcune altre, quasi che tutte della classe de' maggiorenti, per avvenenza, per ricche vesti e per sfoggio di gemme d'ogni maniera, facevano bella mostra: sfoggio già andato tant'oltre a danno della domestica economia, che dal Comune, co' suoi Statuti suntuari, fino a certa misura si tentò d'impedirlo.

Da messer Fredi eran quindi presentati alla madre i principali banchieri della città; gli Ammannati, cioè, i Visconti, i Reali, i Chiarenti, i Panciatichi. Eran costoro una potenza nel paese, e una fonte di floridezza pe' grandi cambi e negozi che facevano in Italia e fuori. Basti il dire che la banca reale degli Ammannati, tre anni avanti volendo assestare i suoi conti, aveva interposto il pontefice perchè da Odoardo re d'Inghilterra fosse sodisfatta di centocinquantamila fiorini d'oro, dei quali egli era debitore a detta ragione. Le venivano presentati pur anche i capitani delle compagnie del popolo, e altri ufficiali del Comune col suo gonfaloniere di giustizia. Nè mancava fra loro il nuovo potestà e capitan degli Uberti, cui primo messer Lippo offerivasi innanzi, grato dell'onore che gli recava. Non è poi a dire con quanta squisitezza di cortesia si volgesse a tutti Selvaggia o con parole o con atti.

Or mentre in lieti crocchi ciascuno a piacere si tratteneva, Selvaggia aveva preso a favellare con le giovani cugine, e pareva che molto si rallegrasse. Ma chi però le avesse letto nel cuore, vi avrebbe scorto non altro che uno sforzo di compiacenza; e a un tempo uno sgomento, una pena, che rivelava talora col guardo inquieto come di chi cerca ansiosamente qualcuno. Eppure in quell'istante quel suo desiderio lo divideva con molte di quelle dame! Omai si sapeva il ritorno inatteso di messer Cino. Chi avrebbe mai pensato [pg!42] ch'ei non fosse dei primi alla festa! Perchè, come dicemmo, non era ignoto l'affetto scambievole fra Selvaggia e il gentile poeta. E se egli è vero che la lunga assenza d'amata persona ne cresce la brama, può argomentarsi se ella bramasse di rivederlo! Egli, il suo Cino, toccava appena sei lustri. Alto della persona, il volto lungo ed espressivo, occhio, vivido, perspicace; preveniente di modi e parlatore leggiadro; egli di nobil casata, che ebbe fra gli avi un console della repubblica, potestà e capitani; e di quegli anni l'onorando vescovo della città. Oltrechè era in lui merito de' più pregiati a quei tempi, quel di legista. Passava di già per un dei più degni fra i discepoli de' celebri professori, Dino Rossoni ed Accursio: e adesso tornava in patria dalla Università di Bologna col titolo onorifico di baccelliere, che lo abilitava alla giudicatura. A farlo anche più accetto al gentil sesso conferivano molto i suoi meriti letterari. Si sapeva oltracciò come negli ultimi mesi ch'ei fu a Bologna si fosse legato d'amicizia non che di concetti politici (lo che ivi fra i Bianchi era grato) col grand'esule Dante Alighieri che al partito dei Guelfi bianchi inclinava, e del quale già si conoscevano alcuni canti dell'Inferno. L'amicizia con gli uomini rinomati dà sempre un prestigio e una compiacenza.

E certo doveva essergli di bel vanto l'avere ad amico un sì sublime intelletto, che Cino appellava diletto fratello e signor d'ogni rima; e cui per la morte della sua Beatrice dedicò un'affettuosa canzone. Già fin dai primi anni era stato fra loro un ricambio di dolci versi. Pensiamo poi quanta fosse la compiacenza di messer Cino nel sentirsi chiamato da quell'alma sdegnosa e parca dispensatrice di lodi, dopo del Cavalcanti il secondo de' suoi amici! Nel suo Volgare eloquio esser detto uno di quelli che più dolcemente ebbero scritto di poesia; che dirozzaron la lingua, che la ridussero districata ed egregia, civile e perfetta; e infine cantor d'amore esser nominato da lui!

