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Capitolo I
Montaquila, il paese natale
ОглавлениеQuasi settant’anni dopo, continuo a ripetere la stessa frase per localizzare il mio luogo di nascita, la mia origine: “Tra Napoli e Roma, tra l’Adriatico e il Mediterraneo”. É con queste parole che localizzo Montaquila nel mondo e in Italia.
Montaquila è un paese nella provincia di Isernia, nella regione del Molise, a ventuno chilometri dal capoluogo della provincia e a 464 metri di altezza sul livello del mare, a oriente della catena montuosa delle Mainarde e a sud del monte della Meta. Probabilmente esista da quando soffia il vento, ma la prima testimonianza dell’intervento umano la si puó trovare in alcuni documenti, circa l’anno 778. Lì compaiono le prime approssimazioni al suo nome Montem Aquilam, Montis Aquili nel 1150, o Mons Aquilus nel 1168. Alcuni lo traducono come Monte dell’Aquilone, riferendosi al vento del nord. D’altra parte, le prove fornite come valide indicano che queste terre appartenevano al vasto Monastero di San Vincenzo al Volturno. Successivamente, dovuto a vendite e donazioni varie, queste terre hanno avuto diversi proprietari ed eredi. Tra loro, Andrea d’Isernia, Giovanni Caracciolo e i suoi fratelli e Ugo di Rocca e i fratelli di quest’ultimo. Si presume che entro l’anno 1305 Andrea d’Isernia riuscisse ad acquistare tutti i territori di Montaquila, unendoli in una proprietà che in seguito ereditó Landolfo, il più giovane dei suoi figli e che divenne l’ultimo proprietario tra gli anni 1316 e 1325, anno in cui morí. La discendenza di Landolfo è incerta, ma si suppone che nella seconda metà del XIV secolo Montaquila fosse il feudo di una famiglia che alla fine adottò questo cognome. Si pensa che avrebbe potuto essere la stessa famiglia d’Isernia a usare questo nome sia per acquisire un titolo nobiliare, sia per distinguersi dai rami genealogici collaterali della famiglia d’Isernia.
I primi dati del censimento della popolazione risalgono al 1561, dove si contavano ‘i fuochi’ ovvero i camini e non le persone; in quell’anno ce n’erano 53, 50 nel 1608 e 55 nel 1669. Nel 1795, si contarono 590 abitanti, 790 nel 1848, 1271 nel 1861, 1706 nel 1907, 1857 nel 1911, attualmente sono 2600 abitanti, più o meno la stessa quantità di quando Dio mi mise al mondo il 5 Febbraio del 1948.
Come era solito a quei tempi, nacqui nella casa dei miei genitori, eredità di mia madre da parte della sua famiglia. Fui l’ultimo figlio che Giovanni Bornaschella e Filomena Ricci avevano deciso di portare in questo mondo. Anche se mia madre mi confidó, una volta, già adulto, con quel suo modo naturale, senza aggiungere frasi inutili, che il mio arrivo non era stato, diciamo, effettivamente pianificato. Insomma, quando nacqui i miei altri tre fratelli erano già arrivati, Ángel di undici anni, Livia di sei e Giuseppa di tre.
