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Terra redenta
ОглавлениеLodrone, 21 Agosto.
Per la prima volta poniamo il piede sull'antico confine. Ho viaggiato per un giorno in terra redenta.
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Su dal lago d'Idro si rivolge verso nord val Giudicaria, in cui scorre il Chiese, parallelamente alla valle dell'Adige, o Lagarina: le due grandi vie di comunicazione, cioè di possibile invasione, che il possesso del Trentino offriva all'Austria verso l'Italia. Val Giudicaria continua verso nordovest con val Daone che la ricollega alla regione dell'Adamello, verso est con val di Ledro che conduce al Garda.
Costeggiando il lago d'Idro, passiamo sotto la vecchia e teatrale fortezza d'Anfo; finito il lago, ove il Chiese vi sbocca, attraversiamo l'antico confine.
L'antico confine qui è un ponte sopra un torrefaccio. Di qua era regno d'Italia, di là era impero d'Austria. Ora di qua e di là è tutta Italia. È semplice. Parve semplice anche a Cadorna, quando un giorno, che era il secondo della guerra, disse alla nazione: “Le nostre truppe occuparono i seguenti punti: Forcella di Montozzo, Tonale, Ponte Caffaro in Val Giudicaria....” e così via una sfilata di otto o nove nomi, senza una parola di più. A noi cercare sulle carte quei nomi, cercare nella nostra immaginazione il valore attivo di quel fatto semplice: — le nostre truppe occuparono....
Non per questo luogo abbiamo cercato dei nomi sulle carte. Sono i nomi più famosi e più dolorosi della storia popolare d'Italia, la storia garibaldina. In questi luoghi la nostra impresa d'oggi si riallaccia più sensibilmente all'opera interrotta or è mezzo secolo. Poco prima di raggiungere il ponte, abbiamo salutato con un tremore indicibile un piccolo ossario che da una rientratura del monte s'affaccia come un monito e domina, da sinistra, la strada: l'ossario di Monte Suello.
E non qui l'immaginazione ha bisogno di sforzi per figurarsi l'azione: o meglio, ogni sforzo è inutile, perchè un'avanzata fatta di discese precipitose giù per queste chine, di ascensioni asprissime su per queste cime, di penetrazione temeraria dentro il fogliame fitto che protegge ogni agguato alle radici dei monti, un'avanzata di questo genere appare tanto più prodigiosa e inimaginabile quando vediamo con gli occhi quale suolo corrisponda alle impassibili designazioni dei comunicati di cui ci siamo nutriti fino ad oggi.
Mentre gli alpini precipitavano, ascendevano, penetravano, i bersaglieri prendevano d'impeto il ponte e avanti divoravano la strada e riconquistavano i paesi attoniti. Sul primo di quei paesi, Lodrone, c'è una grande, accurata iscrizione grafita sul muro: Regno d'Italia; e intorno intorno un bel fregio ancora pieno della soddisfazione con cui un soldato deve averlo disegnato due mesi sono. Poco più là, dall'altra parte, un'altra iscrizione, più vecchia, è rimasta intatta, memoria dell'antico regime. Suppongo che i conquistatori ve l'abbiano lasciata con un'intenzione ironica, perchè la scritta ammonisce:
Multa di cinquanta corone ai veicoli che avanzano troppo rapidamente.
L'esercito italiano è in multa.
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I comunicati del Comando supremo accennarono ancora, il 27 di maggio, a questi luoghi, annunciando estesa l'occupazione del terreno verso nord e nel tratto tra l'Idro e il Garda; il 30 specificarono l'occupazione di Cima Spessa, che domina la vai d'Ampola, comunicante con valle di Ledro; finalmente, il 2 giugno, annunziaron l'occupazione di Storo e di Condino e il collegamento di queste truppe, su per valle Daone, con i reparti alpini scesi sul Chiese dall'Adamello. Ma non basta avanzare. La conquista, arrivata direttamente ad un punto, si ferma ivi per qualche tempo, ma durante questo si allarga, si consolida tutt'all'intorno. Una prima avanzata per un tratto del fronte è fatta come di punte che si spingono avanti penetrando saldamente nella carne viva del paese di conquista. Poi a poco a poco gli archi che collegavano quelle punte si stendono, si appianano, vengono a stringere più da presso e rafforzare ai fianchi quelle sentinelle; e così rendono possibile a queste un altro lancio in avanti. Intanto occorrono azioni parziali di difesa, difficili come conquiste generali. Il 27 di giugno con un'audace spedizione un piccolissimo reparto di alpini riuscì a spingersi nel Ponale e interrompervi l'impianto idroelettrico che serviva i grandi proiettori elettrici con cui gli austriaci potevano vigilare i nostri movimenti notturni. Tutto il luglio fu impiegato nel respingere i tentativi nemici frequentissimi contro Val Daone, che avrebbe aperto loro la strada al Tonale e alla Valcamonica, e interrotta la stretta unità da noi faticosamente ottenuta tra le truppe operanti dallo Stelvio all'Adamello, e quelle operanti in Val Giudicaria: si snidarono quelle contro Passo di Campo, Cima Boazzola, Malga Leno. Importantissima su tutte, l'occupazione di monte Lavanech e di Cima Pissola ci dava, il 26 di luglio, il completo possesso delle alture del versante destro di Val Daone.[2]
Anche nella valle oltre l'Idro dunque, e nelle valli laterali verso il Garda, continua un'azione lenta di consolidamento, d'arrotondamento; sono costoni, cime, passaggi, che di giorno in giorno, a pezzi, vengono strappati al nemico: sono opere d'offesa che si spostano, è la prima linea che tende a diventar retrovia. Ed è, anche, dietro questa, il paese di confine che ricompone la propria fisionomia a paese d'interno, la città dominata che impara a respirare da città libera, il villaggio desolato e vuotato dalla guerra che viene ripopolandosi e riprendendo la propria vita di lavoro.
