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IV

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— Vedete, Giorgio, — disse Maria Dora, — mi sono lavata i capelli stamane.

— Lo so, mia bella cognatina. Mentre alla finestra li asciugavate, ho veduto i vostri capelli sciolti, ed accecato da quello splendore, stavo quasi per mandarvi ad alta voce un complimento.

— Ah, sì? Un complimento non è mai di troppo! Ditelo dunque ora, se non è una bugia.

Ella cinguettava con il cognato per distrarlo, per farlo sorridere nella sua tristezza.

— Ci tenete, proprio?

— Ma, certo!

— Ebbene, volevo dirvi: — Cognatina, è il sole che splende, o siete voi, con i vostri capelli, che mettete tanto oro nel mattino? — Questo è il complimento; vi piace?

— Per bacco! — ella fece con arguzia; — davvero è fino: fino come un madrigale. Pare impossibile che sia vostro! Dove l'avete letto, Giorgio?

— Oh, Maria Dora! — egli esclamò sorridendo; — non mi credete nemmeno capace di una cortesia così facile?

[pg!56] — Non è poi tanto facile, via!... Sopra tutto per un ingegnere! Se mi aveste detto, che so io... per esempio: — Cognatina, i vostri capelli splendono stamane come le rotaie della strada ferrata... — ecco, lo capirei! Ma così, come l'avete detto, così bene, così pulito... no, francamente, puzza di letteratura! Oh, intendiamoci, non è per offendervi, chè anzi ve ne ringrazio.

— Ebbene, sia come volete; non ci bisticceremo per così poco. L'essenziale è che vi siete lavata i capelli, e che i vostri capelli sono d'un'abbondanza davvero straordinaria.

— Novella ne ha più di me.

— Forse; ma di un altro colore. Dov'è Novella?

— Non so, — ella fece con esitazione.

— E Andrea?

— Andrea sarà forse rintanato in camera sua. Da qualche giorno è divenuto ancora più inavvicinabile di prima. Che bizzarro uomo! Non pare anche a voi, cognato? Io, quando lo vedo, ho sempre voglia di gettargli un pezzetto di zucchero come si fa con i cani da guardia per entrare nelle loro grazie.

Egli fece con la mano un gesto vago, ma sorrise tuttavia di quella irriverente opinione.

— Andrea è un uomo d'ingegno, — disse con lentezza il malato. — Le nature come la sua peccano sempre di qualche singolarità.

— Ma egli è singolare in tutti i sensi, e più lo si conosce, più lo si trova bizzarro! Sapete, — ella seguitò con il suo parlar volubile, — sapete che mi faceva la corte?

— Ah, sì?

— A modo suo, beninteso; con certe sue maniere un po' ironiche... ma è fuor di dubbio che mi facesse la corte. Bene, ora invece, da cinque o sei giorni, non mi parla nemmeno più: se ne è dimenticato. È seccante, vi pare?

— Questo non saprei, cognatina. Vi auguro in ogni modo che ricominci, — egli disse in tono di celia.

[pg!57] — Bah... lasciamo stare!

Seduta vicino a lui, ella ricamava in fretta, però con una sbadataggine estrema. Ogni tanto guardava il malato, ch'era disteso nella seggiola a sdraio, coperto di scialli; e lo guardava nel mezzo del parlare, o facendo altra cosa, perchè l'infermo non si avvedesse de' suoi pensieri.

Lo trovava miserrimo, ogni giorno più stremato, più povero di vita. Nella faccia angusta gli si erano dilatati gli occhi e sporgevan dall'órbite come fossero gonfi, in un cerchio di lividore. Le pupille dilatate, scialbe, acquose, nuotavan in un siero azzurrastro; talvolta si appannavano visibilmente, come una lama al calor del fiato. Quando sorrideva, i denti parevan cresciuti: la gengiva superiore gli si scopriva, congestionata sotto l'orlo del labbro, e quasi livida. Su la pelle arida gli si formavan certe macchie di color scuro e spesso due strisce rosse gli accendevan la fronte, equidistanti, fra le tempie concave. La sua mano divenuta nivea, spesso, nel cercare un oggetto, brancolava un poco.

— Non vi sentireste, — gli domandò la fanciulla, — di uscire nel giardino? Fa così tepido fuori.

— Oh, no, Maria Dora! Non mi sento proprio di alzarmi. Se sapeste che fatica mi costa muovere un passo!

