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VI

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— Natalissa! Natalissa, vieni su!

Era la voce di Maria Dora che chiamava dall'alto del giardino, affacciandosi al terrazzo, fra le spalliere dei gerani rampicanti, che fiorivano a mazzi d'ogni colore, nascondendo sotto un magnifico tappeto vivo tutto il muro della scalinata.

— Corri, Natalissa, corri!

La bambinetta era in fondo al giardino, aveva nel grembiule un fascio di ramoscelli, che suo padre mondava dall'aiuole troppo folte.

— Lascia giù quella roba, e corri, Natalissa!

Con una certa cura la bambinetta vuotò il grembiule sul margine del prato, fece in modo che il suo fascio non si disperdesse, poi cominciò a correre. Aveva in testa un cappello di paglia che la copriva come un ombrellone, ma il sole tuttavia l'aveva morata come una bacca selvatica.

— Signorina Maria, che vuole? — diss'ella con quel suo modo garbato di donnicciuola grande, la quale sappia il fatto suo.

— Bisogna che tu corra sùbito in paese a cercare il dottor Paolieri, e dovunque si trovi, che venga su di filato, ma sùbito, e venga pure se fosse occupato, [pg!71] perchè il signor Giorgio sta male... sai, piccina: molto male.

— Oh, poveretto! — esclamò la bimba senza riflettere. — Ma, e se non lo trovo?

— Cércalo, cércalo dappertutto; dillo al farmacista, dillo a tutti quelli che incontri, e manda persone in giro finchè l'abbiano trovato.

Poi non rimase a discuter oltre; tornò dentro frettolosa, gridando ancora una volta:

— Corri, Natalissa!

Ma questa, nella sua testolina ragionevole, non poteva persuadersi di quella necessità.

— Come mai? Hanno un dottore in casa... che bisogno c'è del Paolieri, quello che cura i poveri?

Tuttavia si mise a correre, come le avevan detto, poichè era ubbidiente.

Intanto, sul primo pianerottolo della scala, Maria Dora vide qualcosa che la percosse d'un grande stupore. Novella era nel corridoio, diritta contro la parete, a pochi passi dalla camera di Giorgio; pareva in croce contro il muro, con le spalle oppresse come dal peso di una fatica interiore, le braccia un po' discoste dai fianchi, le mani aperte, quasi aderenti all'intónaco, e tutta bianca nel viso d'un pallore che alterava le sue fattezze. Non solo, ma nel medesimo tempo aveva intravveduto Andrea sparire di lì, entrar per una porta, uscirne, tornare, quasichè non avesse potuto nascondersi a tempo. Era passato davanti a lei che saliva, senza guardarla, senza forse vederla, con gli occhi stranamente esagitati, i capelli che parevan irti. Ed in entrambe quelle facce un non so che di malvagio, di folle, una specie di tragica simiglianza.

Ella vide questo, e si fermò davanti alla sorella, senza trovare il coraggio di parlarle. Ma questa non fece il più piccolo movimento, e rimase con gli occhi sbarrati, le mani aperte, quasi crocifissa contro il muro.

— È strano, — pensò Maria Dora; — ogni volta che Andrea torna dalla città, Giorgio si aggrava...

Tutta la casa era sossopra; nella camera del malato [pg!72] i familiari si affacendavano; la Berta ne usciva ogni tanto, in punta di piedi, strisciando su le pantofole di feltro, facendo tutto quello che le si ordinava. Ora passava con una bottiglietta, or con una pentola d'acqua bollente; poi venne fuori papà Stefano e si mise a chiamare con voce soffocata:

— Andrea...

Maria Dora prese una mano della sorella e dolcemente le domandò: — Che hai?

