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CAPITOLO V

“Ran, m’è successa ‘na cosa ‘e pazzi!” m’aveva quasi urlato dall’altro capo del filo Vittorio senz’avermi salutato: “Qua c’è bisogno della tua testimonianza”: eravamo al terzo giorno successivo alla cena.

“Per cosa?” m’ero preoccupato.

“Non ci crederai! Quel piezz’e’ fesso del Montgomery s’è messo in testa che ad ammazzare Bimba sia stato io! Crede d’essere ancora un dirigente dell’FBI, chilla capa tosta. L’hai vista, la tele? Hai sentito, no? che i suoi avversari hanno fatto girare voce che avesse organizzato un falso attentato per farsi pubblicità, attentato che si sarebbe risolto involontariamente in tragedia?"

“…e per scagionarsi, ha accusato te?!”

“Sì, per via della barba e d’una lettera anonima contro di me che gli avrebbero spedito, con l’accusa d’aver odiato mia moglie e d’aver voluto ucciderla, nonché del fatto, figuriamoci! che io sarei stato nell’elenco degli invitati al banchetto. Insomma, vieni dal giudice istruttore. È a quattro passi da casa tua, in via Corte d’Appello: dottor Rossi; t’aspetta. Tu l’avevi visto il vero assassino, non è vero?”

“Più o meno.”

Ero tutto preso dalla composizione d’un articolo per la terza pagina del mio giornale, la Gazzetta del Popolo, ma non avevo potuto negarmi: “D’accordo, mi cambio e sono lì tra poco.”

Donald Montgomery, che aveva conosciuto Vittorio durante la nostra avventura americana, aveva riconosciuto proprio nel mio amico il barbuto assassino anche se, come me e come tutti, poteva averlo al massimo scorto. Certo avevano pesantemente influito sul riconoscimento la lettera anonima e il nome del D’Aiazzo fra quelli degl’invitati al banchetto. Il governatore s’era rivolto alla procura distrettuale di New York, che aveva chiesto l’estradizione di Vittorio. La colpa di quell’accusa poteva essere stata, un poco, anche mia, come avrei presto capito: nel libro basato sulla vicissitudine americana vissuta con l’amico avevo parlato, sia pur usando falsi nomi, della moglie divorziata di lui e del fatto ch’egli ne era ancora innamorato e geloso, e tale affermazione era rimbalzata nel film che ne era stato tratto.

Sempre io, come un cretino, testimoniando davanti al giudice Rossi, per difendere l’amico avevo fatto peggio. Conosciuto il presunto movente, omicidio passionale per odio verso la vittima a causa di gelosia, avevo detto d’impulso all’inquirente: “No dottore, è ridicolo supporre come moventi la gelosia e l’odio, dopo tanti anni; e oltretutto il vice questore è innamorato di un’altra; anzi, credo stia per sposarla.”

“Ah!” m'era giunto in tono di soddisfatta sorpresa dal giudice, un uomo piuttosto basso sulla sessantina, alquanto soprappeso, con capelli grigi mal pettinati e indosso un doppiopetto dozzinale. Subito dopo aveva chiesto al mio amico: “Come si chiama e dov’è domiciliata la persona?”

“Eeh! aveva espirato Vittorio: “Si chiama Marina Ferdi vedova Verdoni. Vive… viveva con un’amica, dopo la vedovanza, ma… da qualche giorno sta con me.”

“Dottor D’Aiazzo”, l'aveva incalzato il Rossi, “avevo visto un film che, come la pubblicità aveva diffuso, era basato sopra una sua indagine, anche se il suo nome nella pellicola era stato cambiato: risultava che lei, come cattolico, si considerava ancora marito della vittima. È davvero così? e avrebbe veramente intenzione di sposare la signora Ferdi? Le ricordo che è sotto giuramento.”

“S…sì”: davanti a Dio quel brav’uomo di Vittorio non aveva saputo mentire.

“Senta, signor giudice”, ero intervenuto inquieto, “mi pare che si stia solo perdendo del tempo: io avevo visto l’assassino e le assicuro che non si trattava del dottor D’Aiazzo.”

“Loro due sono amici, non è vero?”

“…e con questo?!”

“Non dico che quanto ha detto non sia la sua verità, ma l’amicizia può obnubilare.”

Non aveva torto. Non potevo escluderlo senz’altro, che quel barbuto visto a malapena fosse lui; però… ammazzare per risposarsi?! Suvvia, per non peccare d’adulterio, commettere un peccato d’omicidio? No, nemmeno se l’avessi visto: “Ne sono certissimo; e poi”, avevo mentito, “l’assassino era più magro del dottor D’Aiazzo.”

“Statura?”

“Direi… sul metro e settantacinque”: anche questa me l’ero inventata. L’assassino m’era parso invece di molto meno alto, dieci centimetri di meno: proprio come Vittorio.

Vittorio Il Barbuto

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