E si rannicchiava negli scialli, poveramente, come un intirizzito. In quel mentre papà Stefano tornava dalla fattoria, col suo cappellaccio di paglia ficcato di traverso, la sua giubba da cacciatore. Era un bel vecchio, aitante ancora, solido e bronzeo sotto i suoi capelli d'argento; serrava tra i denti la pipa stracarica, ingoiando enormi boccate di fumo con una specie di golosità. All'odor del tabacco, Giorgio si mise a tossire.

— Ahi!... me ne dimenticavo, — esclamò Stefano con premura.

E soffocato il fornello col póllice, si cacciò la pipa dentro una tasca.

[pg!58] — Fuma, fuma, — lo esortò Giorgio.

— C'è tempo! Veh, che brava Maria Dora! gli tieni compagnia.

— Si discorre di tante cose, godendo il bel sole. Frattanto ricamo, ricamo. A furia di ricamare mi sarò preparato un corredo bellissimo. Non manca più che il marito. — Fece una pausa: — Il marito... parola eroicomica!

E si mise a ridere di quel suo riso trillante, che le gonfiava la gola.

— Oh, eroicomica!... — esclamò il padre. — Tu non sai quello che dici.

Ella non volle insistere, anzi mutò discorso:

— Papà, ora te ne racconto una bellina. La Berta se ne va!

— La Berta?

— Sicuro, e adesso verrà lei a dirtelo. Va via perchè... oh, debbo ridere!...

— Insomma lo vuoi dire o no?

— Ora te lo racconterà lei stessa, perchè io... — e rideva, — io... — e rideva più forte.

La Berta, che lo aveva inteso entrare, giusto era venuta su l'uscio.

— Ehi, tu, fatti pure avanti! — comandò il burbero padrone. — Sentiamo: cosa c'è?

La fantesca si avanzò di qualche passo, impacciata, con gli occhi bassi, slacciandosi il grembiule. Stefano si tolse il cappellaccio di paglia e lo buttò sopra un divano. Siccome cadde a terra, la fantesca, per far qualcosa, andò a raccoglierlo. Con quel cappellaccio in mano, e per il fulvo della sua chioma e per il vermiglio delle sue gote, pareva più buffa che mai.

— Dunque la sciogli o no quella tua maledetta linguaccia?

— Dica lei, signorina... — ella balbettò vergognosa.

Maria Dora se la godeva un mondo e non aperse bocca.

[pg!59] — Che signorina d'Egitto! — borbottò Stefano, con quell'aria terribile che sapeva darsi nell'amministrare la giustizia fra i suoi dipendenti. — Spìffera tu!

La fantesca si fece cuore:

— Signor padrone, ho deciso di andarmene via...

— Buon viaggio!

Ma egli non si mosse; ella neppure.

Dopo un breve silenzio papà Stefano disse:

— Oh, e perchè poi?

— Lo domandi alla signorina.

— La signorina non c'entra.

— E allora lo domandi al signorino...

— A chi?

— A quello lì... — ella fece, scostandosi impaurita e segnando col dito Marcuccio, ch'era venuto su la soglia nell'udir quelle voci.

— Sì, a lui, proprio a lui... — ripeteva cocciuta la fantesca, segnandolo a dito. Si era fatta rossa, quasi paonazza come una melagrana, ed aveva le lacrime agli occhi. Papà Stefano abbandonò quel tono di accigliata canzonatura, si fece grave:

— Sentiamo: cosa c'è stato?

— Certe cose, certe cose, padrone... — piagnucolava la Berta.

Lo scemo cominciò a sghignazzare ed a contorcersi contro lo stípite; allora ella, fattasi ardita, sciolse lo scilinguagnolo.

— S'immàgini che non mi lascia stare un momento. Mi tocca, mi provoca, mi salta addosso... Poco fa mi ha fatto bruciare il lardo! Ne ho abbastanza! Guardi un po' che pizzico!

E si fece avanti, squadrando con occhi nemici lo scemo, che sempre sghignazzava; si rimboccò una manica fin sopra il gomito e mise in mostra un bel lividore.

— Dio! come fai la schizzinosa... per un pizzico! — esclamò Maria Dora con perversità. Ma la Berta non s'interruppe nemmeno.

[pg!60] — Poi sentisse cosa dice, padrone!

— Andiamo, andiamo... — borbottò Stefano, conciliante.

— Insomma pensi che la notte mi devo chiudere in camera a chiave!...

— Ohibò!... — fece Maria Dora con la sua vocetta maliziosa.