Novella strinse la sua mano, forte, forte, senza rispondere; gli occhi le brillavano, accesi d'una febbre che ne consumava il pianto. Allora, levando il capo verso l'altro pianerottolo, Maria Dora vide il suo fratello Marcuccio, seduto su l'ultimo scalino, fermo come un cane accucciato, e che guardava in aria, con le pupille fisse, ascoltando. Aveva il suo violino su le ginocchia, l'archetto nel pugno, e senza batter ciglio, con ferma intensità, pareva tutto assorto nell'ascoltare un lontano rumore di avvenimenti, una confusa voce che parlasse con lui solo.

Vedendo la casa in tumulto, guidato forse dall'istinto, era venuto egli pure su quella scala, presso la camera dell'infermo, dove non entrava mai.

— Andrea, Andrea... — ripeteva la voce del padre.

— Ebbene? — disse questi, apparendo su l'angolo del corridoio.

C'era in lui una specie di convulsione ferma, che la tensione de' suoi nervi dominava a stento.

— Non posso fargli più nulla, — disse con voce rapida.

Aveva tra i sopraccigli una ruga profonda.

— Ma... ràntola... — balbettò Stefano.

Andrea rovesciò indietro il capo, con una specie d'urto che scosse tutta la sua persona:

— Lasciàtelo stare. O la crisi passa, o questa volta è finita.

Ripetè ancora, con una voce più sorda: — È finita.

[pg!73] E cominciò a camminare velocemente, in sù, in giù, davanti all'uscio dell'infermo. I suoi passi facevano romore; il pianerottolo ne traballava; la ringhiera scossa mandava una specie di ronzìo.

Poi si fermò di scatto:

— Viene questo medico?

— Sì, — rispose Maria Dora timidamente.

— Che viene a fare?

— Mi avete detto voi di chiamarlo... voi stesso, poco fa...

— Sì, è vero: l'ho detto io. — Fece una pausa: — Bene, venga!

Di nuovo si mise a camminare, più rapido, con maggiore concitazione.

Gli occhi di Novella inseguivano ogni suo gesto, ogni sua mossa, quasi fossero ammaliati; ed egli non la guardava mai; non guardava nessuno.

Dalla stanza dell'infermo uscì mamma Francesca, e piangeva. Mormorò:

— Bisogna salvarlo...

Poi carezzava la fronte della figlia maggiore, dicendole:

— Ti senti male, è vero, povero cuore?...

— Sì, mamma, così male!...

Ma la Berta, ch'era per un momento rimasta sola con il malato, scappò fuori quasi correndo, bianca di paura.

— Oh, la sciocca! — fece Stefano, vedendo la sua pavidità.

Ora, quel giorno, Marcuccio la odiava. Per non guardarla, o forse per dispregio, col dosso della mano in cui teneva l'archetto si coverse gli occhi, fin quando fu passata.

Macchinalmente Andrea guardò l'ora. Disse:

— Le tre. Non piangete, Novella! vi prego, vi prego non piangete!...

E risolutamente varcò la soglia, dietro la quale stava il moribondo; la soglia buia che segnava quasi un limite.

[pg!74] Allora, in quella penombra, da solo, Andrea s'avvicinò al letto nel quale stava disteso il malato inconoscibile; si curvò leggermente per ascoltarlo, e rimase immoto. In quella breve distanza, dal limitare al letto, nello sforzo enorme che aveva dovuto compiere sopra sè stesso, l'incubo del suo spirito si era dissipato come per incanto; una gran pace gli entrava nel cuore: piuttosto che pace era una lucida insensibilità.

Lo guardava, lo poteva guardare senza tremarne. Non era più che la squallida ombra d'un uomo, in cui persisteva tenacemente una fievole vita.

E il medico pensò: — «Una crisi. Non sarà l'ultima. Ora è già quasi domata. Passa.»

Avrebbe voluto anche toccarlo, tastargli le tempie, i polsi, il cuore, — ma le sue proprie mani, involontariamente, si rifiutarono. Allora tese l'orecchio: il respiro fluiva più uguale nonostante il fiochissimo rántolo, nonostante la viscida saliva che gli schiumava tra le labbra.

