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La via di Trento

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Ala, 23 agosto.

Ognuna delle grandi e fonde retrovie che stiamo visitando, lunghi e complessi meandri di avvallamenti e di alture, ha un suo carattere e un suo colore e una sua voce specialissimi, quali sono imposti ad essa dalla natura dei luoghi e dal modo di guerra che fino a oggi l'ha fronteggiata. In Valtellina e in Valcamonica i silenzi vasti dell'alta montagna non paion vinti neppure dal calpestìo infinito delle file di salmerie che rigano ogni viottolo, e le sfilate dei soldati mantengono quel carattere di malinconia taciturna e intimamente inquieta che è caratteristica degli abitatori dei monti. Invece nelle valli del Trentino meridionale, specialmente in Val Giudicaria, c'è più sole: suona di vetta in vetta più frequente il cannone, mentre tuttavia la curiosità del viandante è attratta specialmente al suolo su cui fioriscono e s'intricano continui gli agguati della difesa. Ivi il soldato e l'ufficiale paiono più giocondi e la loro fede nel domani si colora di un entusiasmo più rumoroso. Sentite ancora lo slancio del balzo improvviso onde qui si son portati più innanzi che sugli altri punti del confine. Nelle valli laterali del Veronese l'attenzione si porta specialmente verso l'alto, ai formidabili rafforzamenti delle cime. Guardano alle cime sempre i soldati di là, anche dal fondo delle trincee più in basso. Ripensato poi nel suo assieme l'aspetto militare delle tre vaste retrovie è di sicurezza, di permanenza, di incrollabilità.

Non mi è possibile giustificare con particolari di fatto, che la illustrerebbero perfettamente, una mia chiarissima impressione: ed è questa, che di mano in mano che la linea avanza essa si fa confine destinato a non arretrar più, nemmeno per transitoria sventura di guerra, perchè immediatamente alle sue spalle qualche cosa viene di continuo solidificandosi, cristallizzandosi, integrandosi subito con la natura gigantesca e rude del suolo.

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Qualche cosa di tutti questi caratteri insieme, e in più un aspetto suo particolarissimo, ha la linea centrale e fondamentale per cui si penetra nel cuore del Trentino, fino a Trento stessa, cioè la Val d'Adige, scavata profondamente tra pareti diritte e altissime di pietra nelle tragiche Chiuse, poi mano mano aperta su scenari più larghi, di linee più sobrie, solenne sempre anche dove è più verde.

È curioso e insieme ben naturale l'interesse e l'animo specialissimo con cui ci si accosta ai luoghi ch'ebbero maggior risalto nei bollettini ufficiali, sovrapponendo un'immagine viva sui nomi che — è pur da confessare — riuscivano nuovi e rimanevano vaghi alla comune ignoranza italiana della geografia nostra di questa regione.

Ma in questo tratto ne troviamo invece i nomi più noti, quelli che al nostro lungo desiderio sonaron sempre più significativi; e quando il quarto comunicato di guerra ci disse presa Ala, ci orientammo immediatamente, ci sentimmo uscire dalla strategia, ebbimo subito il senso geografico dell'avanzata nazionale. L'Adige era il fiume irredento per eccellenza. Rovereto e Trento: due nomi che riassunsero sempre alla nostra mente tutta la regione, in quanto essa doveva avere di più profondamente italiano. Anche ora e anche correndo le altre valli, le più meridionali, o le laterali della regione, in qualunque punto siamo, i soldati hanno da indicarci una cima o un costone a destra o a sinistra o di faccia, o almeno almeno una nuvola che in quel momento si sia alzata dall'orizzonte verso noi, e ci dicono con una specie di malizia: — sotto quello, vede? di là, un po' più in qua, c'è Trento. — Oppure si riferiscono a Rovereto. Anche senza conoscere il nome di Rosmini, Rovereto ha per loro un grande valore d'italianità.


È come un anticipo di Trento. Ci sono ancora nelle strade maestre tornate nostre le indicazioni chilometriche poste dal vecchio regime, e si riferiscono tutte a Rovereto e ciò le fa eloquentissime: a Rovereto km.... I puntolini rappresentano un numero piccolissimo. E molti di quei soldati, creo, a Rovereto si sono avvicinati molto, alla spicciolata, in pochi, per ordini o per iniziative individuali, per ragioni militari o per invincibile curiosità.

