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CAPITOLO IV

S’era presentato al ristorante solo soletto.

Io ero già seduto al nostro tavolo. Non appena s'era accomodato, gli avevo chiesto: “…e la persona che dovevi farmi conoscere? Senti un po’: oggi è il 1° di aprile: non sarà mica che…?”

“No! Son mica ‘nu fesso da pesci! e poi da uno come me che va per i cinquantacinque… No, Marina l’hai sentita al telefono stamattina. Il punto è… che aveva l’emicrania; ma ti conoscerà volentieri a casa nostra, un’altra di queste sere; e poi… va beh, ti dico la verità, lei vuole sempre predisporre tutto con molto anticipo. Mi piace anche per questo: Marina è ‘na femmina precisa come me; hmm… cioè, lei è femmina, ma… beh, m’hai capito, no?”

“…e coabitate more uxorio?” avevo chiesto malizioso con un sorrisino calcando bene su more uxorio, ben conoscendo le idee sul matrimonio e sul peccato del cattolicissimo amico; ma era arrivato il cameriere per l’ordinazione e Vittorio m’aveva fatto un cenno con la mano perché soprassedessi.

Quando l’altro s’era allontanato m’aveva risposto: “Sissignore, viviamo insieme; ma solo da un paio di giorni. Prima abbiamo voluto farci un viaggio d’un paio di settimane, per conoscerci meglio. Mi son preso ‘nu poco ‘e ferie e siamo stati a New York e nei dintorni; anche alle cascate del Niagara che sono ‘na roba” aveva cadenzato, “ter-ri-fi-can-te! Le hai viste, no?”

“Veramente no”.

Nemmeno m’aveva ascoltato e aveva continuato entusiasta: “Marina, l’avevo già conosciuta al funerale del marito, ma l’ho poi incontrata in più lieta circostanza, circa due mesi fa: indovina dove?”

“A un ballo in maschera”, avevo buttato là sorridendo.

“Come fai a saperlo?!”

“Beh, veramente… era una battuta.”

“Ah! Però era proprio un ballo in maschera, quello di Carnevale al nostro circolo… Uhei! che volevi insinuare con quel “maschera”? Ch’aggio trovato ‘na racchia? O che ‘o scorfano son io?”.

“Ma dài, era una battuta scema, senza senso.”

M’aveva subito rassicurato stringendomi il polso sinistro: “Anch’io ho reagito per scherzo, Ran, che ti credevi? Mica hai pensato che me la prendessi per cose così, no?”

“N…no, figúrati.”

In realtà sì: m’era venuta in mente una scenata tremenda che, sia pure per ragioni assai più serie, Vittorio m’aveva piantato tre anni prima.

Gli avevo chiesto: “Com’è ‘sta Marina?”

Aveva spalancato bocca e occhi e guardato in alto per un paio di secondi, come estasiato da celeste visione; poi, tornato a una normale espressione di contentezza: “Guarda, ti dico solo che chista ‘ccà è proprio ‘a mia! ‘Nu babà; e me la sposo! È la vedova quarantenne, poco di più, del commissario capo Verdoni, uno che l’anno scorso era stato nominato vice questore a Novara e, per la gran gioia, era morto d’infarto.”

Non avevo trattenuto una risata.

Lui s’era invece incupito: “A proposito di morti… m’è proprio dispiaciuto per mia moglie; però sarei un bugiardo se dicessi… Insomma, la decisione con Marina di convivere è potuta diventare quella di sposarci; ma tu l’hai saputo, no, della morte di…”

M’ero rifatto serio, anzi compunto: “Sì; anzi, ho assistito all’omicidio”.

“Coosa?!”

“Ero ospite a quel banchetto del Montgomery.”

“Ah!”

“Ho anche visto per un attimo l’omicida.”

“Ah! Allora ti chiameranno a testimoniare?”

“Non lo so, forse no, tutti i presenti in sala hanno intravisto l’omicida, non è detta che convochino anche me.”

“Capìto. A parte questo, da una parte mi dispiace davvero che sia morta, mentre confesso che dall’altra… beh, ora potrò risposarmi all’altare; insomma, la sua morte mi spiace e… insieme non mi spiace. Sarà un peccato?” S’era preso nervosamente la punta del suo barbone grigio fra pollice e indice della sinistra.

“Non chiederlo a me, chiedilo al tuo confessore”, gli avevo fatto malizioso, da quel laico inossidabile che sono.

“Ciài ragione”, m’aveva risposto lui, serissimo.

“…e dovrai anche confessare la coabitazione prima del matrimonio”, avevo suggerito ancor più maligno.

“Già, già… uffa!” e aveva attaccato una fumante pasta e fagioli, da pochi secondi in tavola.

Vittorio Il Barbuto

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