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Dallo Stelvio all'Aprica

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Aprica, 17 agosto.

Come una linea tortuosa, interrotta ne' suoi continui frastagliamenti; ma grado grado, a procedere, si fa sempre più grossa e più rossa, sino alla fine. Tale è la nostra guerra, dallo Stelvio al mare: dall'alta Valtellina ove gli avversari si sorvegliano fermi e saldi, alla mischia grossa che incendia la regione dell'Isonzo. Per questo il viaggio dallo Stelvio a Monfalcone in margine alla linea del fuoco, sarà un inoltrarsi graduale, sempre più addentro, nella sensazione della guerra: e per questo anche l'interesse del lettore, leggendo le note che al viaggiatore sarà stato possibile cogliere, dovrà gradatamente e naturalmente farsi sempre più vivo.

Ho detto che gli avversari, nella regione dello Stelvio, si guardano, fermi e saldi. Ciò va inteso con discrezione. Non azione definita, non complessità di movimenti, non vasti effetti raggiunti: ma stanno due nemici, uno in faccia all'altro, a sorvegliarsi e tenersi a freno. Fucilate, via, se ne tirano sempre: e se ne sono tirate anche qui fin dai primi giorni, e qualche cannonata anche, e s'è fatto qualche audace corpo a corpo. I due paesi avversi penetrano uno nell'altro strettamente per le frastagliature dell'artificioso confine: le cime e le depressioni continue su cui questo confine è tracciato, formano una bizzarra linea di posizioni d'offesa e di difesa. Una cima italiana guarda giù, in una valle austriaca; un costone nostro termina in una sella che la geografia politica assegna ai nemici. E così via. E tutta la linea del confine è marginata, di qua e di là, da due linee di avamposti, i nostri e i loro, e dagli uni e dagli altri partono continuamente pattuglie di sentinelle in ricognizione di avanscoperta; in più, i punti più importanti di quel frastaglio sono occupati o battuti da trinceramenti o da forti.

Ecco dunque uomini, gruppi di uomini, uomini nemici, uomini armati, i quali ogni tanto si vedono gli uni gli altri; là in faccia su quel pendìo, giù ai piedi in quel fondo di valle, sovra il capo su quella balza che si sporge. Sono fucilate e cannonate quotidiane, utili a mantenere vivo il rispetto nel nemico e indispensabili anche a tenere in regolare equilibrio il nostro ardore.

Dalla cresta della Forcola stanno silenziosi a vedere il duello i soldati svizzeri. Perchè al valico dello Stelvio, sotto il Dreisprachenspitz (o, come noi lo abbiamo ribattezzato, il Pizzo Garibaldi), passa il vertice della triplice frontiera italo-svizzera-austriaca.

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Ma non c'è da temere che nella inazione il nostro ardore s'addormenti: al contrario, si esaspererebbe. Non può credere, chi non li ha sentiti parlare, quanto i soldati e gli ufficiali posti qui a far da colonna o da perno nella regione ove non si deve avanzare, soffrano di non potersi gettare a capofitto contro il maggior pericolo.


Ognuno di essi legge i giornali e pensa alla Carnia e all'Isonzo con invincibile invidia, e ognuno d'essi (e sono tanti nella valle, che n'è tutta carica come un'arma pronta!) implora almeno come minimo di soddisfazione di far parte d'una pattuglia, di poter vedere, almeno una volta, l'austriaco. Quando lo vede, gli dà la caccia. Questa ci frutta ogni tanto anche qui, dove la guerra è ancora in attesa, qualche incerto di prigionieri nemici che i tranquilli paesi di montagna vedono passare con una gioia memore dei fasti valtellinesi del Risorgimento.

Ma alcuni fatti d'arme raggiunsero anche qui una notevole importanza: quelli in cui abbiamo provato la solidità della nostra difesa in occasione di tentate irruzioni del nemico, e quelli con i quali una avanzata, materialmente brevissima, ci ha dato il possesso di cime che dominano valli verso il cuore del Trentino, rovesciando in qualche punto la situazione strategica iniziale.


