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CAPITOLO I

Era il 30 marzo 1972 ed erano quasi le 19, ora di New York. Tra breve sarebbe iniziato il banchetto elettorale del governatore Montgomery e io e Mark Lines, mio editore negli Stati Uniti, uomo magro cinquantenne di media altezza dai folti capelli sale e pepe, stavamo giungendo all’Hotel Wellington, il cui salone delle conferenze era stato adattato per l’occasione a locale da conviti.

Donald Montgomery, giovane e ambizioso miliardario in dollari, era in testa alle elezioni primarie del suo partito, in corso da gennaio, in vista delle presidenziali di novembre, e nutriva la forte speranza d’entrare alla Casa Bianca battendo l’attuale presidente, M. N. Richard, che intendeva presentarsi per il secondo mandato.

Una volta scesi dal taxi, dopo che, come nel suo carattere, aveva lasciato a me l’incombenza di pagare, Mark m’aveva detto: “L’amico Donald spererebbe vivamente in qualche tua parola pubblica di simpatia, dato che ti salvò la vita nel corso di quel brutto affare”: me l’aveva buttata lì solo a quel punto, mentre quella mattina, essendo io nel suo ufficio per gli accordi sulla pubblicazione del mio ultimo libro e la cessione dei relativi diritti cinematografici, s’era limitato a trasmettermi l’invito al banchetto. Sapevo che il Lines era non solo un amico, ma uno dei grandi elettori del Montgomery e non m’ero stupito per la sua richiesta, ma un poco essa m’aveva contrariato; avevo tuttavia accondisceso, perché era vero che, nel luglio del 1969, il governatore, allora direttore dell’FBI per quello stesso Stato di New York che adesso guidava, m’aveva salvato la pelle, minacciata da un pazzo criminale internazionale: sia pure non lui da solo, ma assieme a molti suoi agenti e al mio amico Vittorio D’Aiazzo, vice questore a Torino che, in quei giorni, era in missione a New York a caccia di quel folle1.

Nel salone del banchetto c’era un vociare tale che, entrando, m’era scoppiato subito uno dei miei mali di testa. Gli ospiti s’erano zittiti all’arrivo del governatore, ma solo per alzarsi in piedi e tributargli un applauso così fragoroso da essere, per me, una stilettata nel cervello.

Tra gli altri sedevano al nostro tavolo due attori quarantenni, Burt Cooper, famoso interprete teatrale prestato qualche volta al cinema, alto, magro e di pochi capelli ch’egli teneva rasati, e Robert Avallone, detto il toro per la sua straordinaria muscolatura, interprete solo cinematografico. Non era stato per caso ch’erano stati posti assieme a noi; essi avevano infatti interpretato un film basato sulla mia avventurosa esperienza americana di tre anni prima, il Cooper nella parte del matto che aveva cercato d’uccidermi dopo avermi torturato, e il toro quale mio alter ego; poi il solo Avallone, sempre nella parte di me stesso, Ranieri Velli, scrittore e giornalista italiano e, in passato, poliziotto agli ordini dell’amico D’Aiazzo, era stato protagonista d'un secondo e terzo film ispirati a miei successivi romanzi, anch’essi sostanzialmente autobiografici. Non c’era alcuna somiglianza fisica tra noi due; intanto, l’attore era barbuto e io no, anzi detestavo i peli sul viso tanto che, poiché pure l’amico Vittorio portava la barba, più volte l’avevo spinto a radersi, anche se invano; inoltre l’Avallone era bruno e io biondo, portava i capelli molto lunghi mentre io li avevo cortissimi e con sfumatura alta, ed era alto un metro e settanta centimetri mentre io arrivavo all’uno e novanta; ma era stato scelto lui dalle produzioni perché, a quel tempo, era il divo che indirizzava più soldi ai botteghini: il pettegolo Mark, quando avevamo preso posto, poco prima che l’attore giungesse, avendo notato il cartellino sul tavolo col suo nome, m’aveva riferito che Robert portava la barba per nascondere una profonda cicatrice al mento infertagli con una rasoiata quando, ancora adolescente, era stato uno dei tanti teppistelli del Bronx; m’aveva inoltre invitato a osservare, quand’egli fosse arrivato, le speciali scarpe ortopediche che indossava per sembrare più alto di otto centimetri. Più che l’Avallone però, aveva attratto il mio interesse Burt Cooper che non m’era parso affatto tranquillo: s’era guardato attorno alcune volte, circospetto, mentre raggiungeva la nostra tavola, e a più riprese anche in seguito, con viso costantemente inquieto.

Dopo gli antipasti, sebbene non provassi gran simpatia per il Montgomery che, per come l’avevo conosciuto in passato, consideravo un freddo robespierre, su nuovo invito di Mark avevo accettato d’alzarmi e recarmi al leggio che affiancava il tavolo dominante, dove sedeva il Montgomery coi suoi, per pronunciare verso di lui parole di stima e di ringraziamento per avermi salvato la vita. Ovviamente, cogliendo l’occasione, avevo anche parlato del mio romanzo in prossima uscita e del film che ne sarebbe stato tratto. Al termine, mentre si levavano gli applausi di prammatica, ero tornato senz’altro al tavolo, mentre il Montgomery s’era alzato ed era andato a sua volta al leggio: qui aveva ringraziato me per la stima, poi aveva evocato nei dettagli quel caso criminale, calcando sul peso della propria partecipazione. Dopo di lui s’era alzato un suo collaboratore e, giunto al suo fianco, aveva sottolineato che nel 1969 l’intervento “intelligente e sprezzante del pericolo” del governatore contro quel pazzo, noto criminale cosmopolita, era stato essenziale per la salvezza della salute nazionale e la difesa della democrazia. A quel punto il mal di testa m’era talmente salito che avevo solo desiderato andarmene a letto, anche perché la mattina dopo avevo il volo per Torino. Stavo per dire a Mark che, educazione o no, me ne sarei andato, quando…

Vittorio Il Barbuto

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