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CAPITOLO III.
ОглавлениеFIORI E ARMI.
«Quando va fuori adorna, par che 'l mondo
Sia tutto pien di spiriti d'Amore,
Sì che ogni gentil cor divien giocondo».
—— Sonetto di Messer Cino.
«Ridendo, par che s'allegri ogni loco;
Per via passando, angelico diporto,
Nobil negli atti, ed umil ne' sembianti».
—— Altro Sonetto di Messer Cino.
Da antico tempo costumava a Pistoia, come a Firenze, di festeggiarsi dal popolo nel primo giorno di maggio il ritorno di primavera. Ciò si faceva sulle pubbliche vie e nelle case, con trionfi di fiori, con giuochi, con balli, e con sollazzi di varie guise. Dopo gli ultimi eccidi per le civili discordie, e dopo gli esili di tante famiglie, i tempi a dir vero in Pistoia per pubbliche feste non pareano opportuni. Nondimeno da circa tre anni che vi fu creato il consiglio de' Posati, e per la tutela che ebbe di quel governo il Comune di Firenze, vedendo i rettori restituita alquanto di quiete alla città e al distretto, essi medesimi vollero in questo giorno ripristinare in modo straordinario pubblici rallegramenti, e far così obliare per qualche istante le passate sciagure. E il popolo, che agli spettacoli per propria indole si sente allettato; quello poi di sì forti tempre, e vivace ad un tempo, che facilmente passava dalle danze agli assalti, ignaro al tutto della nuova [pg!21] sventura che al di fuori gli si apprestava, n'ebbe caro l'invito, e concorse desioso a prendervi parte.
Ed ecco che fino dall'alba i sacri bronzi suonavano a festa. Da quell'ora, del più bel mattino d'un primo di maggio, la cattedrale riboccava di popolo, perchè era solito che anche co' sacri riti si festeggiasse questo bel giorno. Lì in quella piazza maggiore avresti veduto giungere ogni momento giovani donne, per lo più dal contado, farsi largo fra 'l popolo con volti belli e giulivi, e con a braccio ed in capo gran canestri di rose, avvicinarsi alla chiesa, e alla porta di essa presentarle a un sacerdote che le benediva. Antico costume che in Pistoia, e in questo mese, tuttora si mantiene, e che forse si volle sostituire alle pagane feste floreali. Que' fiori si vendevano poi per le vie, a mazzi e a ghirlande come un li volesse. Le rose in tal giorno avevan pel popolo un che di mistico, di lieto augurio, di benedizione, tanto che non v'era alcuno che ricusasse di farne acquisto. Al cessare del suono a doppio di cattedrale, la campana della torre grande di sul palazzo del capitano continuava a gran tocchi: e al tempo stesso le trombe marziali, rispondendo per ciascuno de' quattro quartieri della città, appellavano gli uomini d'arme alle insegne.
—Che è questo?—si dimandavano, imbattendosi per la via di S. Prospero, due vecchi cittadini.
—Calen di maggio, messeri: forse Dio! nol sapete?—replicava loro un altro sopravveniente.—Oh! alla fine mi s'apre il cuore: un po' di festa, un po' d'allegria!...
E un di quelli:
—Ma dove va' tu col capo? Oggi che han che fare i fiori con l'armi?
E porgendo l'orecchio:
—Sta'! sta'! non senti? Qui, non ti pare? si fa appello agli armigeri; il campanone suona a rintocchi.
Usciva allora dal suo palazzo lì presso, tutto chiuso nell'armatura, messer Fredi de' Vergiolesi, che avendo udito quel dialogo:—Buoni popolani!—avvicinandosi disse loro—col buon dì buona ventura gli è questa che vuo' contarvi. Sappiate che agli anziani del Comune giungeva da pochi [pg!22] giorni un messaggio del cardinal da Prato molto amico nostro, pel quale si pregava il Consiglio di non voler porre indugio a confermar nelle cariche di potestà e di capitano generale delle nostre genti il valoroso messer Tolosato degli Uberti. E questo atto solenne, in armi tutte le compagnie, si compirà questa mane.
—Ah! ecco! così va bene! benissimo!—esclamarono i tre vecchi con la massima gioia.—Viva il nostro gran capitano!
Queste esclamazioni facevan soffermare intorno ad essi alcuni giovanetti loro parenti, che per caso passavano con altri amici! e:—Come, come—dissero incuriositi—rieletto proprio il dell'Uberti?
A' quali il più vecchio poggiato ad un bastoncello, fendendo l'aria con una mano, con gravità rispondeva:
—Sì, sì. Eh figliuoli! Se non era lui! Prima col suo valore: e badate, ci vuole! poi con la nomea che si è conservato d'un'illustre famiglia: chè, vedete, non ha mai mutato parte: ghibellino sempre! Lui, e lui proprio qui fra noi ci voleva, che non del paese: perchè.... uhm! Dio ne guardi! Ma egli nobile, egli imparziale, mettesse ordine e pace; e temuto da' nostri vicini, ci desse anche con loro quel po' di riposo che da un anno e' si può dir che godiamo.