È dei primi quello del 9 agosto. L'iniziativa fu dei nemici, che avevano tentato di attaccare il gruppo di montagne ghiacciate Ortler-Cevedale. Insieme con l'Adamello, esse costituiscono le porte, porte ben ferrate dalla natura, di questo confine. Dall'altissima Val d'Adda si stacca verso oriente la Valfurva, percorsa dal Frodolfo, e determina una specie di saliente molto smussato del nostro territorio entro la regione nordoccidentale del Trentino. Tutta una corona di ghiacciai protegge ivi il confine, ghiacciai che si stringono intorno all'Ortler (alto oltre 3400 metri) e al Cevedale (oltre 3700 metri). Il gruppo conta ben sessanta ghiacciai, dei quali il più ampio è il ghiacciaio del Forno. Dal passo del Cevedale, più su, e dal ghiacciaio del Forno, più giù, gli austriaci tentarono dunque l'impeto contro le nostre difese. Salirono al primo da Val di Sulden, all'altro dalla valle del Noce. Già i nostri avevano respinto le pattuglie venute innanzi a riconoscere il passo. I nemici tornarono la notte, penetrarono per il colle di Vioz passando sulla neve congelata, calarono giù per il ghiacciaio del Forno, presero contatto coi nostri all'albergo del medesimo nome, e contrattaccati fuggirono. Il simile avveniva degli altri che contemporaneamente eran calati verso la capanna che conchiude a nord la vallata del Cedeh, affluente del Frodolfo.

Un ufficiale austriaco che guidava il passaggio per Vioz, restò ucciso. Gli trovarono indosso una lettera dove annunziava, non si sa a chi, che egli si sarebbe spinto contro i nostri perchè gli italiani hanno paura, e altre siffatte affermazioni da comunicato ufficiale austriaco. Prima di esser colpito a morte deve aver avuto il tempo di ricredersi, chè vide i suoi uomini controinvestiti dagli italiani, in numero molto minore, e parecchi colpiti e gli altri messi in fuga, mentre dei nostri nessuno fu ucciso.


Contro il terzo monte del formidabile gruppo, cioè l'Adamello, già i nemici avevano tentato vanamente due assalti, uno il 15 e uno il 30 di luglio, valicando i passi di Venerocolo e di Brizio sul costone occidentale del gruppo dell'Adamello, e attaccando le nostre posizioni presso il refugio Garibaldi.

Meno ardua della via dello Stelvio appare, a nord dell'Adamello, la via del Tonale, e intorno al Tonale si combatte fin dal principio della guerra un duello d'artiglierie cui i comunicati ufficiali hanno accennato spessissimo, e la cui sorte pende ancora. A servizio della lotta per il Tonale si prese, fin dal primo giorno della guerra, la forcella di Montozzo (a 2625 metri) a nord del passo del monte, mentre gli austriaci sono fortificati a sud, sul Monticello (a 2550 metri). Così la lotta si trasportò sul ghiaccio (in cui sono scavate le trincee) sul quale sono trasportate, a tremila metri, le batterie. Lotta che da nessuna delle due parti vuol essere per ora di avanzata, ma soltanto di preparazione. La guerra di montagna è guerra per la conquista delle cime: chi è più in alto ha la ragione.

E noi in parecchi punti siamo riusciti a essere i più alti. Nella zona del Tonale, a sud dell'alto Noce, il 7 di agosto “i nostri reparti alpini — cito dal comunicato ufficiale — arditamente avanzando lungo la cresta rocciosa che si erge da mezzodì su valle del Monte, sorpresero e dispersero truppe nemiche trincerate a sud-est di Punta Ercavallo”. Intanto le artiglierie cacciavano altri reparti nemici da una posizione a nord-est della stessa punta. Le nostre artiglierie erano sulle rocce di Ercavallo, a più di tremila metri. L'operazione ci dette una posizione eccellente, in quanto da questa si può batter d'infilata la valle del Noce. Fu un nuovo passaggio apertoci nel Trentino.[1]

I soldati (molti di essi erano volontari di Valtellina e Valcamonica) che raccontavano, in un paese della Valfurva, qualche particolare sull'episodio del Vioz, mi dettero l'impressione che delle più caratteristiche di queste azioni sporadiche si venga nutrendo straordinariamente il fervore che la disciplina dell'attesa lunga non basta a contenere. Nutrono l'attesa e dei soldati e degli stessi montanari e valligiani del luogo.

Ebbi da questi ultimi la narrazione orgogliosa, come d'un'impresa loro, della distruzione compiuta dai nostri di un celebre albergo austriaco da cui emanò sempre un odore piuttosto militare che turistico.

Ma poichè i bollettini non ne hanno mai fatto cenno, forse perchè è apparso che l'episodio, sebbene lusinghiero per noi, non avesse grande portata strategica, non mi ci soffermo di più.