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Com'è triste un villaggio vuotato dalla guerra! Non al primo aspetto, che anzi è lietissimo. Le case più grandi sono piene di soldati: e qui non è il soldato impaziente che abbiamo visto nelle retrovie di Valtellina, immalinconito dall'attesa del fuoco. Qui i soldati sono quasi nel vivo della guerra; l'azione maggiore può attenderli da un momento all'altro, e intanto le azioni minori sono frequenti e le mani non stanno mai troppi giorni inoperose. Perciò questi soldati sono allegrissimi, e il loro moto per la piazza e nella via maggiore del paese e su e giù per le scale delle case ridotte a caserma, è rumoroso e pieno di canti e di ragazzate gioconde.
Ma nelle strade minori stringe l'animo un gelo di morte. Quasi tutte le case sono aperte, le imposte e le porte a metà divelte. Su per le scale sudice son rimaste le miserabili tracce della fuga precipitosa. Nelle stanze qualche resto di masserizia, qualche vestito cencioso, qualche suppellettile, si trascinano penosamente lungo i muri brulicanti di ragni stupefatti.
A monte di Condino è un vecchio convento, nelle stesse condizioni, ma grande, arioso, aperto a panorami accidentati e verdissimi. Anche qui la stessa desolazione, e in più molta paglia, un po' dappertutto, chè i soldati austriaci dovettero rimanervi acquartierati qualche tempo prima di ritirarsi. Ma non c'è il senso della vita familiare messa in fuga, e le madie zoppe e le sedie spagliate su cui si mescolano in orgia pezzi di bottiglie, gabbie per canarini e manuali di Filotea, fanno piuttosto ridere che piangere. Il sentimento è forse colpevole, ma me ne confesso candidamente. Salito per scale a pioli al solaio del convento, scopro un cimelio prezioso: una vecchia giubba azzurra di soldato austriaco. La prendo con molta cautela servendomi di un bastone, m'affaccio alla finestra di un abbaino, e di lassù la butto a un bersagliere che dalla strada sta a guardarmi, un po' scandalizzato dalla mia invadente curiosità: ma l'accoglie in gran gioia, e corre via a mostrarla ai compagni.
E mentre m'indugio un po' ancora, affacciato lassù a scrutare l'accavallamento dei monti, a cercar di capire, con le mie incerte cognizioni topografiche, quali di quelli sono ancora dell'Austria, ecco dall'ala destra mi giunge un suono ancora non noto e attraversa l'aria sopra il mio capo. È una specie di breve miagolio, e si tramuta subito in uno stridìo acuto e rabbioso, circolare, come un trapano che succhielli rapidissimo l'aria; poi un rombo, il rombo ormai familiare del cannone; poi un piccolo scoppio. Scruto attorno il cielo, le cime, la valle. Ma non mi accorgo di nulla. Vedo i soldati correre agli sbocchi del paese. Scendo e corro anch'io. Intanto s'è udito un altro miagolio, un altro rombo, un altro scoppio. Giù c'è un ufficiale che s'affanna a raccomandare ai soldati che non si facciano vedere.
— È il trecentocinque del forte Por che s'è accorto che laggiù (indica un ripiano a mezza costa), il nostro genio lavora, e cerca di disturbarlo. Ma non fatevi vedere. Dall'osservatorio vi possono vedere benissimo, e allora vi tirano una granata. A che scopo?
— Per vedere come scoppia — risponde un soldato. E gli altri ridono.
Intanto una terza granata trivella l'aria col suo miagolio rabbioso, poi una quarta; e di questa finalmente vedo l'effetto sulla costa indicata. Non si scorge cader nulla, ma tutt'a un tratto uno sbruffo di terra e di sassi rompe dal suolo, come per una mina: qualche arbusto sterpato ricade con la terra, e niente più. I lavori del genio sono alquanto lontani di là, e i soldati al primo miagolio si ritirano dietro un riparo, ch'è il primo rapido lavoro che si prepara sempre avanti di accingersi a qualunque opera di quella specie.