E sì veramente l'amore, e l'amor di Selvaggia (e ben ce lo attesta il suo Canzoniere) gl'ispirarono i versi, e quel dolce stil nuovo che differenzia i poeti dai trovatori. Perchè, per quanto i menestrelli e i trovatori siciliani alla Corte di Federigo [pg!43] a Palermo, (e si aggiunga pure i molti che vi convenivano di Toscana, dove eran già noti alcuni scrittori di versi italiani), fosser dei primi a vocalizzare, quasi diremo, la italica lingua su i lor liuti con serventesi e ballate amorose; le fu d'uopo d'esser dirozzata, di farsi pura e gentile, e di esplicare infine tutte le doti che in sè chiudeva di forza, varietà e armonia; lo che non certo le era nè le fu concesso fra un popolo che in generale sentiva ancora dell'arabo e del saraceno; con un Governo dispotico, e che solo per incidenza e per pochi anni ebbe un re dedito alla musica e al poetare; ma potè solo in Toscana e con stabile fondamento, fra un popolo per ingenita disposizione più gentile, con ordini liberi, e il più progredito di civiltà. Ora, sia per mente e per cuore era Cino in quel tempo uno degl'ingegni più eletti. Nè l'amor suo fu già ideale e fantastico come quello de' trovatori amanti di professione. Sebbene rivelato con le forme della scuola platonica, era nobile, caldo e verace. L'aveva accolto in cuor suo già da qualche anno; sicchè da quel dì, com'egli ne scrisse, null'altro chiedeva che

In lei poner la mente

Poi di ritrarne rime e dolci versi.

Angel di Dio somiglia in ciascun atto

La sua giovine bella.

Da lei si muove ciascun suo pensiero

Perchè l'anima ha preso qualitade

Di sua bella persona.

E ciò fin da quel tempo

Che gli occhi suoi gentili e pien d'amore

Ferito l'ebber col dolce guardare.

Nobile era l'affetto che portava a Selvaggia. Lontano, non altro bramava che di rivederla, dicendo che

La sua dolce accoglienza

Gli cresceva l'intenza

D'odiare il vile, e d'amar l'alto stato.

Pregiato vanto d'amore, che ogni donna di accorto e delicato intelletto dovrebbe piacersi di riportare.

E cotal vanto ebbe Selvaggia sul suo messer Cino; perchè egli addivenne primo in quel tempo fra i maestri di diritto [pg!44] civile, ed egregio fra i più gentili poeti. Nè questo culto della poesia disdegnavano allora in Italia le nobili donne. Venturose anzi e felici pubblicamente si dicevano quelle che lo avessero meritato. Fra le quali, prima è da porre Beatrice de' Portinari, donna di virtù piuttosto singolare che rara, come colei che seppe ispirare il sublime cantore della Divina Commedia. E come già innanzi la Nina siciliana di Dante da Maiano, verseggiatrice del pari che la gentil donna Gaia figlia di Gherardo da Camino, nominata con onore dall'Alighieri; quindi si novera la Vanna del Cavalcanti, la Lauretta del Montemagni, la Laura del Petrarca.

Di Selvaggia poi potea ben dirsi che fin dai primi anni quella sua gentil alma fu tocca da una straordinaria visione del bello, di cui Cino le apparve effigiatore nelle sue dolci rime. Ma sì era modesta dell'animo, che, per quanto affetto nutrisse in cuor suo, non comportava però che ei nel pubblico e con pubbliche lodi lo palesasse. Tale è il concetto d'un suo madrigale che si legge fra le rime di messer Cino. Ella di nobil gente, di squisito intelletto d'amore, ben s'addiceva che con l'arte del canto e del toccare il liuto, si fosse data a coltivare le lettere rifiorenti allora in Italia, e nobil palestra d'ogni civile persona. Angelica creatura veramente era essa. Una di quelle, che in tempi di feroci passioni e fra uomini discordevoli, pure, umili, e in sè raccolte, erano destinate a molto soffrire per tentare di ricondurli a più miti affetti, al perdono, alla pace.