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Volendo e potendo soffermarsi sugli episodi, ce ne sarebbero in quantità; ma creda il lettore — se mai dall'odierno avvicinamento della stampa alla guerra combattuta si aspettasse una fresca mèsse di aneddoti eroici — creda il lettore che l'aneddoto singolo, l'episodietto staccato e ben conchiuso, se contribuirono da principio a darci un'idea chiara del valore e dell'energia personale — straordinarissima — dei nostri soldati, nulla valgono all'intelligenza della guerra nel suo complesso e nel suo svolgimento, nel suo organismo e nella sua dinamica: anzi distraggono, smembrano, frammentano. La guerra, la nostra guerra presente sopra tutte, non è un accumulamento, un sèguito, una somma di episodi, così appunto come un corpo vivo non è una somma di membra; e una guerra è un organismo vivo, e come ogni cosa che vive è un'idea che si attua, un pensiero che s'incarna nell'azione. E l'idea è unica, l'azione è unica: anzi idea e azione non sono scindibili se non per uno sforzo di astrazione che è necessario ma non corrisponde alla verità, costituiscono pur esse un indivisibile unico, anche se si raccontano a giornate, a momenti, secondo limitazioni di tempo e di spazio necessarie alle limitazioni delle facoltà umane. L'anatomia si fa sui cadaveri. Invece lo sforzo dell'uomo dev'essere appunto di superare al possibile la limitazione delle proprie facoltà fisiche, di costringersi a vedere nella storia non il fatto il momento la materia, ma la linea la vita l'anima; e noi nel caso nostro particolare dobbiamo sforzarci a contemplare e penetrare la nostra guerra presente sotto la specie della storia, che non muore. Non vogliamo abbandonarci alla curiosità della contingenza, sia pure eroica: tentiamo di accostarci all'anima immortale della guerra che è tutta la vita nostra dell'oggi e del domani.

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Come certe congiunture suscitano rapidamente gli affetti! Salutiamo i soldati dello Stelvio e di Valfurva, ove abbiamo passato poche ore, con la malinconia con cui si salutano amici assai cari, separandoci per vie diverse che probabilmente non s'incontreranno mai più.

Abbandono l'alta valle che s'immalinconisce delle prime piogge e dei primi freddi montani: i miei amici che restano non si accorgono ancora del freddo, tale è la fonte di calore che arde nei loro petti. Forse se ne avvedranno solo quand'esso li costringerà a una inazione anche maggiore.

Perchè presto, a superare i brevi duelli delle pattuglie che si sorvegliano dai picchi dalle conche e dai pendii, calerà ironica silenziosa e crudele la neve.

Ridiscendendo a valle, il chiarore mal certo del primo crepuscolo ci permette di cogliere tra la pioggia rada i colori e le forme in cui si snoda la strada e in cui s'inquadrano i piccoli villaggi solidi e grigi.

Vorrei percorrerla sempre di notte, questa strada silenziosa, per non vedere sulle case esterne dei paesi, sui muri di cinta e persino sulle rocce più in vista, le maledette scritte in tedesco che indicavano fino a poco tempo fa il migliore albergo o il più famoso luogo di villeggiatura o di cura agli insospettati nemici della nostra e di tutte le genti civili.

Le scritte mi perseguitano con un fastidio crescente. Qualcuna è stata cancellata, le più sono rimaste, e non perchè qui non si odii abbastanza il tedesco, e molto meno perchè si creda ch'egli un giorno possa ritornare, ospite ingombrante mal pagante e corruttore, in questo paese che non ebbe mai bisogno di lui. Tutt'altro. Ma si lasciano per una certa indifferenza alle manifestazioni esteriori, che ho riscontrato in tutti i paesi che si trovano assai vicini alla guerra.

È naturalissimo. Questi paesi combattono anche nella loro vita civile la guerra, assai più sensibilmente delle città lontane. Qui ognuno ha, a ogni giorno, a ogni ora, l'opportunità di prestar mano a un'opera di preparazione militare, di aiutare un soldato, di sacrificare materialmente un poco di sè e delle cose proprie. Che importa se un nome tedesco nereggia sopra una roccia dura e bruta come il nome e come chi lo portava?

L'impassibile montanaro passa oltre. Se glielo fate osservare fa un mesto sorriso e una spallata. Ma se insistendo gli domandate:

— E se i tedeschi torneranno qui?

I mazzum tucc! (li ammazziamo tutti!) — vi risponde.