Ora, come Rovereto per Trento, così è un poco Ala per Rovereto: Ala che fu subito nostra, ma nostra del tutto solidamente per sempre, in quel primissimo slancio che ci creò di colpo un confine nuovo e sicuro, tale da permetterci di cominciare di là la guerra lente e precisa, di penetrazione immediatamente seguìta da rafforzamenti, che è il capolavoro quotidiano del nostro esercito e del nostro comando.

Ricordate:

Il 24 maggio le nostre truppe prendendo ovunque l'offensiva occuparono i seguenti punti: Forcella di Montozzo, Tonale, Ponte Caffaro in Val Giudicaria, terreno a nord di Ferrara di Monte Baldo, Monte Corno, Monte Foppiano sul versante nord dei Lessini, Monte Pasubio, Monte Baffelan, alle testate delle valli Agno e Leogra, alti passi nella Val Brenta.

Era come una mano che avesse afferrata intera, intorno intorno, la preda viva e cominciasse a stringerla. Il giorno dopo:

Fu occupato anche il monte Altissimo di Monte Baldo.

Dall'Altissimo scendemmo subito giù verso Val d'Adige, e risalimmo il fondo della valle sino ad Ala. Infatti, due giorni dopo:

27 maggio — Truppe di fanteria rinforzate da guardie di finanza e da artiglieria, da Peri per le due rive dell'Adige avanzarono verso Ala. Espugnato il villaggio di Pilcante, coperto da più ordini di trincee, si impossessarono solidamente di Ala. Il combattimento durò da mezzogiorno a sera.

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Ventisette maggio. E il nostro animo esulta quando, entrati in Ala, vediamo il nome di 27 maggio su di una delle vie principali. E un'altra si chiama via Umberto I, e un'altra via Vittorio Emanuele III. Ma la nostra commozione si fa dolorosa scorgendo, sulla piazza in cui quelle vie convergono, il nome: Piazza Antonio Cantore.

Ala è occupata solidamente. Quei quattro nomi sono la miglior garanzia della solidità della nostra occupazione.

Procedendo a ritroso dell'Adige su, verso Rovereto, vedremo prove più positive di questa solidità. Per ora abbandoniamoci al senso indefinibile di agio che ci avvolge entrando in Ala, rimanendovi, come ho voluto fare, un giorno e una notte, per sentirmi attorno un po' strettamente la vita della città.

Senso di agio, ho detto. Forse qualcuno si aspetterebbe piuttosto quello dell'entusiasmo. Non è così. Anzi, sulle prime, discorrendo con quegli italiani tornati alla patria, vi sorprende qualcosa che può sapere di indifferenza. Venuti dalle città lontane, dove si sbandiera a ogni occasione, supponete che ogni trentino redento non debba far altro che parlarvi del grande avvenimento, vi aspettate da tutti il racconto del gran giorno — 27 maggio — e sfoghi contro l'antico regime ed effusioni di beatitudine per il nuovo, con valanghe di episodii.... Nulla di tutto questo. Bisogna interrogarli, per sentirsi dire le poche cose semplici e ormai ben note che vi possono dire intorno agli anni che precedettero e ai giorni che seguirono il 27 maggio del 1915. Poche parole, semplici, sintetiche, asciutte e timide insieme. Andate invano, qui, a caccia dell'aneddoto episodio: se ci tenete dovete immaginarlo da voi. Questo sulle prime, come dicevo, sorprende e disorienta. Possibile che sia indifferenza? In tutti tutti? Non è indifferenza. Non so spiegare con una parola sola che cosa sia. Intanto è un poco di pudore del parlare d'una cosa molto sacra, che è stata loro a cuore per molti anni, che hanno raggiunto quando quasi ne disperavano. È difficile che l'uomo ami parlarvi e lasciarvi parlare di un grande e arduo amore che abbia finalmente raggiunto il suo sogno. Solo gli amanti delusi si sfogano lungamente.

Pudore, dunque. Ed è ancora pudore quello che impedisce ai rinati di soffermarsi a ricordare un tempo che u per essi — ve ne accorgerete subito — di umiliazione più ancora che di sofferenza materiale.