Questo carattere di bontà, cotesta sera forse anche più attraente le appariva nel volto. Frattanto in quella sala, dove molto era già il concorso degl'invitati, s'udì profferire il nome di messer Cino de' Sinibuldi, e gli occhi di tutti si volsero verso di lui.

Adornava la svelta persona una veste che era il lucco di velluto chermisi serrato alla vita, e stretti pure i calzoni d'ugual colore, con al fianco una ricca cintura, da cui pendeva la spada. Teneva in mano una berretta del detto velluto, da cui, com'era dell'uso, scendevano dai lati due piccole bende. L'andar suo era franco: il suo sguardo riservato e cortese.

[pg!45] Giunto dinanzi a madonna de' Vergiolesi,

—Eccovi il reduce amico nostro!—disse subito messer Lippo, presentandolo alla consorte e alla figlia.

—Che siatevi il ben tornato!—con molta grazia gli si volgeva la nobil madonna.

E Selvaggia alquanto arrossendo:

—Oh sì! veramente vi aspettavamo!

Cui egli:—Nulla mai di più caro di sì compita accoglienza!

Dopo ciò fu un udire come sopraffatto le loro congratulazioni, quelle de' giovani Vergiolesi e degli altri amici: a' quali tutti rispose con ugual cortesia. Assente da qualche anno, ben è da credere con qual contento fosse tornato fra sì care persone, e si trovasse poi dinanzi a colei che era in cima de' suoi pensieri.

Salutò quindi le altre nobili dame: molte delle quali com'ambissero di piacergli, lo colmavano di cortesie. Si diedero infatti a lodarlo innanzi a Selvaggia di avere imposto silenzio al giullare di piazza, che spropositava in frasi ed in voci i bei versi di Lemmo.

—Io—disse loro—volli impedire lo strazio della canzone del mio buon amico. Mi son troppo cari quei versi.

—E vorreste dirmi la canzone qual era?—gli chiedeva Selvaggia.

—Quella—ei rispose—che incomincia:

Lontana dimoranza,

Doglia m'ha dato al cor lunga stagione.

—È sì bella e consuona tanto co' miei sentimenti!...

E in questo, mess. Cino affissò con un guardo di tale affetto Selvaggia, che ella abbassò gli occhi e non seppe che dire. A chi avesse ignorato i legami che già avvincevano que' due giovani cuori, da quello sguardo, e da tal commozione avrebbe detto che l'amor loro avesse allora principio.

Rompeva il silenzio la buona madre e diceva:—È la canzone che più spesso suol cantar sul liuto la mia Selvaggia. Melodìa sì soave mal si comporta di sentirla guastare. E voi, anche come amico di messer Lemmo, a ragione ne prendeste [pg!46] le parti. Ben vi lodano le nobili donne, chè l'opera è generosa e degna di voi, messer Cino!

—Questi versi—riprendeva Selvaggia—belli di per sè, messi poi in musica da Casella, ricordo che io li ebbi in dono da Lemmo stesso, e non so dire quante grazie gli resi, e come gli ho sempre cari, venutimi da tanto autore!

In questo appunto messer Lemmo compariva fra loro. E udito il soggetto del lor ragionare, se ne mostrava obbligato in special modo a Selvaggia. Poi con affetto il più vivo si stringeva al seno l'amico Cino.

Intanto una musica a ballo, ma lenta e soave, s'intonava dall'orchestra nella gran sala vicina. Selvaggia e la madre fecero invito ad entrarvi: e i cavalieri, presa per mano ciascuno una dama, vi s'introducevano, e davan principio alle danze. A quella introdotta da messer Cino che rinnovavagli cortesi parole sulla difesa di Lemmo, egli con certa ilarità:

—Ma che volete!—rispose—abbastanza prendono occasione di strapazzarci, noi, poveri trovatori di rime!