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La frase, risentita ieri, m'ha fatto ricordare l'impressione di ostinata e laconica solidità che i valtellinesi m'avevan dato circa tre mesi sono, quand'ero venuto qui a principio della guerra. Si aspettava da un giorno all'altro la mobilitazione. Avevo lasciato a Sondrio l'ultima dimostrazione patriottica. Poi, venendo su per Tirano a Bormio, spingendomi in qualche punta verso l'Aprica e verso Livigno, tendendo l'occhio e l'orecchio al Tonale e allo Stelvio, correndo quanto mi è stato possibile in qua e in là questa Valtellina, bellissima di verde e di rocce, immagine magnifica della forza concentrata, silenziosa e incrollabile, avevo provato sulle prime un senso di maraviglia, quasi di isolamento. Apparivano sui muri dei paesi i manifesti della mobilitazione; e a me, reduce dalle dimostrazioni espansive della pianura, pareva di sentire l'eco degli applausi enormi con cui la penisola li ha salutati; ma una eco appunto, confusa e lontana come il suono indistinto che si sente dal sommo delle montagne, che par giungere di là da una zona di silenzio, pare fatto d'infinità e di lontananza, di un altro mondo, di un'altra vita. Così a me passando allora per questi paesi, e vedendo i contadini quando si fermavano a leggere i manifesti, senza gridi, senza commenti, senza affollamento. Quasi me n'ero sgomentato.

Mi bastò parlare con qualcuno di quei contadini silenziosi — con qualche vecchio, con qualche donna — per capirli.

Io credo che in tutta questa valle non ci sia un solo uomo, una sola madre, una sola fidanzata, un solo vecchio, che abbia paura della guerra, nè per sè, nè per i suoi che vanno a combatterla. (Tranne coloro, s'intende, che per ragioni ovvie furono subito invitati a sgombrare, e non furono pochi). La seguono tutti, la guerra, uno per uno, con un fervore contenuto e saldo, e senza impazienza. Noi cittadini siamo abituati a vedere nella impazienza il segno e l'espressione dell'ardore. Stando qui poche ore, ci accorgiamo che il nostro scalpitare continuo di cavalli imbrigliati è un'inferiorità.

Qui hanno un'affermazione sola: “mazzà i tudesch”: ammazzare i tedeschi. E la dicono con calma, come un bisogno e un proposito ben maturi e ben saldi nelle loro anime incrollabili. Un bisogno e un proposito quasi personali. Non hanno bisogno di riferirsi all'esercito quando parlano della guerra imminente. Si sentono tutt'una cosa con i soldati: parlano in prima persona. Nessuna popolazione come questa mi ha dato il senso dell'unità perfetta tra la patria e i suoi difensori.

E per giungere a questo non hanno avuto bisogno di propaganda, di letture, di persuasione di sorta. C'erano arrivati subito, allo scoppio della guerra europea. A mezzo agosto alcuni contadini s'erano presentati al deputato del luogo annunciandogli il loro desiderio di costituire un corpo di volontari per la guerra all'Austria. Si erano già raccolti circa in settanta. A mezzo agosto 1914, notate; quando appena il nostro governo aveva dichiarata la neutralità, e noi si cominciava a disputare se dovesse essere assoluta o relativa, vigile o addormentata, risoluta o brachicalante, ecc. ecc. Quei valtellinesi ne avevano immediatamente intuìto il valore. Li guidava un vecchio di settant'anni, cui l'onorevole domandò... se si sentisse atto alle armi. Il vecchio rispose: “de mazzà un tudesch so' amò bon”: di ammazzare un tedesco sono ancora capace.

E ne sono capaci davvero, tutti. Se in Valtellina non ci fossero i soldati, credo che i valtellinesi saprebbero difendere fino all'ultimo la loro terra, come difesero il passo dello Stelvio nel '48. Ma quanti ce ne sono, di soldati, per tutta la profonda retrovia di val d'Adda, fino all'Aprica! Ho avuto accoglienza ospitale tra gli ufficiali di un battaglione di alpini, in un paesino roccioso, in una stanza foderata d'abete; sotto le finestre la banda musicale degli alpini sonava fanfare gioiose, per la strada sfilavano le salmerie. Ho parlato con i soldati. Nello sguardo di questi la saldezza fredda dell'alpigiano s'accende a tratti di lampi d'entusiasmo, nei quali mi s'illumina con sicurezza profetica la vittoria del domani. Specialmente quando un ufficiale rivolge loro una parola densa di promesse e di affetto, un: “Ragazzi, ci siamo!” per esempio. Molti conoscono il fuoco: hanno fatto la campagna libica. Ci sono dei valtellinesi, dei bergamaschi delle alte valli, degli alpini del distretto di Aquila: una composizione sapiente, varia, solida: un'immagine concentrata della forza molteplice e una d'Italia. Parlano del fuoco e della morte con una semplicità che strappa le lacrime. Adorano gli ufficiali. A una cosa sola si mostrano restii: a essere impiegati nei servizi di rifornimento. Vorrebbero essere mandati avanti, tutti, subito.

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Sono giunto di notte ad Aprica, dove dalla Valtellina si passa in Valcamonica: ivi ho veduto il primo duello di artiglieria.

Dallo Stelvio al mare

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