Queste giuste parole le approvavano tutti. Ma intanto avevano inteso una certa nuova, che li affrettava a separarsi: parte per proseguire verso la piazza; i più svelti poi prendendo a fretta pe' vicoli, chi da un lato, chi da un altro, per esser de' primi a informarne gli amici. E già i cittadini d'ogni età e d'ogni ceto erano accorsi al proprio armamentario o loggia, che era il corpo di guardia d'ogni quartiere della città; e fornitisi delle armi, ciascuna compagnia co' lor capitani moveva alla piazza maggiore a porsi sotto il comando del capitan generale.
In Pistoia, fino dai tempi de' Consoli, dodici erano le compagnie del popolo, divise tre per quartiere, e di tutte le persone che dalla prima gioventù alla vecchiezza erano atte alle armi, fossero nobili o popolani. Volevan con ciò che fosse dovere di tutti di custodir la città, perchè i cittadini [pg!23] non si dividessero fra loro in due classi troppo diverse; l'una, la nobilesca, agguerrita, operosa, ma fiera e arrogante, e ministra di tirannie come spesso avveniva: l'altra, la popolare, oziosa ed inerme, e troppo inclinata a una pazienza servile. Perchè infine, dicevano, nissun cittadino dev'essere agli altri terribile, ma tutti insieme farsi temibili ai nemici della patria. Esercito stanziale, siccome adesso, in questo, come negli altri Comuni, in Italia non v'era. Le compagnie armate ne facevan le veci. Potrebbe dirsi che quasi col medesimo ordine e intendimento vedemmo istituita la guardia nazionale mobile nel nostro regno. Che anzi alcuni scrittori, e principalmente inglesi e alemanni, hanno notato, esser la moderna landwehr della Prussia imitata dall'antica Ordinanza della milizia nelle repubbliche italiane; cioè dal tempo della Lega Lombarda fino all'Ordinanza del Macchiavelli, perfezionatore delle passate costumanze.
Or mentre la campana del capitano aveva appena cessato, e già la città brulicava di gente che avviavasi in piazza da ogni strada, annunziate dai trombettieri vi si vedevano entrare con bell'ordine e con belle armature le tre compagnie del quartiere di Porta Lucchese, che andavano a schierarsi fra 'l palazzo del capitano e il fianco destro del Duomo. E vi entravano quasi ad un tempo dal lato di mezzodì, e facendosi eco con uno squillo uguale di trombe, quelle del quartiere di Porta Gaialdatica. Dalla ripida via di levante, fiancheggiando il nuovo palazzo della Signoria, poco appresso salivano in piazza i militi del quartiere di Porta Guidi. Dal quartiere infine dell'antica porta di S. Andrea, allor di Ripalta, vi convenivano le ultime tre compagnie: e tutte e dodici portavan diverse e bellissime insegne; e co' santi protettori della parrocchia da cui si traevano; e con animali e fiori simbolici, ricamati in lana, in seta o in oro a colori vivissimi: tali come i cronisti ce le descrissero e come si vedon dipinte nel magnifico cortile dell'antico palazzo pretorio, ora del tribunale di questa città.
In ogni quartiere aveavi una compagnia di arcieri: le altre portavano picche e lance, e alabarde di varie forme e scudi rispondenti alle armi, dalla forma dei quali i militi prendevano [pg!24] nome di tavolaccini o di palvesari. V'erano pure in città un trecento cavalieri coi loro capitani ed alfieri. La ristrettezza del luogo non offriva però assai spazio per ischierarveli e far di sè bella mostra. Infatti la piazza del Duomo, sul lato di ponente, era limitata da una fila di case che a distanza di poche braccia sorgevano parallele ad altre; e dove, dopo 80 anni circa, fu fabbricato il Pretorio con quella semplice architettura che vi si vide fino al 1842; prima che, come di presente, fosse accresciuto d'un piano, e così perdesse in parte del primitivo carattere. Quelle case poi non furono demolite che nel 1311 per ampliare come adesso la piazza. A settentrione, dove ora si vede un'altra fabbrica non finita, detta il Palazzaccio, sorgeva il palazzo del capitano del popolo con l'alta sua torre: ad oriente la chiesa di Santa Maria Cavaliera, e un lato (il sinistro) dell'attuale palazzo del Comune che solo da pochi anni si costruiva: infine, a mezzodì, il lato destro del Duomo. Così la piazza non aveva che quest'unico dei grandiosi monumenti che ora l'abbellano; e come nelle vie principali, in luogo di pietre non v'erano che grossi mattoni a coltello.
La cavalleria o cavallata, come allora la chiamavano, era sotto gli ordini del capitano Filippo Vergiolesi. Per mancanza di spazio l'aveva schierata lungo la via di San Giovanni, e solo ne distaccava alcuni cavalieri per far ala e contenere la folla. Gli altri capitani si erano già disposti col Vergiolesi presso al palazzo del capitano generale, Tolosato degli Uberti, ed attendevano che egli giungesse.
