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Appressamento alla guerra.

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Brescia, 14 agosto.

ANDAR A VEDERE LA GUERRA.... È un'idea, anzi una frase, che mette i brividi.

È una frase, non un'idea. Una pura frase vuota di senso. La guerra non è una cosa che SI VA A VEDERE.

Ma appressarsi, accostarsi in qualche modo alla guerra, non per entrarvi nel mezzo per viverla per morirvi; così, per sentirne qualche riflesso men lontano; lasciarla distinta, così, là, in faccia a noi, nel panorama; e noi qua, più vicini ch'è possibile, ma non tanto, non dentro; noi ed essa; la cosa e la persona: la persona mette davanti alla cosa un suo specchio, e poi in quello specchio, in quel pezzo di specchio stinto, che le trema tra le mani, vi fa vedere la guerra, la sua la vostra guerra.... È una cosa che dà i brividi; ha del grottesco, del crudele, del puerile; è un mezzo sogno, piuttosto penoso e stridulo; mette in un disagio ineffabile la logica e la passione dei nostri poveri cervelli e dei nostri cuori anelanti di traboccare.

Andiamo a mettere uno specchio davanti alla guerra?... Forse non ne avremo mai un senso più preciso, improvviso e avvolgente, di quello che dà, nell'alba, usciti da poco dalle città e dalle campagne il cui dovere e il cui eroismo è continuare in apparente tranquillità la vita di prima, l'accorgersi che si entra nella zona sacra alla grande avventura, perchè gli ingressi delle libere strade son guardate dai primi uomini della guerra, e perchè procedendo tra due distese di mèssi e di lavoro pacifico si raggiungono lunghe file di carri militari, guidati da soldati silenziosi, che guardano con occhi strani e vaghi verso il settentrione e l'oriente.

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Lo troveremo forse, il senso dell'appressamento alla guerra, più preciso e concitato, entrando in un villaggio di fuoco e d'acciaio, dove ogni ora del giorno e della notte si fucinano le armi e i proiettili: la metallurgica della vittoria d'Italia.

Trent'anni sono erano tre piccole costruzioni isolate tra il silenzio dei campi: poi crebbe e prese l'aspetto di un grande stabilimento, irto di camini fumosi: oggi è un intero paese. L'ultima crescita fu prodigiosamente rapida. Un anno fa lo stabilimento copriva quattro chilometri quadrati, e vi lavoravano mille e settecento operai; oggi l'estensione è raddoppiata, e gli operai sono circa quattromila, e non bastano ancora. Ogni giorno aumenta il numero dei chilometri e degli uomini. Presto ai lavori più leggieri saranno adoperate anche le donne.

È una tradizione regionale. Ho percorsa in altri tempi una di queste valli minori: in ognuno dei paesetti che si specchiano nel torrente che la corre, si fabbricano armi, da secoli. Anche dove non hanno se non ordigni preistorici, date a quegli uomini un pezzo di ferro, ve ne faranno un magnifico pugnale.

Se dicessi la quantità della produzione giornaliera di armi automatiche e di proiettili di questo solo stabilimento sarebbero numeri da mettere spavento. Specialmente ai nemici....

Ma visitando una fabbrica d'armi come questa, non si pensa ai nemici. Non vien fatto di ricordare l'impiego di questa produzione, gli effetti di questa causa, tanto la vita del paese di fiamma e di ferro appare piena, organica, in sè compiuta e perfetta.

I sensi sono completamente afferrati, scossi e dominati dallo spettacolo nuovo e strano, e non lasciano luogo alla riflessione. Entrando nei primi cortili, tutto quel cumulo di rame e d'ottone, dischi verghe cilindri, tutto quel colore barbagliante, gialli di sole, rosei di pampini ancor pallidi del primissimo autunno, pare una festa: è un'inquietudine tutta sensuale; sono gli occhi soli, che s'ubriacano di colore vivo.