E poi c'è anche qualche cosa di più. Un sentimento molto onesto e spontaneo, che è piacevole e consolante riconoscere. Ed è, che ciò che è avvenuto par loro naturalissimo. Sono sempre stati e si sono sempre sentiti italiani così intensamente, così ingenuamente, che il suggello politico alla loro italianità non ha per essi nulla di maraviglioso: è appunto quell'elemento che solo mancava al compiuto equilibrio delle loro condizioni esteriori di nazionalità, ma nell'intimo, nell'animo, l'equilibrio era già raggiunto da un pezzo, non era stato scosso mai. E sono i turbamenti dell'animo quelli che lasciano più dura traccia e più lunga memoria e maggior desiderio di rinfrescare e rivangare continuamente il passato anche dopo che è stato superato da un pezzo. Per queste ragioni — o per altre forse più sottili — Ala è tranquilla. Non è indifferente. Ama i soldati numerosissimi che la occupano e l'avvivano, accoglie con piacere i visitatori che vengono dalle città più lontane e più antiche del regno. Questa tranquillità del resto non impedisce le manifestazioni simpatiche, che si rinnovano per esempio ogni sera quando in piazza Antonio Cantore suona la banda militare, eseguendo specialmente marce guerresche e inni patriottici. Degli inni patriottici il più popolare è anche qui quello di Mameli.

Questa stessa tranquillità serena v'impedisce di accorgervi subito del disagio che la condizione di Ala ha necessariamente lasciato tra gli abitanti. Per esempio, non vi avvedete subito dell'assenza di uomini. Tranne qualche giovane che combattendo in Galizia fu ferito, ed era qui a curarsi quando l'occupazione italiana lo raggiunse e lo liberò dall'obbligo doloroso, non ci sono qui, di maschi, che pochi vecchi e molti fanciulli. Ma in compenso ci sono tanti soldati e noi abbiamo talmente fatta l'abitudine in altre città — basterebbe Verona per citarne una — alla preponderanza dei militari, che non ci rendiamo conto dell'assenza di uomini del paese. Mi pare che anche le donne di Ala abbiano la stessa impressione.... Non sono tutte straordinariamente belle le donne di Ala. Ma hanno, specialmente le fanciulle, una grazia morbida di sguardi e di voce che mi ricordò subito con dolce sorpresa le loro sorelle di Zara. Sia la somiglianza di buon augurio per le zaratine e per la loro terra. Quando avrò aggiunto che ad Ala non ho trovato nessun segno superstite del regime austriaco, e segni ce ne dovevano essere ben pochi — forse soltanto le buche delle lettere e le insegne dei tabaccai che furono subito rinverniciate —, e che nella casa che mi ospitò la notte (gli alberghi son pieni) il mio sonno era vigilato dai ritratti di Carducci, di Garibaldi, di Cavallotti e di De Amicis — credo che il lettore potrà lasciarmi uscire da Ala, e che vorrebbe accompagnarmi fuori, più in là, più su a ritroso dell'Adige, il più vicino possibile a Rovereto.

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Perchè Ala servì da punto di partenza per estendere l'occupazione alla zona orientale della valle. Salimmo di qua, il 31 di maggio, la cima del Coni Zugna, che per Zugna Torta scende verso Nord su Rovereto, e che per il suo versante orientale domina la Vallarsa che a Rovereto si congiunge con la Val d'Adige. Intanto nella via centrale della valle ci estendemmo e fortificammo fino oltre Serravalle, su entrambe le rive, a fronteggiare le fortificazioni straordinarie che il nemico s'è preparate sul Biaena.

Ma il lettore non è munito di salvacondotto e tutte queste zone sono straordinariamente vigilate. Per questa ragione non m'è possibile lasciarmi accompagnare troppo in là, nè riferirgli quello che ho visto. Immagini le opere di difesa più complete, complesse e sottili che quella specie di tecnica di brigantaggio che è sempre la guerra di montagna, congiunta alla necessità di ripieghi sempre più astuti portata dai mezzi offensivi moderni, possa aver suggerito all'esercito più geniale del mondo — il nostro —; e avrà forse un'idea delle opere di trinceramento e di appostamento che fiancheggiano l'Adige, sempre più in là, sempre più su, fino a un punto elevato donde, incuranti dell'osservatorio austriaco d'artiglieria che ci stava proprio di faccia vicinissimo, abbiamo potuto scorgere uno svolto di valle e lo scorcia di un'altura battuti dal sole come da un indice di speranza. Dietro quelli, immediatamente dietro, quasi visibile nelle sue prime case, sta Rovereto ed aspetta.

Dallo Stelvio al mare

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