—Trovatori però anche d'amorose e felici avventure!—soggiunse essa, e con tal malizietta, che l'uno e l'altra lasciaronsi con eloquente sorriso.

La sala, dai gravi soffitti, con intagli dorati, brillava per lampadari magnifici e per torchietti disposti intorno alle pareti. In una di queste si vedevano appesi li stemmi del Comune e dei Vergiolesi. Nell'altra, fra grandi cornici di legno intagliato, spiccavano i ritratti degli avi della famiglia. Qui pure grandi sedie a bracciali, ma di corame in colore con lucide borchie.

Di già in quella sala una gioia più libera pareva diffusa sopra ogni volto. Solo un cavaliere v'avresti veduto con occhi foschi, e accigliato così, da fare uno strano contrapposto fra tanto giubilo. Era costui un parente dei Vergiolesi, messer Nello de' Fortebracci.

Frattanto il volto di Selvaggia, vinta la nube che lo aveva per poco offuscato, s'animava di tal contento che co' detti e co' modi godeva quasi di farne partecipi quanti le eran vicini. Chi ne conosceva il carattere non poteva dire che ciò nascesse da ambizione. Era un impulso abituale della sua indole; [pg!47] impulso, quasi che inconsapevole, d'ingentilirsi e d'ingentilire. Qualità che pur si riscontrano in certe anime privilegiate, bramose di destare in altri quel puro senso d'affetto e di gioia che provano in sè: al modo del poeta che sente e s'accende, e vorrebbe pure trasfondere in altri quella viva sua fiamma. Anche allora che si dava alle danze l'avresti detta pur sempre la regina della festa. A render più lusinghiere le danzatrici contribuivano non poco in quei tempi il genere dei balli; governati da melodie sì lente e soavi, che più che invitare con celeri passi a circuirne la sala, obbligavano invece a movenze di grazia; sia che l'una coppia s'intrecciasse con l'altra, o distaccandosi alcun danzatore si facesse dinanzi alle dame in atteggiamento di reverenza e di leggiadria.

Or avvenne che dopo un breve riposo, e recati in giro eletti rinfreschi, un coro di fanciulle rallegrò inaspettatamente la festa. Era il canto d'una Ballata, pensiero tutto unico di Selvaggia! Dimorando al castello, ella stessa aveva voluto addestrare a questo canto a ballo varie giovinette dalla voce più intonata e più chiara. Se non che talora mentre le accompagnava sul suo liuto, fra l'una e l'altra strofa, usciva in preludi così mesti e soavi, che quelle fanciulle ne rimanevano estatiche. La Ballata era questa:

«Giovine bella, luce del mio core,

Perchè mi celi l'amoroso viso?

Tu sai che il dolce riso

E gli occhi tuoi mi fan sentire amore.

E sento dentro al cor tanta dolcezza

Quando ti son davanti,

Ch'io veggio quel che amor di te ragiona.

Mai poi che privo son di tua bellezza

E dei tuoi bei sembianti,

Provo dolor che mai non m'abbandona.

Però chiedendo vo la tua persona,

Desioso di quella cara luce

Che sempre mi conduce

Fedel soggetto dello tuo splendore.»

E ripetevano di tratto in tratto come per intercalare:

Giovine bella, luce del mio cuore.

E a un tempo su questo canto s'intrecciavano lievi danze.

[pg!48] Tostochè messer Cino n'ebbe udite le prime parole, si volse a Lemmo con gran meraviglia; ma non potè a meno di non mostrarsene soddisfatto e ad un tempo commosso. È da sapere che questa Ballata fu composta da Cino2 : ch'ei la diede in segretezza all'amico perchè vi facesse porre la musica, e la donasse a Selvaggia, ma come sua.—Così almeno,—diceva egli—avrò in sorte, benchè ella lo ignori, che alcuni miei versi li possa cantare liberamente, o udir chi li canti presso di lei.—Non però che in seguito, mutato consiglio, egli stesso non glie li inviasse, e a lei non fossero grati; disvelandone anche l'amore con certe allusioni al suo nome, come già Dante a quel di Beatrice, il Montemagno a quel di Lauretta, il Petrarca a quel di Laura. Ma frattanto Selvaggia di questi versi ignorava affatto il vero autore; e credendoli anzi di Lemmo, pensò che a lui, che per sicuro sarebbe stato alla festa, all'udirli cantare avrebbe fatto una grata sorpresa.