La nostra casa, più di settant’anni dopo, è ancora lì, ben piantata, in Via Piano 4 a Montaquila, paese che piano piano è sorto intorno alla montagna. Si deduce che è stata una pianificazione ben strategica. Guardava infatti a difendere gli abitanti poiché dall’alto si aveva la vista su coloro che dal basso tentavano di invadere in epoche remote. Anzi, la città aveva un enorme portone che metteva dentro al sicuro tutta la sua gente quando si serrava per la notte, e nessuno entrava o usciva, fino alla mattina seguente, quando iniziavano i soliti compiti, fondamentalmente lavori agricoli come la coltivazione della terra e l’allevamento degli animali. Non esisteva la disoccupazione a Montaquila. Tutti avevano qualcosa da fare ogni giorno e ad ogni istante. A Montaquila non c’erano, e non ci sono, industrie. La maggior parte delle cose e tutto ciò che era necessario per vivere si otteneva dalla terra e dagli animali. La valle solcata dal fiume Volturno era la terra più fertile. Tutti, compresa la mia famiglia, avevano i loro piccoli pezzi di terra lungo le sponde del fiume, e con un po’ d’astuzia e di intelligenza ne ricavavano quanto bastava. I frutti della terra si scambiavano con semplicità e affetto tra i vicini. Si barattava una cosa con l’altra, e le restanti si portavano a vendere nei paesi vicini, con diversa fortuna. Il valore di ogni cosa era stato fissato dalle vecchie generazioni, con un criterio sconosciuto e invisibile, ma che nessuno osava discutere, e tantomeno nessuno pensava che fosse necessario modificare queste regole invisibili: un prodotto di un certo gruppo o categoria era l’equivalente a due o tre dell’altro e così via, ogni cosa aveva il suo prezzo e si poteva commerciare in modo tranquillo. Il denaro era limitato, quindi veniva messo via in piccole quantità e usato solo per alcune occasioni importanti, e persino il dottore poteva essere pagato con una cesta di verdure o con altre cose o servizi, senza la necessità di dover usare del denaro. La raccolta del grano veniva portata al mulino. Parte di esso si lasciava lì, a modo di scambio equo, in cambio della farina che si portava a casa. Qualsiasi cosa potesse mancare a qualcuno, qualcun altro l’aveva. In questo modo tutti avevano il necessario. Addirittura si scambiavano le giornate di lavoro quando si andava a lavorare nelle terre altrui. Il tutto si svolgeva in uno stato di ordine e fratellanza e, in caso di controversie, queste non duravano a lungo, giacché la giustizia si faceva strada, anche in modo informale, e le dispute si risolvevano velocemente.
Durante il corso dell’anno le famiglie allevavano il loro maiale per poterne ottenere la carne. Quindi si tagliava in porzioni abbastanza piccole e si metteva in grandi vasi di pietra chiamati “pila” ricoperti di grasso, nelle stanze destinate ai beni e le conserve, fino all’anno successivo. Tra le altre cose, lí si conservavano i pomodori secchi oppure le bottiglie con la salsa di pomodoro già lavorata dopo il rito del raccolto. Questa cerimonia era una specie di festa del paese in cui ognuno aiutava l’altro a trattare la sua produzione, e l’unica contropartita era la successiva collaborazione con chi aveva collaborato precedentemente, realizzando così uno scambio di profitto. Tutti i membri della famiglia partecipavano ed era considerato uno dei grandi eventi del paese. Lì non solo si preparano i pomodori, si sbucciava il grano ed il mais e si raccoglievano legumi. A lavoro ultimato, alcuni vicini iniziavano a suonare un po’ di musica e a ballare. Mio padre partecipava attivamente in ogni aspetto del lavoro. Era un gran lavoratore, instancabile ma anche famoso in paese per la sua abilità di suonare l’ organetto con otto bassi. Mia madre non ne era particolarmente entusiasta. Quando mi portava in grembo, non era facile per lui poter partecipare. Fu così che mio padre assieme ai suoi amici, montarono una commedia, credendo di essere originali, che consisteva nel fatto che loro andassero a chiamarlo e lui dovesse negarsi nel modo più convincente possibile. L’atto si svolse a tarda notte, gli amici in strada e mio padre da casa mia, rispondendo e ‘resistendo’. Mia madre li fece recitare per un po’, finché la pazienza glielo permise, e poi, facendogli credere che effettivamente l’avessero convinta, lo lasció andare. Ma a notte inoltrata, mio padre non tornava. Il tempo era scaduto e mia madre andò a cercarlo, immaginando ciò che stava accadendo: la famosa frase “chi suona, non balla mai”, non si adeguava alla situazione. Fu così che la fisarmonica, mamma e papà tornarono a casa. E la fisarmonica rimase rinchiusa per un bel po’ di tempo.