Non furono che pochi istanti e se ne usciva sopra un bel palafreno, bardato di lucenti brocchieri; egli poi splendido per le armi. Cominciando dall'elmo, con alti e bianchi pennoncelli; usbergo, braccialetti, cosciali e schinieri erano tutti a lamine e squamme di forbitissimo acciaio, con sopra rabeschi d'oro mirabili: il petto poi coperto d'una cotta bianca tessuta d'argento con in mezzo la nera aquila ghibellina. Al suono degli oricalchi, al levarsi in alto dei bei gonfaloni ed agli evviva del popolo affollatosi di ogni intorno, moveva dalla piazza e coi principali dei militi s'avviava al palazzo del Comune. Non già a quel palazzo maestoso del Municipio, [pg!25] d'architettura gotico-italiana, che ora veggiamo, del quale non più che da 10 anni (1295) aveva posta la prima pietra il famoso Giano della Bella, quando, bandito da Firenze e qui riparatosi, piacque ai rettori di eleggerlo a potestà. Era invece l'altro antichissimo che in parte fiancheggia il lato destro di quel bel Battistero che allora da Cellino di Nese da Siena sul disegno d'Andrea Pisano da tre anni si costruiva. Il detto palazzo, che a settentrione non aveva case dinanzi, si estendeva alla piazzetta contigua, or del mercato; dal qual palazzo per certo le venne il nome di Sala. Questo nome, che serba ancora, riscontrasi le fosse dato prima del mille e forse all'epoca dei Longobardi: perchè in questa piazza era una statua di Luitprando XVIII, re loro: e questa di sala, è pur voce longobarda che significa palazzo, corte principale e resedio d'autorità.
Qui adunque su quella sua torre, di cui non restan che i ruderi, sventolava a quell'ora il gonfalone del popolo; e nella sala maggiore di detto palazzo, adunati, il gonfaloniere di giustizia coi dodici anziani e i dugento consiglieri del popolo, al capitan degli Uberti, in merito de' suoi grandi servigi, erano per confermarsi i due maggiori uffici, di capitano e di potestà. Com'egli infatti vi giunse e andò ad assidersi al banco del potestà in mezzo a suoi ufficiali, due damigelli riccamente vestiti recarono in un vassoio d'argento al gonfalonier di giustizia la bacchetta del comando, ch'ei di nuovo consegnò all'eletto. Fu un momento solenne, quando gli astanti, fatto silenzio, udirono, il gonfaloniere rivolgergli gravi parole nell'atto della consegna; essendo che anche questa volta, fuor del costume, si riunissero in lui tre grandi poteri; il civile, il giudiciario e il militare. Allora il degli Uberti si alzò, e con lui tutti; e distesa la destra sul libro degli evangeli che gli stava dinanzi: «giuro (pronunziò a voce alta) di difendere e mantenere la città di Pistoia e il suo distretto secondo che gli Statuti comandano: particolarmente di tutelare gli orfani e le vedove; le chiese e gli spedali e tutte le altre ragioni di religiosi, di pellegrini, di mercatanti, rimosso odio e prego, e tutte malizie da questo dì a un anno.» Quindi i giudici e tutti i suoi ufficiali che gli facevano [pg!26] corona, distese le destre, ripeterono a una voce: «giuriamo!»
Dopo ciò, il nuovo eletto disceso col seguito nella piazza, a piede, fra la folla plaudente, si diresse alla cattedrale. Le trombe del Comune squillavano: le campane suonavano a festa. Lo accompagnavano gli anziani, vestiti in lucco di color rosa e ricami in oro, calzatura di scarlatto, e berretta di velluto chermisi guernito di perle e di una candida piuma. Appresso gli ufficiali suoi ed i consiglieri; aggiuntivi ora gli operai di Sant'Jacopo. Procedevano i tavolaccini del Comune vestiti di verde, che, accennando con un'insegna, sgombravano la via. Seguivano i trombettieri, le cui lunghe trombe d'argento erano adorne di una banderuola bianca con in mezzo l'insegna del Comune, la scacchiera bianca e rossa, con fregi e nappe d'oro: ed essi pure in abito di gala, e con in petto una larga piastra d'argento incisavi la detta insegna. Un buon numero di mazzieri con mazze d'argento, vestiti di rosso e di bianco, ne chiudeva il corteggio.
Alla porta del tempio, il degli Uberti, ricevuto dal clero, fu da esso accompagnato all'altare di Sant'Jacopo. Là, il venerando vescovo della diocesi, messer Bartolomeo Simibuldi, orando, attendevalo. Un altro giuramento, secondo, gli Statuti, doveva profferire dinanzi a lui. L'opera di Sant'Jacopo custoditrice della celebre sagrestia de' belli arredi, per le molte ricchezze da amministrare e per la sua dignità, era allora in Pistoia una nuova magistratura. Giunto appena il degli Uberti alla cancellata della cappella, il vescovo lo invitava ad entrarvi. E lì, a piè dell'altare del grande patrono, presenti i detti operai, posta la destra sugli Statuti di detta opera, i quali un chierico sopra un guanciale gli presentava, «giuro, egli disse, di offerire all'altare del messer baron Santo Jacopo un pallio di lire dodici di pisani, il giorno di sua festività.» Allora il prelato solennemente lo benedisse.