Allora lo scemo si fece avanti, serio serio, con una grande aria di cerimoniale; drizzò su le gambe lunghissime la sua persona sbilenca e disse in tono declamatorio:

— Infatti, caro padre, ho deciso di prender moglie. Quello che ti racconta costei, non importa. È venuto il tempo che mi debba maritare: ventitre anni ho, padre.

La ragazzotta, paurosa, corse in un angolo e scioccamente incominciò a piangere.

— Costei, — riprese lo scemo, — costei non intende. Piange? Perchè piange? Le ho detto: — «Sei grassa e rotonda; mi piace l'odore del tuo collo, dove nascono i tuoi capelli rossi. E quando scopi mi piaci, perchè la tua sottana dondola e sta bene. Sposiámoci, Berta; voglio vedere se sei fatta come una donna.»

Allora il padre s'avvicinò a lui, posandogli una mano su la spalla; e cercava di persuaderlo amorosamente:

— Questo che dici non è bene, Marcuccio. Lascia stare la Berta; va e scrivi.

— Non ora, padre. Debbo raccontarti ogni cosa prima delle mie nozze.

Frattanto rideva, ma di quel suo riso atono, che gli afferrava soltanto la bocca e la obliquava in una smorfia sinistra; un riso metallico, breve, aspro, che gli stringeva la gola come una mano ruvida e ne traeva un corto singhiozzo.

In certi momenti non si poteva impedirgli di parlare, affinchè non desse in ismanie.

— Sì, padre. La sposo per aver fatto un sogno. Un [pg!61] sogno che faccio quasi ogni notte, in questa primavera. Mentre dormo, la porta si apre; lei entra; è veramente lei, quasi nuda, con i capelli arruffati, e ride. Ride; poi si dondola nella camicia da notte come una cosa molle... Mi dice: — Hai chiamato, Marcuccio? — Sono qui. — S'avvicina, mi tocca; io soffoco. Butto via la coltre, le dico: — Entra nel letto. — Non vuole, ma ride. Ride e si china... Sento che ha un odore forte, come una donna nuda. — Guarda, — mi dice: — sono bella? — Sì, Berta, sei bella. — Poi, se la voglio, fugge. E si dondola nella camicia da notte come una cosa molle...

Si mise a ridere sguaiatamente:

— Vedi? anche ora fugge.

— Marcuccio, — lo implorò il padre, — vieni con me; discorreremo noi due soli.

E cercò di trascinarlo via per un braccio. Ma egli resisteva, caparbio.

— Padre, tu forse non comprendi che sono innamorato.

Allora Maria Dora scoppiò a ridere, esclamando:

— Uh! uh... Marcuccio innamorato!

— Perchè ridi, sorellastra?

— Certo che rido, — ella rispose. — Perchè tu puoi sposare una ragazza bella e pulita, mentre la Berta puzza di cazzeruole... È unta!

— Sorellastra, ti dico: tutto puzza e tutto non puzza, secondo che un odore piace o non piace. Siccome sei maligna, alle mie nozze tu non verrai. La Berta sarà vestita di bianco, io di nero, e tutti gli invitati porteranno un cero come nelle processioni. Farò suonare le campane, a stormo. Sorellastra, se mi regalerai un anello d'oro, con cinque brillanti, allora ti perdonerò.

Andrea sopravvenne in quel momento e si fermò all'udire que' discorsi. Ma súbito interruppe lo scemo con una voce piena di potere:

— Marcuccio, che stramberie vai dicendo?

[pg!62] — E voi, Andrea, — seguitava lo scemo senza dargli retta, — voi, Andrea, nel giorno delle mie nozze, direte a tutti: — Quest'uomo che si sposa è Marcuccio Landi, poeta, filosofo e musicista. Mettetevi a ginocchi e riveritelo: egli è grande!

— Io dirò a tutti, — esclamò Andrea: — Quest'uomo che si sposa non è affatto grande, perchè invece di dedicarsi al suo lavoro perde il tempo dietro le sottane. Così non avrà nessuna gloria.

Egli diceva queste parole fermamente, come le avrebbe rivolte ad un uomo sano d'intelletto, ed affrontava lo scemo con tutta la violenza del suo sguardo insostenibile.

Una bianca ed umile paura si dipinse tosto nel viso di costui ed il suo sguardo si fece errante sotto la dominazione di quell'occhio più forte.

— Non direte questo... — balbettò, con una specie di terrore.

— Lo dirò certamente, se non abbandoni questo pensiero assurdo.

— Maestro... — fece smarritamente lo scemo, — maestro... e in tal caso, l'amore?