Or mentre i plausi risonavano per la sala al buon esito della musica, e alla gentile che l'avea procurata; rivolta Selvaggia alle dame che le erano attorno:

—Io non voglio—con molta grazia diss'ella—che passi questa serata senza che vi proponga il giuoco della ghirlanda.

—Bene sta—replicarono esse. E i cavalieri:—Ci piace molto. Così potremo far prova della eloquenza simbolica, e della cortesia di colei che sortirà ad intessercela.

—Parmi—soggiunse ella,—che questo giuoco non meglio s'addica che a sì bel fiore di dame, e al principio del bel mese dei fiori. A noi adunque a intrecciar ghirlande pe' nostri amici.

Lemmo allora alle dame:

—Affè, che la proposta è gentile! Non vi pare che madonna Selvaggia nella gaia scienza si sia fatta maestra?

—Veramente!—ripeterono a una voce.

E fra gli scherzi gioiali si raccolsero coi cavalieri in gran [pg!49] cerchio a formare, com'era dell'uso, questa ideale ghirlanda. Ad intesser la quale doveva ciascuna ricordare un fiore o una foglia che alludesse al cavaliere cui destinavasi; e si dava lode a colei che il faceva con più d'ingegno. Dovevasi poi dar ragione perchè si scegliesse piuttosto un colore che un altro; meglio una rosa che un giacinto; mentre i fiori come le pietre preziose avevano allora un linguaggio simbolico, che resultava dalla qualità, dal colore, o dal modo di collocarli. Il verde, per esempio, indicava speranza; il rosso, amore; il bianco, innocenza. Questo linguaggio si dava ai fiori anche per cose più gravi; e un giglio situato capovolto sull'asta, vediamo in Dante che annunziava la sconfitta d'una fazione. A dar segno di timore e speranza si offeriva una rosa con le spine e le foglie. Se nulla era da temere nè da sperare, si tenea capovolta: togliendo le spine era simbolo di tutta speranza. Il fior d'arancio, se posto sul capo, indicava affanno dell'animo; sul cuore, amoroso tormento; sul petto, noia.

—Io offro—diceva Lauretta de' Sinibuldi cui toccò in sorte di dar principio—io offro al nobile messer Fredi la mia ghirlanda. Essa è tessuta di verdi foglie: perchè, che sarebbe la vita senza il conforto della speranza? Ma il fiore che solo bramo vi si distingua, vuo' che sia il giglio. A leal cavaliere qual egli è, il candore dell'anima deve in ispecial modo aggradire.

Ed egli:—Gran mercè Lauretta; voi veramente mi leggeste nel cuore!

È da sapere che messer Fredi aveva incontrato spesse volte Lauretta da sua sorella, e se n'era invaghito. Perduta la madre da due anni, era la prima volta che la donzella interveniva a lieto convegno. Non poteva dirsi un fior di beltà, ma certo di molta grazia e di senno.

Seguitando il giuoco, talora le dame si davano a pungere i cavalieri con motti curiosi e di spirito. Allorchè a sua volta toccò la scelta a Selvaggia. Essa allora volgendosi al Sinibuldi, e fattosi un poco vermiglia, così prese a dire:

—Io intesso a messer Cino una corona di lauro, e offro a lui una rosa perchè ne rallegri il suo poetico serto.—E in [pg!50] questo, toltasi dal petto una bella rosa maggese ravvolta fra verdi foglie, con ingenuo sorriso gliela porgeva.