Uscito di cattedrale, era di nuovo a cavallo in mezzo agli altri cavalieri nella piazza maggiore. Arrestatosi dinanzi al proprio palazzo fra le cittadine milizie che gli facevano ala, un banditore, dati tre squilli di tromba, a gran voce annunziò al popolo che, per volere dei magnifici signori e [pg!27] consiglieri del Comune, messer Tolosato degli Uberti era stato confermato negli uffici di potestà e di capitano generale delle armi. Un grido universale di lieti evviva scoppiò allora da ogni lato. I cittadini erano omai assuefatti a scorgere in lui la propria gloria e la propria difesa!
All'uscire d'ufficio di ogni capitano del popolo costumavasi che, quando avesse egli ben meritato della repubblica, il Comune lo presentasse di un ricco dono. Ora, sebbene l'Uberti sull'uscire vi fosse subito confermato, il Consiglio del popolo non volle passarsi di far quest'offerta a un personaggio sì degno. Quand'ecco, com'era dell'uso, venire a lui due giovani delle primarie famiglie sopra bei palafreni, portando in alto l'insegna del Comune. I quali, come gli furono rimpetto, prima agitarono i gonfaloni e li piegarono dinanzi a lui: poi, accostatisi, gli presentarono a nome della città, in due vassoi d'argento che i donzelli del Comune porgevano loro; l'uno un pennone, una targa, una barbuta ed un cappelletto con la corona d'oro; l'altro un mesciroba con otto tazze d'argento; il tutto, come narrano le cronache, della valuta di trecento fiorini. In questo mentre gli alfieri agitarono le insegne, i capitani brandirono le spade, e ogni milite levò in alto le lance e gli scudi, facendo così un saluto d'onore al valoroso lor duce. Rispose egli al saluto; e passate in rivista le schiere, con nobili parole le congedava.
Bello e gradito spettacolo fu allora a vedere il marciare animoso di quei militi cittadini nell'uscir dalla piazza fra i lieti suoni delle trombe, e il dividersi come raggi dal centro per tante file, e il luccicar di quegli elmi e di quelle armi, fatte ora più splendide pel sole già alto e promettitore di una bella giornata.
Non appena infatti avevano i baldi giovani depositato alle proprie loggie l'armatura e le armi, che i più, ripreso il saio e la cappa, si davano a raccorre le apprestate corone; e ciascuno alla casa della fanciulla che più gli aggradiva, dove non l'avesse fatto sull'alba, si recava ad appendervi il maio fiorito. Nelle famiglie gelosi riguardi per le proprie figliuole, o pregiudizi fra 'l popolo in quel giorno non v'erano. Cotesta si aveva per un'usanza cavalleresca, e come un culto [pg!28] che ogni giovine dabbene intendeva di rendere al gentil sesso. Il costume era pubblico, e nessuno per certo avrebbe avuto a ridirvi.
Ma già un maio più bello richiamava su quella piazza l'ammirazione di tutti. Era questo un alberello fronzuto di foglia lucida e sempre verde, che ha nome fra noi d'albatro corbezzolo, e che soleva prescegliersi perchè appariva come simbolo di una continua fecondità, portando a un tempo bianchi fiorellini e picce di rosse frutta. Tagliato al mattino sulla collina presso Vergiole, e sfrondato in basso per circa tre braccia a fine di poterlo portare, era stato pensiero di alcuni giovani di adornarne la chioma con piccole corone e molti mazzetti di fiori, legati con nastri color di rosa dei quali avevano cinto anche il fusto. Si sapeva però che l'apprestamento veniva tutto dalle Compagnie delle arti maggiori e minori; dei medici e degli speziali, ecc.; come de' cimatori, degli armaioli e degli artigiani della seta e della lana: di questi in particolare in maggior numero nella città. Tutti quelli che vi appartenevano, cotesta mattina gli avresti veduti con vesti di vari colori e di foggie assai strane, e tutti a far capo intorno a bel maio coi lor gonfaloni. Si era deliberato doversi andare a piantare con gran corteggio fuor della porta di Ripalta, sul prato grande di Santa Maria Maddalena, ora di S. Francesco. E infatti come si furono radunati, vi si condussero con quest'ordine.