E il medico pensò: — «Fra poco gli si potrebbe fare un'altra iniezione di caffeina; il cuore ha già ripreso un po' di forza.»

E vedeva con l'occhio esperto riaccendersi la vita nell'esausto cuore. Lo vedeva, senz'averne alcun segno, per una specie di sensazione fisica, la quale gli proveniva dall'aver molto spiati gli indizi della morte, il calore impercettibile della vita.

Non si moveva; era come affondato nel materasso; la coltre si alzava sui piedi congiunti, su le ginocchia un po' salienti: un braccio pendeva dal lenzuolo con la mano torta, come se nell'affanno avesse cercato di ghermire, di stringere; soltanto nella gola denudata era il gonfiore di uno sforzo continuo; nelle palpebre qualche battito.

Gli pareva d'essere accanto ad un altro malato, ad uno dei tanti che aveva ritolti alla morte o vegliati nelle agonie; gli sembrava quasi d'essere l'artefice davanti all'opera, e di doverla compiere con quella tranquillità [pg!75] di spirito che pareva separarsi dal suo cuore d'uomo; gli sembrava di non esser altro che una macchina, attenta e paziente. Se una vita era in pericolo, a lui toccava salvare quella vita: questa era la sua missione nel mondo, questo gli appariva semplice, come al timoniere il mettere su la barra la sua mano forte, come allo spegnitore d'incendi l'avventarsi dentro il fuoco.

Macchinalmente mescè dentro un cálice alcune gocce d'una pozione con un sorso d'acqua, e gliela fece colare traverso le labbra bavose, tenendogli sollevato il capo con una mano passata dietro la nuca. Senza volerlo aveva pur vinta la repulsione del toccarlo, e poichè il liquido non trangugiato gli colava per il mento, lo rasciugò con un panno. Dolcemente gli ripose il capo nel cavo del guanciale, gli compose la mano torta sotto la coltre, lo coverse fino alla gola, e stette a guardarlo.

Allora l'uomo — non più il medico — pensò ad un tempo lontano della lor giovinezza, quando quella creatura sfinita era un maschio avventuriero della buona strada, e si erano data la mano, da uomini, da galantuomini, per affrontarla insieme, la vita. E lo rivide nelle sue sembianze d'allora, vestito di panni semplici, come si conviene a chi vive tra lo scoppio delle mine ed il rimbombo delle macchine generatrici, con la sua bella fronte illuminata di volontà, l'anima che gli brillava negli occhi, limpida come il suo sguardo sincero. Egli era forse un po' selvatico a quel tempo, e si trovava dappertutto a disagio fuorchè tra le squadre d'operai, che capitanava come un condottiero, che lo amavan come un fratello più forte, ma uguale ad essi nelle fatiche, primo nei pericoli, integerrimo nella sua splendida povertà.

Rivide un giovine alto della persona, nervato di ferrei muscoli nella carne arida, sebbene dal colorito un po' esangue, dalle fattezze quasi di adolescente, forse per quegli occhi azzurri che gli schiaravano la faccia e la biondezza dei capelli non folti, che davan [pg!76] quasi una trasparenza alla sua dolce fisionomia. Non aveva più famiglia, era solo nel mondo, e in luogo d'ogni altro amore aveva l'ambizione inflessibile di avanzarsi contro la vita per una via di conquiste, sacrificando tutti gli agi allo splendore della sua meta lontana.

Ma aveva un fratello nel mondo, un fratello come lui combattente, come lui persuaso che ogni giorno si debba fare un passo più innanzi; e quand'ebbero denaro, divisero il denaro, quand'ebbero sciagure, divisero le pene, quand'uno si coronò di gloria, e l'altro si sentì pure innalzato nella sua medesima elevazione. Da presso, da lontano, separati e mai disgiunti nelle dure imprese che affrontavano, traverso l'età e le molte insidie che la vita ordisce contro gli affetti umani, salvarono quest'amicizia sacra, questo patto fraterno che li rendeva più forti, e delle cose o dei principii che la vita aveva loro insegnato a considerare in guise opposte non discutevano mai, per non gettare un'ombra pur lieve su questa concordia assoluta.