Con i frutti della terra raccolti e gli animali macellati, con i relativi baratti, con l’aggiunta del lavoro di preparazione e dopo aver razionato ed amministrato equamente tutto ciò che c’era, allora si poteva mangiare. La distribuzione che mia madre faceva all’ora di pranzo e di cena aveva la stessa equità di quella usata dalle persone in paese quando barattavano i loro beni. A casa la porzione di cibo era in base alla quantità di lavoro svolto. Nessuno aveva il diritto di discutere questa distribuzione, giacché l’unica a soffrirne le conseguenze era mia mamma, l’ultima a servirsi e con la porzione più piccola. Le ripercussioni di quella dieta rimasero impresse per sempre nella sua magra piccola figura, anche se in generale godette sempre di buona salute. Tranne che per il logico deterioramento causato dall’avanzare dell’età, non l’ho mai vista malata, né a letto, né in riposo, né lamentarsi o vantarsi di essere lei a prendere le decisioni a casa, né in Italia né in Argentina. Non si è mai ammalata perché lei stessa decideva di non farlo. L’idea di ammalarsi era come fermare gli ingranaggi di un orologio. Le passavano i raffreddori, l’influenza, i dolori alle ossa. Questi malanni le capitavano come a tutti, ma lei continuava nelle sue cose, senza lamentarsi di nulla. Negli ultimi anni della sua vita diceva che la gente la vedeva molto bene e la adulavano: “Sì, certo che mi hai sempre visto bene”, diceva sempre, “ma il fatto è che non mi sono mai lamentata, perché tanto le lamentele non cambiano mica le cose”.
Ha lavorato tanto quanto mio padre. La mattina presto mungeva la mucca e in seguito preparava la cagliata e il formaggio. Faceva la colazione per i suoi figli, tutte le mattine passava il mio latte da una tazza all’altra per raffreddarlo e poi mandava a scuola mio fratello e le mie sorelle. Un altro impegno quotidiano era andare alla fontana con una tinozza di rame, percorrendo trecento metri per poterla riempire dell’acqua che scorreva giù dalla cima della montagna attraverso una rete di condutture fino al centro del paese.
Durante l’inverno, e durante il disgelo, molto lento e graduale, l’acqua usciva fiaccamente dalla fontanella al termine del percorso, con un rivolo che non faceva che rallentare le attività del paese. Si formavano, infatti, lunghe code con molta (e alle volte non tanta) pazienza. Visto dal lato positivo, si realizzava un legame sociale che comportava il pretesto perfetto perché le ragazze dessero speranze ai giovanotti e germogliassero nuovi amori. Ma non tutte le relazioni erano così amichevoli. Le poche famiglie che potevano, pagavano i vicini perché facessero tutto questo lavoro di trasportare loro l’acqua. I problemi non tardavano ad arrivare, di tanto in tanto, e quando qualche tinozza superava abusivamente le altre, cominciavano delle belle risse, con tinozze prese a calci e ammaccate. Alla fine, mia madre tornava a casa con i venti litri d’acqua nella tinozza, portata sulla testa e ammortizzata da un panno attorcigliato a corona. La mamma non era estranea ai litigi e anche la sua tinozza aveva le corrispondenti ammaccature. Padroneggiava un’abilità senza pari e un saldo equilibrio perchè non traboccasse una sola goccia d’acqua, che così arrivava a casa, perché potessimo cucinare o lavarci.
I vestiti si lavavano nel fiume con il sapone che, non poteva essere altrimenti, anche quello faceva mia madre, cuocendo grasso di maiale e soda caustica. La sua routine proseguiva con la preparazione del pranzo che poi portava nel pezzo di terra dove lavorava mio padre. Mentre lui pranzava, lei proseguiva col lavoro del campo e quando finiva di pranzare continuava a lavorare. Tornava a casa per preparare la cena, aspettare mio padre e, se del caso, a tempo giusto, assolvere i doveri coniugali, ai quali, come raccontava a mia figlia Lorena, molti anni dopo, non era pensabile negarsi. Di nessuna di queste cose si è mai lamentata. La sua natura, il suo spirito, era quello del sacrificio con semplicità, e, in tante altre situazioni, l’accettazione di questo sacrificio senza dare la colpa a nessuno per tale sorte.