Andavano innanzi, aprendo il corteggio, gli araldi delle Compagnie di ciascun'arte, sopra cavalli bardati in foggie tutte bizzarre, come le vesti loro; parte suonando le trombe, parte i tamburelli; e ciascuno con una piccola banderuola in asta che sorpassavagli il capo, portante l'insegna dell'arte propria. Seguivano poi a piede, riccamente vestiti, i rettori delle arti maggiori coi loro componenti e coi loro gonfaloni, tutti intorniati di fiorite ghirlande. Nel centro appariva il gran maio portato in alto da un nerboruto garzone vestito di rosso, cui facevan corona giullari saltanti che percotevano nacchere e sistri: quindi una schiera di senatori di pifferi, di flauti, di nacchere (una specie di timpani), di cenamelle (stromenti a fiato) e di mandolini. Poi un'altra di sonatori [pg!29] di cembali, di crotali, di viole, di arpicordi, di trombe, di cornamuse, che dividevano il gruppo dei cantori delle ballate. Si chiudeva il corteggio coi rettori delle arti minori, loro consorti e gonfaloni; cui dietro faceva pressa una festante popolazione. Lungo la strada non era tabernacolo sacro che non avesse accesi più lampadari, e non fosse attorniato da festoni di freschi fiori. Costume che in questo giorno nella città si continua sino a' dì nostri, coi così detti altarini di maggio. Non v'erano balconi che non si vedessero adorni di tappeti e di ghirlande, e gremiti di spettatori. Fra i quali vi facevano bella mostra le gentili donne, che coi loro sorrisi davan segno di saluto e di compiacenza alla sollazzevol brigata.
Inoltratisi poco fuor della porta, verso il mezzo di un'ampia e verde prateria tutta fiori di primavera, ivi come in suo degno luogo stabilmente collocarono il maio. Subito un gran cerchio vi si formò torno torno dalle genti delle Compagnie. E allora i suonatori, che vi stavano in prima fila, diedero principio ai concerti. Una schiera poi di giovinetti, con vesti a vita e a striscie bianche e rosse e berretti piumati, incominciò su quei suoni a modulare questa graziosa canzone. Era di Guido Cavalcanti, e diceva così:
Ben venga maggio
E il gonfalon selvaggio!
E a me consenta Amore
Di primavera mia
Goder l'almo colore,
Goder la leggiadria
Quanto l'occhio il desia,
Quanto più splende il maggio.
Or mentre fra gli evviva i più lieti, era ripetuta e avvicendata con altre strofe e coi ritornelli degli strumenti, ognuno, ascritto alla Compagnia delle arti, profittava del privilegio di staccare dall'albero un mazzetto di fiori, lasciandovi le corone che v'erano poste per ornamento. E allora avresti veduto quei giovani penetrar fra la folla per adocchiar le fanciulle più loro simpatiche e più avvenenti (in quel giorno tutte ben messe in abito da festa e cinte il capo di fiori) e offrir loro il mazzetto.
[pg!30] Bisogna dire che chi fosse stato in quell'ora su i bastioni delle mura vicine, vi avrebbe goduto del più bello spettacolo. Per quella gran prateria primieramente un brulichio di gente infinita; ma un agitarsi senza disordine; come un cantare e gridare, e qua un suon di trombe, là di tamburi; ma quei canti e quei suoni e tutto quel movimento non essere infine che una viva espressione di gioia.
Sarebbe stato un vedervi sorgere qua e là banderuole infiorate, quasi tanti punti di centro: e trabacche di venditori di vino e di commestibili, dove il popol minuto già s'accalcava; perchè d'ogni parte e di continuo andava crescendo, tanto più per que' che giungevano dalle vicine campagne. Non vi sarebbe stato dentro le mura un luogo sì ampio per raccogliervi tanta gente, benchè allora anche più vasto di quel che adesso. Perchè questa storica piazza non aveva in quel tempo per confine a sinistra che la gran chiesa di S. Francesco, però non compiuta, essendo in costruzione da soli 10 anni (1294). Sul lato destro non eravi alcuna casa, tranne una chiesetta di S. M. Maddalena giù in basso, con poche case del sobborgo, racchiuse poi nel terzo cerchio. Non aveva, gli è vero, nè un terrapieno arborato, nè la regolarità che adesso; acquistava però una certa vaghezza dalla sua maggiore estensione, e dalla cura che si aveva, che, destinata fin da antico a' tornei, alle giostre e a' pubblici diporti, vi fosse il prato ben mantenuto; e gli alberi, sebbene in gruppi irregolari dai lati ed in fondo dove il terreno più rialto si prestava al riposo, gelosamente vi si conservassero. Non essendo poi limitata, come ora, dalle mura urbane, era bello potervi scorgere fra mezzo le piante le più fronzute l'aperta campagna fino alle circostanti colline, e godervi così il vario e quasi sempre sorprendente spettacolo del sole al tramonto.
Era già oltre il mezzo del giorno e il cielo non poteva esser più limpido e l'aria temperata di più mite calore. La gente raccoltasi a gruppi qual sotto gli alberi o sotto le tende, omai posava sull'erbe e su i fiori, e si rallegrava al sorriso delle sue donne e al comune tripudio. Era questa, può dirsi, la festa più popolare di quella stessa, benchè più solenne, ma più nobilesca, del loro patrono il messer barone [pg!31] Santo Jacopo. Colà tutti mangiavano e bevevano insieme, e intonavano le più allegre canzoni.