Quanta vita nella memoria! quante vicende coraggiose! quante belle pagine di due storie umane, vissute per cammini opposti, con un solo cuore!

— «Ti ricordi?...» — voleva quasi dirgli, mentre stava curvo sopra il suo letto, sopra le sue logore membra, in quella camera semibuia. — «Ti ricordi?...»

E con quella celerità istantanea che solo il pensiero possiede, tutta rievocava in un baleno la storia di tanti anni, le vestige di tante memorie che infuriavano, là indietro, come foglie ammulinate, in quel turbine che si chiama il passato. E ogni tanto domandava a sè stesso, quasi con un senso di reale incertezza: — «È lui? proprio lui, quest'uomo che ora giace? quest'uomo ch'io faccio morire? È lui? Giorgio?...»

Anche il suono mentale di questo nome gli pareva una cosa lontana.

Poi subitamente si ricordò di una sera, — una sera non tanto remota in quella corsa a ritroso degli anni — quando [pg!77] Giorgio era venuto a trovarlo nel suo laboratorio e s'era seduto in un angolo, taciturno, ma con l'aspetto di volergli dir qualcosa, di volergli fare una confessione grave. Perchè mai di quella sera egli si rammentava così bene ogni più piccolo episodio? — Che strana cosa! In quella sera egli provò per la prima volta una specie di presentimento, oppure una di quelle sensazioni inspiegabili che paiono più tardi presentimenti quando il fatto accade.

Era verso l'ora del pranzo, d'inverno, e pioveva. La pioggia produceva di continuo su la gran vetrata del laboratorio quel rumore scrosciante che un secchio d'acqua produce vuotandosi di colpo sovra un lastricato.

Giorgio lo guardava; ed egli era seduto sotto la luce del riflettore, in mezzo a fiale, a storte, a gelatine dense di bacilli. C'era su la tavola un coniglio morto; in una gabbia tre topolini che giravan come trottole.

— Sai, Andrea...

— Ebbene?

— Son persuaso che tu ne riderai, ma devo nondimeno confessarti una cosa...

— Ti ascolto.

— Ecco: mi sono finalmente annoiato di viver solo; ho un'idea fissa, nella testa, o nel cuore, non so... Insomma c'è una ragazza alla quale voglio bene... ed avrei pensato di prender moglie.

— Oh, strano, strano... strano.

E si ricordò di aver sollevato per le orecchie quel coniglio morto, ch'era freddo agghiacciato, e che ricadde come piombo. Certi particolari di nessun rilievo hanno talvolta più valore, più senso, nella memoria, che altri avvenimenti gravi.

Gli sembrò allora, per la prima volta in tutta la vita, che da quelle parole, da quell'attimo, fosse per insorgere un ostacolo fra loro. Ma egli era un incredulo, un negatore: non vi badò.

In quei giorni doveva riferire all'Accademia di Scienze su la scoperta di un nuovo bacillo e sopra un [pg!78] metodo di cura ch'egli proponeva, presentando un siero, che, dapprima combattuto, invalse poi nella medicina come un rimedio indiscusso, lasciando gli stessi medici stupefatti per la rapidità e la potenza de' suoi risultati. Era in quei giorni assorto pienamente dal lavoro, nervoso, irritabile, pervaso da quella febbre che accende l'uomo il quale sappia di possedere in sua mano una forza prodigiosa e debba farla riconoscere dalla ottusa diffidenza di coloro che paventano la novità; non viveva che tra la Clinica ed il laboratorio, trascurando il cibo, accordandosi poche ore di sonno, sostenuto solo da quella incurvabile volontà che gli stava confitta nel cuore come una lama, fino all'elsa, in un legno duro.

