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CAPITOLO II

Eravamo tutti balzati in piedi al rintronare degli spari e, in un attimo, c’eravamo ritrovati sotto i tavoli, compreso Donald ‘Sprezzante-del-pericolo’ Montgomery.

L’attore Burt Cooper, accovacciato di fronte a me e a Mark, tremava visibilmente, continuando a girare la testa a destra e a sinistra e ansimando forte a bocca semiaperta; poi: “Hanno mirato al nostro tavolo?” aveva chiesto con voce appena udibile.

“Non saprei”, gli aveva risposto il suo collega Robert Avallone, accosciato alla sua destra e che, come Mark e me, era riuscito a mantenere sufficiente sangue freddo.

I colpi erano partiti da uno dei quattro ingressi del salone, piantonati ciascuno da una guardia all’esterno, ma lasciati aperti: un uomo dal barbone grigiastro con occhiali neri sul naso, ch’ero riuscito appena a intravedere, vestito con un elegante completo ma con uno stonato berretto di lana in testa, risultato un passamontagna quando se l’era calato sul volto durante la fuga, e che indossava inoltre visibilissimi guanti bianchi, era corso via riuscendo, grazie alla sorpresa, a uscire dall’albergo senz’essere bloccato: sparando in aria, aveva avuto la strada aperta. Nella foga, esploso l’ultimo colpo, aveva lasciato cadere l’arma scarica sul marciapiede, estraendo contemporaneamente un’altra pistola; aveva puntato questa alla testa d’un passante, perché la scorta del governatore che gli era corsa dietro si bloccasse; aveva fermato un’auto di passaggio, o forse d’un complice? e abbandonato l’ostaggio, era salito e s’era dileguato, sparando dal finestrino qualche colpo a vuoto.

Fuori dalla porta da cui erano risuonati gli spari, nel largo corridoio, era rimasta a terra, freddata da un solo colpo in testa, la guardia che aveva avuto l’incarico di custodirla. Dentro, giaceva morta a terra una bella signora trentaquattrenne che, a suo tempo, avevo ben conosciuto e che, fin ad allora, in mezzo a tutta quella gente non avevo notato, una donna ch’era stata, tanti anni prima, la moglie del mio amico Vittorio D’Aiazzo: nel 1958, non ancora ventenne, ella l’aveva abbandonato per un facoltoso americano, s’era divorziata e risposata con lui negli Stati Uniti; era poi divenuta una ricca vedova e, da pochi mesi, come avevo saputo da Mark, s’era risposata con un altro magnate, un certo Peter White, non presente al banchetto perché sostenitore del presidente Richard, mentre lei era stata una grande elettrice del Montgomery.

Più volte, dopo l’abbandono, Vittorio m’aveva parlato di “Bimba” come usava chiamarla durante il matrimonio, durato appena un anno; oppure di “mia moglie”, come ancora la definiva dato che lui, cattolico rigoroso diversamente da me, agnostico, continuava a considerarsene il marito: “Il matrimonio in chiesa è un sacramento e non lo si può sciogliere!” m’aveva detto con enfasi in un paio d’occasioni. Adesso, era vedovo.

Vittorio Il Barbuto

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