Dalle Corti, come già in Sicilia, la poesia in Toscana era passata fra 'l popolo. Il suo carattere, in ispecie qui, fu un commisto d'arte pudica e di naturalezza, finchè il reggimento fu democratico, e geloso del buon costume. Solo i poeti che succedettero, imitando servilmente il Petrarca, impoveriron d'assai l'espression dell'affetto. Nè solo prevalse lo spirito pedantesco; ma alle caste canzoni di Dante, di Cino, e del Cavalcanti, cui s'informarono certi canti popolari toscani, tenner dietro le spensierate ed epicuree di Lorenzo il Magnifico, e di altri nell'epoche posteriori. Nè è meraviglia; se si rifletta che prevalenza fino dal quattrocento ebbe in Toscana la letteratura greca e romana; e più che al buono ed al bello che vi splendeva, si tenesse dietro al licenzioso costume del paganesimo. Ma poi, perchè anche questa delle straniere signorie era arte di regno;—corrompere per dominare!—e la corruzione delle lettere e de' costumi preparò allora, e preparerà sempre la servitù! Invece, al tempo di che parliamo, fra un popolo libero e di nobili sensi, non udivansi intonare che canzoni gentili. Qua un drappello di giovinette cinte il capo di fresche rose, adagiate in famiglia su molle strato e alle bell'ombre, cantava sul liuto una ballata di messer Cino; là un'altra di Guitton d'Arezzo. E d'appresso, sopra un pratello rialto ed ombrato, amorosi garzoni rispondevan loro con quelle dell'Alighieri:
«Donne che avete intelletto d'amore».
Tutto spirava serena giocondità. In cielo e in terra, dovunque parea festa e contento.
In varie parti accanto alle trabacche de' venditori de' commestibili, o d'ornamenti e gingilli, si faceva un largo di persone, dentro del quale avresti veduto un saltimbanco dar prova d'agilità delle membra; ora piegandosi in strane guise, ora saltando e facendo lazzi per destare l'ilarità.
Qua un conduttore di cani, che ritti su due piedi li tenea giocolando, e un'accorta scimmia in farsetto rosso buffoneggiava proprio d'intorno. Là una gran gabbia dove si facevan [pg!32] veder pappagalli di vari colori, che sia con l'aspetto o con li strani lor gridi (a male agguagliare come certi uomini) facilmente per poco danaro pascevano la curiosità de' più gonzi.
Di già era l'ora che al suono allegro degli stromenti, e per una piccola moneta ai sonatori, si concedeva a ciascun popolano di fare cinque o sei giri di frullana o di veneziana, di moresca o di trescone intorno al maio con la propria donzella. La cerchia degli astanti soleva ogni tanto far plauso ai più agili danzatori: in specie quando in quest'ultimo ballo precipitoso si vedevan confondersi vesti di mille colori, e volti di grazia e di colore modesto, e chiome brune e bionde all'aura sparse, e occhi vispi e lucenti apparire e sparire in que' vortici.
E a godere di queste danze soleva intervenire negli anni lieti anche la classe de' nobili. Nè questa volta mancarono. Importava loro, or più che mai, per quanto l'abituale orgoglio in molti pur sempre vi ripugnasse, di mostrarsi al possibile più popolari: sì perchè era stata lor contrapposta, per conseguire gli uffici, la istituzione delle arti: sì infine per mantenersi il popolo sempre più fermo e fedele al loro partito. Per lo che a quell'ora vespertina li avresti veduti incamminarsi a brigate fuor della porta; e per cortesi modi e parole, via via farsi largo di mezzo alla folla.
In una di tai brigate era anche il gentil poeta Guittoncino, poi detto sempre Cino de' Sinibuldi. Inoltratosi fra la gente insiem con gli amici, si trovò dinanzi a un gran circolo di persone; dove, in mezzo e presso un'asta piantata in terra con la insegna della scacchiera (lo stemma del Comune, come abbiam detto), vedevasi un giullare, vestito a scacchi per far più breccia nel popolo; con strana berretta rossa, ed in più colori la veste; con la viola da tre corde che gli pendeva dal collo, ed il bossolo della questua dalla cintura.
Cotesta razza di buffoni e di cantastorie brulicava per tutta Europa. Campavano generalmente alle spalle dei gran signori, o dei Comuni (e anche quel di Pistoia ne aveva allora uno suo, denominato Gazzino) ed erano il trastullo di tutte le Corti bandite. Recavano da un paese all'altro novelle di [pg!33] pubblici casi e privati, in mancanza di gazzette e di chiacchiere a stampa; e per questo, e perchè con arguti motti pungevano e destavano il riso, erano, si sa, accarezzati da tutti. Nelle parti però di Toscana, dove il feudalismo, più che altrove, andava scemando, e Corti non v'erano, se ne contavano pochissimi. Costui infatti era venuto di Lombardia e dimorava da qualche tempo in Firenze. Il quale, come seppe di questo straordinario concorso, vi venne subito per tentare un guadagno. Eccolo là infatti, che, dopo aver raccontato le novelle ed i romanzi più strani della Tavola Rotonda e di Guerrin meschino, si aggirava col bossolo fra gli astanti, e, dandosi a questuare con lazzi e parole le più scimunite, aveva raccolto di già buona messe; ma qualche altro tornagusto gli bisognava per alletare. E credette di averlo trovato col cantare alcuni versi di Lemmo da Pistoia, uno degli ultimi e più amabili trovatori che allora vivessero. Annunziava con magnifiche parole, e per far più colpo, essere questi versi di un pistoiese, e messi in musica da quel Casella, eccellente cantore e maestro in quest'arte, e l'amico del famoso poeta Alighieri.