E però si rammentava anche la voce di Giorgio, quando gli disse quelle parole; una voce che non gli aveva udita mai, vergognosa o timida, come la voce dell'uomo che debba farsi perdonare una colpa.

Gli aveva risposto, quasi con negligenza:

— Allora ti sei finalmente innamorato... ami... anche tu!... — in quell'«anche» c'era quasi un piccolo disprezzo. Giorgio rispose:

— Anch'io.

E un'altra cosa rammentava, più nitidamente ancora, con una precisione singolare.

Qualche settimana dopo gli venne curiosità di conoscere questa fidanzata di Giorgio e andò con lui a visitarla nella sua casa.

L'aveva trovata bella... sì, molto bella — e null'altro. Era stato al loro matrimonio, li aveva condotti fino alla stazione quand'erano partiti per il loro viaggio di nozze. Se ne tornò indietro solo, un po' triste, mentre gli pareva che qualcosa dell'antica lor fratellanza fosse andato in fumo, poichè per tutti i sentimenti, per l'amicizia come per l'amore, non bisogna essere che in due.

Ma una volta, forse un anno, un anno e mezzo più tardi, Giorgio lo aveva invitato a pranzo, come soleva di tempo in tempo, e quella sera Giorgio si sentiva male.

[pg!79] Ella era sempre un poco taciturna quand'egli veniva nella lor casa; Andrea lo aveva osservato infatti, senza domandarsene il perchè. Inoltre certi suoi movimenti, certe inflessioni particolari della sua voce, gli parevan un po' ambigue.

Si era chiesto sovente se Giorgio fosse felice con lei, ma non osava parlarne con l'amico; era sceso tra loro un insensibile velo.

Quella sera lo ricevette lei sola, in un salotto che dava sul giardino ed aveva un terrazzuolo fiorito di caprifoglio; sì, di caprifoglio o forse di glicine: un'alberatura nodosa che saliva dal giardino sottostante arrampicandosi nella ringhiera, e che mandava un odor forte. Non c'eran lumi nel salotto, poichè si andava incontro all'estate; il crepuscolo, rosso come un gran braciere, bastava da sè ad illuminare con il riverbero delle sue vampe.

Ed ella disse che Giorgio era sul letto a riposarsi prima del pranzo «perchè Giorgio stava un po' male...»

Poi discorsero d'altre cose. Eran seduti vicino alla finestra, a due passi l'un dall'altra, lei con un abito di color viola, scollato, percorso intorno alla cintura da una grande fascia nera. Teneva i piedi sovrapposti, poggiati sovra un cuscino: quello ch'era sotto si piegava come avesse la caviglia rotta, con una straordinaria elasticità; l'altro non istava mai fermo. Le calze tenui trasparivan di bianco; aveva su ciascuna scarpina una bella fibbia di antichi diamanti, rotonda, che luccicava.

Il rumore della sua gonna di seta ogni tanto le saliva intorno alla persona come il rumore di una cosa viva; ella parlava distrattamente, di cose futili, con una voce lenta, facendo lunghe pause.

Allora egli sentì per la prima volta, con precisione, ch'ella lo guardava come una donna guarda un uomo, attentamente, minutamente, senza lasciarlo intravvedere, e questo gli dette un senso di molestia, un senso anche di stupefazione. Si accorse d'un tratto [pg!80] ch'era singolarmente bella, d'una bellezza tentante, d'una bellezza non casta: il che aveva quasi dimenticato dal primo giorno che la vide.

Sollevò gli occhi per guardarla negli occhi, e tutt'e due si sentirono un po' confusi... Di che? Di nulla; d'un pensiero, d'un'ombra, d'una di quelle indefinibili sensazioni che sono il principio di tutti i desideri colpevoli.