Pensiamo se a Cino fosse grato quel dono! Gli giungeva sì inatteso, che per esprimere a cotal donatrice tutto quel che sentiva, quasi mancarongli le parole. Ma Selvaggia fu molto paga di quella sua commozione.

—Avess'ella le spine?—con certa curiosità si domandarono alcune.

—Chi sa! sicuro le verdi foglie, simbolo di speranza, non vi mancavano.

Ad ogni modo quel dono fra le giovani donne non potè dirsi non avesse destata qualche piccola invidia. Perchè è da notare che in messer Cino (con particolar cortesia da esse accolto come suolsi d'un giovine nuovo-reduce dopo un'assenza non breve), recò sorpresa di scorgere tanta affabilità disinvolta, un eloquio sì facondo e soave, e certa lieve malinconia che gli appariva nel volto, e rendevalo sì espressivo, che n'eran rimaste incantate quasi che tutte.

Frattanto che le danze si riprendevano, Cino s'avvicinò a Selvaggia, che da un lato della sala se ne stava a parlare con Lauretta di lui cugina.

—E permettete—le disse—ch'io vi ringrazi di nuovo del vostro bel dono?

—Oh! di che mai, messer Cino!...

—Da voi questa rosa!—riprese egli mostrandogliela con compiacenza.—Oh veramente l'immagine vostra! Sì, vi confesso che al mio ritorno non potevo attendermi una sorte più lieta! Sarebbe questo un augurio che per me di Selvaggia diveniste pietosa?

—No, no, non dir questo!—Lauretta soggiunse allora al cugino.—Tu non ricordi...

—Ah! credimi, Lauretta—la interruppe Selvaggia—gli uomini non ci conoscono, ed obliano facilmente! E messer Cino, per quanto sì colto e delle donne cavaliere cortese, ce ne porge la prova!

—Selvaggia!—riprese egli—e con quali argomenti, voi discreta quanto gentile, potete dir questo? Volesser le stelle che i vostri occhi, i quali ad esse somigliano, potesser [pg!51] penetrarmi nel cuore! Leggervi l'affanno crudele provato fin qui, in un'assenza sì lunga... e questa confortata soltanto dal pensiero di rivedervi! E ora!... ora che vi son presso, fedele vassallo di voi, donna unica del cor mio; ora che del vostro sguardo ho potuto bearmi... e pel vostro dono prezioso potermi dire il più felice degli uomini...

—Ma tu non lo ascolti, Selvaggia!—interruppe Lauretta, volta all'amica, che alle parole di lui si era fatta già pallida, e quasi in abbandono ed in estasi, al braccio della sua confidente. Quando di subito ravvivata, si volse ad esso, e con dolce modo gli disse:—Oh! messer Cino! non vi scordarono le mie compagne, e vi potrei scordar io?

Queste parole furon profferite, nel separarsi, con tal volger di sguardo, che al giovine amante brillaron gli occhi di gioia. Era ivi appunto in disparte e non visto Nello de' Fortebracci: all'udire gli ultimi detti e quell'amoroso incontrarsi dei loro sguardi, fece un tal gesto come d'un uom furibondo, e fuggì.

Le danze e l'allegro favellio continuavano ancora, quando Selvaggia, cui incombeva di far gli onori della festa, tornò con l'amica a prendervi parte.

Gli uomini più gravi eran rimasti a convegno nella prima sala e in altre vicine. Il capitano Vergiolesi e il potestà avevano già convenuto che non si dovesse far trapelare tra i cittadini la minaccia dell'assedio. In un giorno di tanto concorso una nuova di questa fatta avrebbe messo a subbuglio l'intera città. Perciò anche la festa doveva aver luogo, serbandone con chicchessia, coi figli stessi di messer Lippo, il più assoluto silenzio. Nondimeno, benchè si sforzassero di simularsi tranquilli, un segreto sospiro mandavano spesso dal petto, e molto affannoso!

—Che sarà mai?—ridotti in disparte dimandava il Vergiolesi al potestà degli Uberti.