I soldati del paese sono un po' delusi e per consolarsi mi fanno vedere, nel piazzale davanti alla chiesa, un buco tondo e largo lasciato da una granata, sorella di quelle d'oggi, un mese fa. Non l'hanno ricoperto, perchè è un ricordo e un'imagine che rinvigorisce il loro fervore. E l'episodio recente li rimanda al lavoro più alacri di prima: quei miagolii hanno la virtù eccitante che aveva nelle battaglie antiche il classico odor della polvere.
Uscendo dal paese ci fanno camminare in fila indiana, stretti a una siepe, assicurandoci che l'austriaco vedendo di lassù dei borghesi sarebbe molto contento di salutarli con uno shrapnell. Questo soddisfa molto la nostra vanità.
Così giungiamo ove si apre un grande campo. Il campo è seminato di soldati che, senza giubba, chini verso terra con le zappe, sembrano contadini. E tutt'attorno a loro c'è come una vasta piantagione bassa a filari....
Ci accorgiamo subito dell'errore. Sono linee di reticolati: aggrovigliati, aspri, puntuti, impervii: e lungo il margine del prato le bocche di lupo, ove l'uomo cadendo trova la punta ferrea che lo strazia; e i lacci giapponesi, ove l'uomo preso in trappola per il piede come una bestia, stramazza; e i mostruosi trabiccoli dei cavalli di Frisia: il filo di ferro duro, irsuto di punte mordenti, in tutte le sue applicazioni, per impedire, rallentare, deviare, mordere a sangue in tutti i modi il cammino di chi vuole avanzare. Contemplando spaurito tutta quella stesa di stratagemmi, più imagine di caccia che non di guerra, non penso agli austriaci che incapperanno qua dentro, perchè questi sono preparativi di pura precauzione e gli austriaci di qua non ripasseranno mai nei secoli, ma mi vien fatto di pensare che qualche cosa di simile è di là, dove i nostri avanzano; che qualcosa di simile era qua, dove i nostri hanno avanzato: e che pure hanno superato tutto questo, senza esitazione, rapidamente, con pochissime perdite, a forza d'impeto, di abilità e di audacia. È un pensiero di raccapriccio, che subito si trasmuta in una ammirazione profonda e in una fede sicura ed enorme nel domani.
Dietro le file dei reticolati, quelle delle trincee: trincee in cemento armato, lunghi corridoi, larghi, comodi, nitidi: hanno qualche cosa di conventuale nella linea e nel colore, e insieme di casalingo. Ad ognuna si entra per parecchi usci di legno bianco, dalle imposte ben commesse. Su qualcuno degli usci un soldato ha scritto il proprio nome. Non ci manca che il campanello e la buca per le lettere.
Leggo su di un uscio, in un bel neretto tipografico:
Prima di entrare si pregano gli austriaci di farsi annunziare.
Un altro soldato vi ha aggiunto sotto, col carbone, un avvertimento, così:
(Visite brevi).
Arrampicandomi dal basso su per la costa e penetrando nel monte oltre Storo, su per val d'Ampola e valle di Ledro, verso Bezzecca, passo dalla visione modernissima delle trincee murate a quella tradizionale dell'attendamento. Vaste distese di tende coniche sul declivio dolce degli incavi del monte; ranci che stanno cocendo nelle pentole nere, sui fuochi enormi, al riparo di rocce annerite dal fumo; un rigagnolo largo e chiaro margina l'accampamento e i soldati vi scendono a lavar le stoviglie; sfondo di rupi dense di cespugli, file di salici lungo il rigagnolo. Potrebb'essere nell'“Orlando Furioso”.
Tutt'a un tratto tra i soldati che formicolano in mezzo alle tende, si vede un gran movimento: si raggruppano a sciami, corrono tutti verso il rigagnolo, lo attraversano, ne risalgono il margine, s'arrampicano fino alla strada... per veder passare il Re d'Italia.
Perchè il Re d'Italia è passato di qui stamattina. Si ha l'impressione che passi ogni mattina, dappertutto. Chiunque per qualsiasi ragione è stato anche un giorno solo ad un punto qualunque del fronte, specialmente se avanzato ed esposto, ha incontrato il Re, che passava. Non passava soltanto: si tratteneva a vedere minutamente ogni opera, ogni posizione: si spingeva nei luoghi più scoperti, per rendersi conto dei pericoli e delle difese; si prodigava ai soldati. Nessuno, di tante e tante migliaia di soldati, va al fuoco senza aver visto il Re, senz'aver sentito la sua parola.
Il Re passa. Un sorriso di saluto illumina i suoi occhi penetranti e tutto il suo volto brunito dalla guerra, dimagrato dal fervore. E il soldato italiano, anima eterna di ribelle sol perchè teme la disuguaglianza e l'orgogliosa superbia, il soldato italiano, poi che ha visto un istante il Re esporsi al suo fianco e sorridergli, va volentieri incontro alla morte, e al disagio che è più terribile della morte.
Per questo si vincono i reticolati più irti, le trincee più solide e le montagne più impervie.