Egli cominciò ad osservarla, e subitamente gli parve di aver già custodita nel suo pensiero l'immagine di una donna fatta come lei. Sono vibrazioni veloci, contro le quali non si ha tempo di reagire; ciò che le provoca è forse la loro impossibilità apparente, ciò che le alimenta è forse il terrore che incutono.

Cominciò a guardarla egli pure, minutamente, attentamente, come un uomo guarda una donna, e la trovò più bella che mai. Gli piacque non solo il suo corpo, ma il vestito che portava, e quel suo nastro nero alla cintura, ed il rubino che le brillava sul dito come una goccia di sangue, ed il profumo del quale si era cosparsa, e la mano e la bocca ed i capelli, e sopra tutto la sua voce un po' velata, e sopra tutto la sua femminilità così piena di seduzione involontaria.

Turbato, per interrompere quell'incanto, si levò e disse:

— Ma, e Giorgio? Non potrei andarlo a vedere?

Ella con gli occhi lo seguiva, e rispose lentamente:

— Sì, se volete...

Oh, se ne ricordava come fosse trascorso un solo giorno! E da allora, proprio da quell'attimo, un gran dramma aveva pervasa la sua vita, gli era entrato come una paurosa novità, non nell'anima soltanto, ma nel cervello e nei sensi, fino a sconvolgere tutto quello ch'era stata fino allora la sua concezione delle cose, fino ad afferrarlo in una specie di possessione, contro la quale non c'era in lui nè fuori di lui rimedio alcuno. Egli sapeva talvolta escludere una passione, ma limitarla mai. La sua natura non gli consentiva di rimanere a mezzo di alcuna strada: o non percorrerla, [pg!81] o andar oltre, contro tutto, inesorabilmente, come su l'ala di un destino.

Fra questi pensieri egli non si rammentava più d'essere in quella camera, presso il guanciale d'un sofferente, sotto la salvaguardia del tetto che l'ospitava, nell'intimo d'una famiglia costituita. Ma invece gli pareva d'essere davanti ad un giudice invisibile, contro il quale gli fosse mestieri giustificare la sua colpa.

D'improvviso lo interruppe nelle sue divagazioni un rumore di gente sopravvenuta; si volse.

Papà Stefano e mamma Francesca facevano entrare il medico Paolieri, ch'era venuto su di corsa e trafelato ansava.

Andrea lo squadrò velocemente, con uno sguardo nemico; l'altro, al solo vederlo, si fece ritroso ed umile, quasi avesse una fredda vergogna di compiere il proprio officio davanti a quel grande salvatore d'uomini. Pareva, più che medico, un buon diavolo di sensale, con i suoi scarponi impolverati, i calzoni stretti che gli facevan due borse alle ginocchia ed un suo certo soprabito, d'un giallo stinto, che portava sempre sbottonato, fino ai mesi del solleone. Aveva la faccia adusta, la mano del vangatore, una grigia capigliatura spettinata che gli metteva qualche ricciolo su la fronte intarsiata di rughe; aveva gli occhi vivaci, il naso forte, un paio di baffi tagliati a spazzola, duri come setole.

— Professore... — articolò, con una specie d'inchino.

Per lui il malato era una cosa del tutto secondaria in quel momento; ciò che lo stordiva era di trovarsi davanti al grande clinico, al medico illustre, all'uomo di battaglia e di scienza che l'intero mondo ammirava come un prodigioso rinnovatore della medicina moderna.

— Professore... — mormorò un'altra volta, — è lei che mi ha fatto chiamare?...

Sudava, pover'uomo, a grosse gocciole, ma non osava rasciugarsi la fronte.

[pg!82] — Ella è il medico del paese? — domandò Andrea Ferento, senza indietreggiare dal letto dell'infermo, come se vi stesse a guardia.

— Sì, signor Professore, io sono il medico condotto... — rispose il Paolieri, con un altro inchino più goffo.