—Che sarà? Gravissimi fatti questa volta ho timore!—E in pochi detti colui gli accennava le cause e ne deduceva le possibili conseguenze.

—Importa dunque di prepararvisi, e senza indugio—ei concludeva.—Ma, e il Consiglio?

E l'altro:—In breve sarà adunato.—Intanto dimane—lo [pg!52] avvertì il degli Uberti—fate che messer Cino v'informi minutamente di ciò che accadeva a Bologna. Io attendo un messo da Pisa, un altro da Firenze. Voi vedete se il tempo stringe! Dalle nuove però i consigli e il provvedere.

—Sta bene. Andiamo adesso, chè alcuno in passando non ci oda, o ne prenda sospetto.

Nell'avanzarsi, il Vergiolesi incontrava il venerando vecchio Astancollo Panciatichi, uno dei magnati ghibellini che teneva banca reale, cui dimandò:

—Vorreste voi compiacermi di qualche nuova del vostro Vinciguerra?

—Per lettere, che mi spediva l'altro ieri col mezzo degli Spini, banchieri a Firenze, so che si serba in salute, e di presente egli è in Avignone. Onori per vero a lui non mancarono dal re Filippo. Ma che per questo? Che mi fanno gli onori, che conto i guadagni che la nostra banca là in Francia ci ha procurato, se io nol riveggo? La vecchiezza m'incalza, ed ei non dà segno di farmi sperare il ritorno. Ah! voi non sapete, messer Lippo, che sia l'avere un figlio esule e da tant'anni! Un figlio amatissimo che doveva essere il sostegno di mia vecchiezza! Perduta la consorte, non mi rimane che la mia povera Oretta; buona figlia che ell'è, ma per noi dati ai negozi, non bastevole a soddisfarci, nè io a curarla come vorrei.

—Ma perchè—soggiunse l'altro—ora che gli esuli Bianchi possono rimpatriare, non viene in soccorso di voi e del Comune, che ne ha tanto bisogno?

—E' teme sempre gli inganni dei Guelfi! Troppo omai li ha conosciuti anche in Francia! Razza di vipere e' li chiama, che in Corte del papa s'annidano, e per coperte vie, e sotto il manto di Santa Chiesa si fanno strada dovunque, corrompono ed avvelenano l'Italia.

—Pur troppo, ser Astancollo! Ma noi per questo dovremo perderci d'animo? Sfidiamoli a viso aperto, e la giustizia di nostra causa alla perfine vedrete che dovrà trionfare. Oh! io, ve lo giuro! quanto a me non cederò un sol passo, e farò di tutto per impedire che qui i Guelfi ed i Neri prevalgano.

[pg!53] Nè paia strano al lettore che un medesimo tetto accogliesse a quei tempi un Panciatichi e un Cancellieri.

Della famiglia di questi ultimi v'erano soli alcuni di parte Bianca. Banditi e rifugiatisi a Pisa; trionfando di nuovo in Pistoia la propria fazione, sostenutavi dal degli Uberti, avevano potuto rimpatriare. Ma poi la fazione per quei cittadini era tutto: e all'occorrenza dimenticavano per essa, o, a meglio dire, soffocavano gli affetti domestici.

Fra questi e altri particolari era già avanzata la notte, e s'udivano i suoni più allegri, coi quali si riprendevano le danze. Erano esse la Furlana e la Veneziana, che solevan farsi in gran cerchio e a passi più concitati sul finire della festa. Ancora alcun poco e la eletta schiera, paga omai di sì gentili accoglienze, si congedava dalla famiglia.

Messer Cino, nell'accomiatarsi, era pregato dal Vergiolesi di volersi recare a lui nel giorno veniente. Selvaggia, nell'udir ciò, diè segno di tal compiacenza, che non potè celare al guardo del giovane Sinibuldi; tantochè, lieto esso pure, coi suoi amici se ne partiva.

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Selvaggia de' Vergiolesi

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