— L'amore? — esclamò Andrea nervosamente, con una rapidità quasi iraconda. — L'amore non è che un perditempo! Cerca di saper farne a meno, anzi di persuaderti che l'amore non c'è!

Lo scemo dovette meditare su queste parole; poi gli parve d'aver compreso.

— E voi, — domandò lentamente, — voi non amate?

Quasi urtato in pieno petto dalla domanda inattesa, che aveva, o gli parve, un non so che di proditorio, Andrea Ferento ebbe un sussulto impercettibile, rovesciò la fronte all'indietro con quell'atto imperioso ch'era in lui abituale quando voleva resistere o comandare.

— Io, — disse con asprezza, come se la domanda non gli venisse dallo scemo e non a lui dovesse [pg!63] rispondere, — io non ho amato che una sola cosa nel mondo: la mia opera; e ciò basta.

Poi traversò quasi con impeto la stanza, e preso lo scemo per un polso, fortemente lo accompagnò verso l'uscio. Da lui Marcuccio si lasciava condurre con una docilità quasi pecorile, senza osare mai di contraddirlo, perchè nel suo sperso intelletto non dominava che una sola fissazione: quella di potergli assomigliare.

Aveva con ardenti sogni amato la gloria nella sua giovinezza dedita alle fatiche più nobili dell'ingegno, e questa gloria ch'era stata la sua lontana amante, il suo fantastico sole, continuava ora a perseguitarlo con tentazioni assurde, a riaccendere di eroiche imprese la sua demenza mansueta.

Papà Stefano si era seduto sopra una seggiola, e raccoltasi la fronte nella mano, meditava dolorosamente su la pietà che gl'ispirava il suo figlio. Ogni tanto scoteva il capo e si ricacciava la commozione in gola, mordendo la pipa spenta, che lo impolverava di cenere. Di sventure, nella sua lunga vita, ne aveva sopportate assai, con quel coraggio paziente che l'anima dei semplici sa radunare contro la sciagura; ma questa, che gli aveva distrutto nel fiore dell'età il suo figlio adolescente, questa non la poteva tollerare per quanta rassegnazione avesse nel suo cuor di cristiano.

Finchè Marcuccio se ne stava zitto, faceva la calza, scriveva o camminava per la casa come un automa, traendo dal suo violino, sempre, sempre, quella medesima canzone, ch'era divenuta per tutti quasi un incubo superstizioso, il padre non malediva la sorte, si contentava di guardarlo con occhi tristi e scuotere silenziosamente il capo. Ma quando l'udiva imbastire insieme, con una voce monocorde, que' suoi lunghi discorsi incoerenti, che tradivano il cervello senza governo, e poi finivan per lo più in una risata stridula, che faceva male come un colpo di frusta, il padre talvolta non sapeva più contenere la piena del suo dolore taciturno.

[pg!64] Dopo una lunga pausa, il vecchio disse alla figlia:

— Maria Dora, va piano piano a vedere cosa fa.

La fanciulla si levò in silenzio dalla poltrona dov'era seduta a ricamare, e camminando con lievi passi uscì per andarlo a spiare. Poco dopo fu di ritorno, con la medesima cautela, e rispose, facendone l'atto:

— Scrive.

Poi, senza guardare Andrea, sedette di nuovo nella poltrona, presso l'infermo, ed abbassò il capo sul ricamo che aveva incominciato.

Ora non parlavano più; tutti e quattro, in quel silenzio parvero stare in ascolto, forse d'una lor intima voce che ad ognuno lasciasse cadere, come pietre sul cuore, un peso di sillabe lente. Ascoltavano, ed ognuno, tacendo, in quella sera piena d'ambiguità, ricamava sul proprio telaio una trama invisibile di pensieri. Per l'uscio aperto si udiva giungere quel rumore familiare che fanno le stoviglie, le argenterie, quando s'apparecchia la tavola.

E il giorno, fuori, diminuiva. Il sole, come un largo tappeto, si ritraeva dalla terra umida, strisciava sul fogliame degli alberi, sui tetti più alti, sui vertici delle colline. Veramente a guisa di un tappeto che il crepuscolo andasse arrotolando, sollevava nell'atmosfera limpida qualche soffio di polvere voluminosa, che lentamente scendeva, cadeva, prima impalpabile, poi folta, sopra i contorni delle cose.

Gli alberi si vestivan di buio, come se il vento li avvolgesse d'un torbido fumo. Non era puranco l'ora delle campane: un grande silenzio veniva dalla terra circostante, un silenzio quasi religioso, che affaticava la loro sensibilità.

[pg!65]

La vita comincia domani

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