L'impressione si trasmuta di colpo, affacciandosi a uno degli immensi stanzoni bassi e quadrati dove si lavorano i bossoli. Nero a perdita d'occhio, rigidità di linee diritte e d'angoli retti, in una prospettiva di travature orizzontali e verticali. Con qualche esitazione si avventura il passo in quella foresta, con qualche lentezza l'occhio comincia a scorgere disegni vari nell'intrico uniforme, ad accorgersi che quella rigidità è piena di movimento, a scoprire la curva delle ruote, la morbidezza delle cinghie, e tutte le velocità le trasmutazioni gli avvivamenti di quel paesaggio strano, ch'era apparso da principio una morta fantasia cerebrale, che vediamo ora ne' suoi cicli perpetui di vita creante, mobile e intenso come la vita di una terra fertile osservata nel suo più profondo. Ma una natura maravigliosamente rapida nell'opera di creazione e di trasformazione senza posa. Una trave di metallo morto, inerte: ed ecco passa in un forno da cui escono vampe candide; qualche cosa la lancia fuori, a terra; una tenaglia l'afferra, la pone davanti a una sega meccanica: e noi seguiamo uno di quei pezzi, ancora rovente; non ha tempo di cominciare a imbrunire ed è già sotto una pressa idraulica che ne ha fatto un cilindro; e passa in un'altra macchina mostruosa che lo perfora, e in un'altra che ne regola il calibro, sempre sprizzando vampate rosse e scintille bianche, e intanto dietro quello altri di macchina in macchina già ne hanno inseguito il cammino, quasi più rapidi del nostro sguardo e del nostro passo; perchè abbiamo appena finito di attraversare la serie e già vediamo disposti a terra quei pezzi, che non sono più pezzi di ferro, sono bossoli di granate e di shrapnells. Stanno freddandosi.

Dall'ultimo al primo, mentre freddano, è una curiosa scala di colori in gradazione lentissima dal candido al vermiglio al rosso al paonazzo al violaceo al bruno. Shrapnells e granate di ogni calibro, pistole e fucili automatici, mitragliatrici, nascono in questo modo rapidissimamente e si compongono, fioriscono, sotto il lavoro preciso e continuo dei forni, dei torni, delle seghe, delle presse, delle trafile, delle pompe, dei trapani, delle fresatrici, delle limatrici. Se possiamo fermarci a esaminare partitamente qualcuna delle operazioni più sottili della lunga serie, la nostra maraviglia si rinnova di fronte alla finitezza di lavoro che l'ingegno umano ha saputo raggiungere per mezzo dell'automatismo apparentemente più bruto. Penso al tornio che incontro alla verga incandescente porge e spinge uno dopo l'altro, di fronte e di fianco, quattro cinque sei coltelli e scalpelli di taglio diverso, onde il pezzo n'esce complesso e rifinito come per il più paziente lavoro di una mano destra, vigilata continuamente da un pensiero attento e preciso.

Un'altra ragione di maraviglia è osservare come questo lavoro di produzione quotidiana ed enorme non abbia nulla di febbrile. È come la nostra storia di questi giorni, di quest'anno. I posteri li chiameranno giorni di ansia e di febbre, e non sono tali, perchè il fervore degli uomini forti e delle azioni grandi è stranamente calmo e misurato ne' suoi atti esteriori.

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Ma più maraviglioso ancora si è, che uscendo dal luogo ove abbiamo visto nascere i più formidabili strumenti di distruzione, ci accorgiamo di non aver mai avuto pur un momento sotto gli occhi l'immagine della distruzione e della morte. Neppure sporgendoci sopra le lunghe fosse ove si fa la prova delle mitragliatrici, ove si vedono vertiginosamente vuotarsi i caricatori crivellando le tavole del bersaglio, non abbiamo pensato agli uomini che saranno al luogo di quelle tavole.

Ho detto già come l'impressione di questo luogo e di questo lavoro sia quello d'un mondo e d'una natura, compiuti nel loro organismo e nella continuità della loro creazione. Il mondo produce vite, e poi altre vite e altre vite ancora, e il contemplarne l'opera ci appaga, e solo nei momenti della tarda riflessione l'uomo si domanda lo scopo di quelle vite nel perpetuo, e solo per una specie d'ozio vano tenta di pensare il creato come una causa. Nello stesso modo, solo ritornati nella strada silenziosa, allontanati dal paese di fuoco e di ferro, ricordiamo com'esso abbia uno scopo, e preciso e formidabilmente immediato e vitale.

Ma è un tardo atto di riflessione. Non è ancora un sentimento. La guerra è ancora lontana. Il viaggio nel paese delle armi non è ancora un appressamento alla guerra.

Dallo Stelvio al mare

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