Ci si vedeva poco nella camera: Andrea fece segno a papà Stefano di aprire a metà un'imposta, e fu Maria Dora che, scivolando dietro il padre, andò alla finestra. Andrea aveva ritrovata la piena padronanza di sè. Tenendosi ritto parlava con gesti sobrii, guardando ora il malato, ora il medico, dando ragguagli esatti su quanto era accaduto.

C'era più luce ora, ma il letto rimaneva nella penombra, con quell'uomo supino e fermo, che pareva non desse alcun segno di vita.

— Ci fu un momento difficile, — spiegava Andrea, — e temendo il peggio, ho desiderato fosse presente anche lei. In due si vede assai meglio e si provvede con maggiore tranquillità.

— Oh, Professore... io debbo ringraziarla, ma non potevo essere che inutile... certamente inutile...

Fino allora, mentre il Ferento esponeva con lucidità la crisi patita dall'infermo ed i rimedi usati, l'ottimo Paolieri non aveva rivolto che qualche sguardo distratto al giacente, standosene assorto nelle parole del narratore come se volesse mostrargli di non perderne una. E di continuo faceva con la testa un segno d'assenso, anche dove questo appariva superfluo.

Ogni tanto intercalava, come una litania:

— Vedo, vedo, vedo... — Forse non vedeva nulla, tanta era la sua confusione.

— Per fortuna, — seguitava il Ferento, — in capo d'un certo tempo, mediante l'iniezione, ho potuto rianimare il cuore, e da vari indizi ho notato che la crisi ancora una volta sarebbe stata vinta senza gravi conseguenze. Ora, più che altro, si tratta di un grande prostramento nervoso, che tende a scomparire. Il respiro [pg!83] è difficile, ma assai meno di prima: il polso debole, ma riprende, — e si potrebbe, se lei crede, fargli un'altra iniezione di caffeina. La dose che gli ho somministrata finora è piccola: una seconda può giovare.

— Ma senza dubbio! — disse il Paolieri. Poi soggiunse: — Oh, scusi... — E in fretta si cavò il soprabito.

Fino allora non s'era nemmeno accorto di portarlo indosso, tanta era l'abitudine che ne aveva; e l'essersi tolto senza necessità quella sua specie di casacca o di giubbone, era il più grande segno di rispetto ch'egli potesse dare ad un uomo.

— Se vuole, — disse Andrea Ferento, quasi a termine del suo parlare, — se vuole, dottore, lo esamini.

Era un invito, sì, ma detto nel modo con cui si propone ad alcuno di fare una cosa del tutto inutile.

Il Paolieri s'appressò al letto; prese macchinalmente il polso del malato, gli toccò la fronte, gli rovesciò un labbro per guardargli le gengive. E questo fece due volte. Poi gli scoverse il petto ed ascoltò il cuore; gli mise una mano sul fianco per esaminare il fegato e gli premette l'intestino.

Nel fare quel che faceva da anni, tante volte al giorno, come nel compiere le pratiche d'un mestiere assiduo, dimenticava perfino la sua soggezione e la presenza stessa di quel gran medico. Faceva tutto ciò con coscienza, assumendo nella sua faccia ruvida un non so che di grave, quasi d'intelligente.

Poi lo ricoverse con delicatezza: ancora una volta gli guardò le gengive, le membrane interne degli occhi, a lungo, e di tutto quell'esame non fece che dire:

— Già... già...

— Le pare? — disse Andrea, attentissimo.

— Già... come lei diceva, Professore... non si tratta che di un grande prostramento... l'iniezione gioverà.

— Sì, facciamola.

Fu allora che il malato aperse gli occhi e stupitamente [pg!84] li guardò. Due, tre volte li aperse, non potendoli tener fermi; e li guardava l'un dopo l'altro, attonito, cercando.

Mosse le labbra, forse per dire un nome... Quale nome?

Certo quello solo che amava, quello inestinguibile, che per lui non moriva nella morte: Novella...

Appunto era venuta su la soglia ed aspettava, tutta bianca.

La vita comincia domani

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