E la canzone, ch'ei stava cantando, incominciava così:
«Lontana dimoranza
Doglia m'ha dato al cor lunga stagione.»
Ma, come messer Cino l'ebbe udito alcun poco, preso da sdegno di sentirsi guastare con un accento il più strano e con indicibili storpiature quelle belle melodie e que' versi di Lemmo amico suo, non potè regger più oltre. Si fece innanzi al tristo giullare, lo riprese aspramente, e gl'impose silenzio. Non è a dire se plaudissero tutti, in particolare le nobili donne a questa difesa del buon trovatore! Quando poco discosto un altro spettacolo attraeva la loro attenzione.
Trattavasi di un astrologo, che si spacciava anche per alchimista e gran fisico. Montato sopra una tavola ingombra di barattoli, era appariscente per la sua nera veste talare, listata di rosso col campo a stelle d'oro, pel suo alto cappello nero a guisa di cono, e per una gran barba che gli scendeva fino al petto. Con una bacchetta, che dicea misteriosa, [pg!34] accennava da prima un gran libro tenuto aperto nella sinistra, che vantava contenere i più rari segreti di quel celebre Zoroastro, inventore dell'arte magica. Ivi, secondo il sistema di Tolomeo, erano delineati i pianeti: ed ei ne dava ad intendere le virtù e gl'influssi sopra il globo terraqueo (immobile, com'ei diceva) e sopra gli uomini: potere ed influssi comunemente creduti anche dai più colti di quell'età. Certo che per vane ed ampollose promesse non avrebbe ceduto in ciarlataneria ai prestigiatori, ed ai medium dello spiritismo dei nostri tempi.
Ma quel che aveva da destare una certa curiosità, era una cassetta con una gran collezione di pietre preziose e di gemme, delle quali come amuleti già fino ab antico fu fatto grande uso in Oriente, d'onde la gran quantità di pietre incise, che ancora ci avanzano, della China, dell'Assiria e di Babilonia, e che egli poi di tutte queste, secondo la teoria, che in allora correva, del provenzale Pietro de' Bonifazi, ne indicava le particolari virtù.
Or via via additando con la bacchetta ciascuna, così cominciò a dire:
—Vedete! Il diamante ha virtù di render l'uomo invincibile; l'agata d'India o di Creta lo fa buon parlatore; l'ametista resiste alla ubriachezza; la corniola pacifica l'ira e le pubbliche liti; il giacinto provoca il sonno; la perla reca allegrezza nel cuore; il cammeo vale contro l'idropisia quand'è intagliato; il lapislazzuli posto al collo de' fanciulli li rende arditi; l'onice d'Arabia e d'India rintuzza la collera; il rubino, sospeso al collo quando si dorme, caccia i pensieri fantastici e noiosi. Affermava che se l'uomo sarà casto avrà sperimentato la virtù del zafiro e del sardonico: lo smeraldo tien viva la memoria e rende l'uomo giocondo; il topazio (chiamato da Plinio crisolito o pietra d'oro) raffrena l'ira e la lussuria; la turchina ci guarda dalle cadute. Ti vuoi rendere invisibile? hai l'elitropia; preservarti dai pericoli? hai l'aqua marina. Il corallo si oppone alle folgori, e l'asbesto al fuoco. Aggiungeva che il berillo fa innamorare; il cristallo estingue le sete dei febbricitanti: la calamita attrae il ferro, e finalmente il granato reca gioia e contento.
[pg!35] Dopo questa gran filastrocca di prodigiosi trovati per raccogliere intorno a sè gli avventori, veniva alla parte per lui più stringente, offrendo in vendita a ciascuno certi suoi particolari specifici. Si sbracciava a narrare quanti mai ne avesse spacciati a Firenze; tanto che si augurava in Pistoia un esito non men fortunato. Ma il vero volpone per guadagnarsi denari e partigiani era giunto in mal tempo. La turba de' gonzi, in specie della campagna, che potea dargli ascolto e comprare in suoi farmachi, era quasi tutta avvinazzata; e tranne che di liquori e di canti, a quell'ora potevi sgolarti, non volea saper d'altro. Sicchè deluso del suo guadagno, irritato che i più attendessero al giullare vicino, si rivolse al circolo del rivale, e a quell'insegna del Comune di Pistoia (la scacchiera) che eravi eretta, e come in tono profetico in questa guisa esclamò:
—Bene sta! gioite, gioite! Ma io leggo già nelle stelle; e su quella scacchiera in luogo di un cavallo e d'una torre, vi scorgo un leone e una pantera; (voleva alludere al Leone di Firenze, e alla Pantera di Lucca) e i giuocatori azzuffarsi e venire al sangue, e... e...
—E che vuoi dirci con questo, eh?—interruppelo un popolano che s'era accorto dell'infausta metafora.
—Venisti forse a portarci il malanno? Fuori di qua, brutto uccello di tristo augurio.
