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A mia moglie, Virginia Adele Manganella.

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Mia cara Lilla, questo romanzo, cui io metto in fronte il tuo nome come un auspicio di grazia e come un usbergo di gentilezza, è tuo di diritto. Tu non mi sei stata solamente consigliera, ma collaboratrice. Ti ricordi le nostre passeggiate pei boschi di Quisisana e lungo i quais della via Caracciolo, al tramonto, durante il mio lavoro? Ragionavamo insieme di questo romanzo, apprendemmo insieme ad amarlo prima che fosse scritto. E quante volte nelle nostre fantasticherie non ci sembrava che l'irrequieto e doloroso Giuliano Farnese, o la dolce ed austera Beatrice, o l'appassionata e delusa Claudina Rosiers fossero stati fra i nostri amici più cari e più intimi? Il sole tramontava e Posillipo sembrava un azzurro frammento di paradiso caduto nel liquido zaffiro del mare, un giorno in cui un dolce poeta ed un'amica amorosa, nella primavera del loro amore, avevan impetrato dagli dei clementi un po' di paradiso in terra.

Questo romanzo, dunque, ha per te un valore d'affetto. Toltogli questo, è probabile che nessun altro ne resti per coloro che lo leggeranno. Nè di ciò mi dolgo, poichè solamente mia ne sarebbe la colpa. Io vorrei però che a questo libro si riconoscesse un sol pregio: quello di essere stato scritto sotto la norma severa di un convincimento profondo. Questo mio convincimento, derivato dalla lezione della vita e da quella dei romanzi, consiste nel fatto che l'arte non può essere altro che specchio fedele della vita e che nell'arte senza la sincerità non v'è salvezza di sorta. Le fastose porpore e gli ori e i broccati dello stile, l'opulenza delle imagini, l'armonia della linea non possono oggidì costituir da sole l'opera d'arte, ma solamente la fatica sterile se pur prestigiosa del virtuoso. Il pensiero non può mancare a un libro odierno e il lettore dovrebbe, dopo sfogliato l'ultimo foglietto, ricavarne un insegnamento o una norma.

Se a questo io son riuscito con questo mio romanzo altri diranno. Io ho voluto far dell'arte il riflesso della vita, e questo con una sincerità illimitata. Oh, il godimento che lo scrittore prova quando sinceramente scrive quel che sinceramente ha sentito o veduto! Non si hanno più allora i dubbii e le inquietudini e gli scoraggiamenti cui tanti scrittori van soggetti durante l'esecuzione di un loro lavoro. Essendo stato sincero, lo scrittore può reputare d'avere adempiuto al massimo dei doveri di chi prende in mano una penna. Mon verre n'est pas grand, diceva Musset, mais je bois dans mon verre. E questa che sembra modestia è invece il più grande orgoglio. Ma è un orgoglio benedetto quando si tratta di accingersi a compiere una più o meno modesta opera d'arte.

Molte delle ultime pagine di questo romanzo, mia cara Lilla, sono state scritte in giorni per noi angosciosissimi, tu lo ricordi. Il nostro piccolo Diego malato, mia madre colpita gravemente dalla furia del male. Eppure mia madre pretese ch'io portassi a termine questo libro, e quante di queste pagine io ho scritto in un'ansia crudele, interrompendomi ogni momento per passare nelle stanze contigue al mio gabinetto da lavoro a udirvi il respiro della cara inferma, a seguirvi gli alti e bassi del male, trepidando. Forse esse si risentiranno di questa febbre durante le quali furono scritte? Non so. Comunque tu, cara e dolce Lilla, vorrai gradire tutto il libro come un'affermazione d'affetto e un nuovo monile di tenerezza e di devozione che ha voluto significare in questa pagina il tuo

Roma, 18 febbraio 1900.

Renato.

Il Miraggio

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