—Fuori, sì, fuori!—un dopo l'altro, e poi un grido di tutti.
—Fuori, e t'affretta!—soggiunse un nobil messere—o ti faremo far la fine del tuo insatanassato Guido Bonatti. Qui non si vuol Guelfi a insultarci!
—Non si vuol, non si vuole! ammazza, ammazza!—da' più risoluti si cominciò a gridare.
E già qualche stile era uscito dalla cintura, quando a un tratto s'udì esclamare:
—Eccoli! eccoli!
—Dove? chi sono?—si ripetè in un subito da mille voci: e non altrimenti che in un campo di grano le spighe sommosse dal vento, fu un piegarsi di mille teste da' berretti rossi o dalli scuri piumati, e andar tutti verso una parte. [pg!36] Distratta così l'attenzione di costoro per altro lato, bastò l'incidente per dar tempo al mal capitato impostore per chiuder la cassetta, porre tutto in un sacco, e svignarsela a gambe. Intanto quell'onda imponente di popolo spingendosi in giù per consenso fino dall'alto della prateria, come trovasse una diga venne ad arrestarsi allo sbocco della via del sobborgo.
Ma chi eran coloro che potevano così all'improvviso richiamar l'attenzione e gli sguardi di tutti?
Lasciato il proprio castello per tornare in città, appunto in quel momento v'entrava a cavallo, e passavasi in fondo del gran piazzale la famiglia de' Vergiolesi. Una vera dimostrazione di general gradimento l'accoglieva sul suo passaggio. Ell'era amata e reverita generalmente: perchè fra le pistoiesi, se non delle prime per larghezza di censo, certo era delle più nobili per blasone, in que' tempi di qualche prestigio; ma poi insieme delle più popolari per affetto operoso alla testa del partito de' Bianchi, quello dell'intera città.
Procedeva la cavalcata con innanzi i tre figli: di seguito il capitan messer Lippo, e a sinistra sua moglie, su due magnifici morelli: dietro, in due coppie, i quattro loro scudieri. Nell'inoltrarsi fra tanta gente, e fra le voci di giubilo che s'udivano d'ogni parte, anche i cavalli si mettevano in brio: e a stento si sarebbero frenati, massime quelli dei giovani, due vivacissimi baio-fuocati, se non avessero avuto così validi cavalieri. Ma popolo e nobili che li attendevano, la gioventù in particolare tutt'accorsa sul loro passaggio, non rifinivano di salutare que' che venivano in prima fila, cioè a dire, gli amabili cavalieri messer Fredi, e messer Orlandetto, e in mezzo loro Selvaggia, la gentile sorella. Cavalcava essa con baldezza e leggiadria singolare un generoso destriero bianco come la neve, che quasi consapevole del pregio di colei che portava, caracollando, scoteva altera la testa, ma senza darle ombra di minor sicurezza. Un semplice abito di tessuto in lana color di rubino, stretto alla vita, dalla cui cintura di cuoio lucido con borchie dorate pendeva una borsa di velluto verde trapunta in oro: in testa poi una berrettina di velluto nero con bianca piuma da un lato, da dove un velo [pg!37] bianco le scendeva sugli omeri e in balia dell'aria si sollevava, davano maggior risalto alla bella persona. Inchinavasi ella in passando agli amici della famiglia, e insiem co' fratelli pareva dicesse loro con gioia: «A rivederci a questa sera.» E fu notato come il saluto fra Selvaggia e messer Cino fosse ricambiato vivissimo, e quale fra chi con gran desiderio si cerca e s'incontra. Chè molti omai si erano accorti dell'affetto particolare del giovine verso di lei: e certi anche amici, o per invidia, o per poter dire di aver interpretato alcuni suoi versi, lo reputavano il fortunato amatore.
Or mentre una sì lieta accoglienza li accompagnava fino alla porta della città, il baccano, il tripudio e i canti del popolo crescevano a dismisura. E già, fatta sera, si vedevano accendere qua e là per l'estensione di quel vasto terreno alcuni falò, e i briosi ragazzi porvi su delle stipe, attizzarne il fuoco, e schiamazzarvi d'attorno.
Intanto poco a poco la gente abbandonava il piazzale e tornavasi alle sue case: molti poi della campagna in grande allegria tenevan dietro a brigate di cantamaggi e di sonatori. I quali, durante cotesta notte e fino alla prima alba come in quella decorsa, andando per la pianura o scavalcando poggi e colline, si recavano a far serenate, e a piantar maggi di casolare in casolare, d'un villaggio ad un altro, innanzi alle case di vaghe fanciulle: per parte, s'intende, de' loro dami, che solevano guidarveli, e che al poeta improvvisatore indicavano il nome di esse, e il tema di lode per la famiglia. Quegli stessi falò come segni di gioia si vedevano giro giro pel territorio, in piano ed in poggio. E fra tante castella che tenevano parti diverse, benchè il contado molto dipendesse dalla città, poteva dedursi da quelle baldorie la indicazione de' luoghi dove abitava la famiglia od un popolo del partito de' Bianchi e de' Ghibellini.
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