La guerra attraversò questo paese, come molti altri in Italia e in Europa, lasciando un solco di ricordi che si tramandavano di generazione in generazione, perché il dolore del cumulo di ferite non poteva essere taciuto. La storia, che in linea di principio appariva molto semplice e banale, negli occhi dei figli e nipoti prendeva nuovamente la dimensione della tragedia, che, pur ovvia, non fu facile da sopportare. Il luogo comune di dire che la sofferenza fu terribile, non era sufficiente come denuncia della sua dimensione reale, del suo scenario, della sua durata nel tempo e delle sue irrimediabili conseguenze. Cercare di raccontare sarebbe un compito che non avrebbe mai fine.
Nella prima guerra mondiale mio padre perse il suo all’età di sei anni. Non molto tempo fa ho potuto recuperare questi ed altri dati con più precisione. Fu così che ottenni una copia del suo certificato di decesso: Angelo Bornaschella morto il 19 Ottobre del 1918, qualche mese prima della fine della guerra a causa di una bronchite che esitò in un’infezione generalizzata. Morì nell’Ospedale da Campo numero 56, a Gubbio, nella regione montuosa di Zangolo. Seppi anche che il suo numero di matricola era 20562 e che aveva prestato servizio nella Seconda Compagnia della Brigata “Messina”.
Qualche tempo dopo la madre di mio padre sposò il fratello di mio nonno, Angelo. A quei tempi questo modo di riorganizzare le famiglie era qualcosa di naturale e necessario. Tra altre molte finalità naturali, c’era l’obiettivo di proteggere la donna, prendersi cura dei suoi figli e mantenere salda la famiglia. Sotto la protezione di questa nuova unione e di questo rinnovato amore, mio padre ebbe altri quattro fratelli. Ma non tutte le nuove organizzazioni familiari avevano lo stesso destino.
In molte case si sentivano dire storie terribili, con epiloghi difficili da raccontare. Chi partiva per la guerra, sia durante la Prima che la Seconda, sottometteva la sua volontà alle esigenze e capricci del destino. A casa si perdeva la speranza di avere sue notizie, e così la sua posizione finiva per essere come il vento che passa senza che si sappia da dove viene o dove va. Poteva essere stato preso prigioniero e lavorare come tale in un altro paese, o essere un morto senza lapide, o forse aveva perso la memoria e non sapeva come tornare a casa. Ma se accadeva che la misericordia di Dio lo aiutasse a tornare, sospendendo l’oblio di anni della moglie e dei figli, la sua vecchia casa ormai non era più sua, perché i suoi figli ora condividevano la tavola con i nuovi figli che sua moglie aveva avuto, e sua moglie non era più sua perché, dato che lui non esisteva più, era diventata la moglie di qualcun altro che avrebbe potuto perfino essere stato suo vicino in passato, prima che la guerra avesse messo tutti sullo stesso gradino della tragedia.
I ricordi di mia madre mi hanno fornito anche i dettagli necessari per capire in quale forma e a qual punto la rassegnazione fosse penetrata nell’anima delle persone. Durante una delle offensive dei tedeschi, uno zio di mio padre, e altri vicini del paese, cercarono di respingere i nemici lanciando loro pietre e sassi dall’alto della montagna. Per tutta risposta i tedeschi usarono mitragliatrici. Le schegge lo ferirono a una gamba, ed egli, con un trattamento di emergenza e con la gamba sanguinante, tornò ai rifugi di fortuna nei boschi delle montagne, fino a quando, qualche giorno dopo, la Croce Rossa lo portò via per assisterlo in migliori condizioni, dato l’avanzare dell’infezione. La permanenza dello zio per più di sette mesi nel rifugio fu presa con rassegnazione, non ci furono né sorpresa né scossoni, né differenza tra la sua presenza e la sua assenza. Il prozio ritornò e la sua vita, così come quella nel rifugio, continuò come se il vuoto nella storia non fosse mai esistito, non per indifferenza o mancanza di affetto, ma per il puro sentimento di impotenza e dolore di tutti.
Quando i tedeschi decidevano di bombardare, la gente, nuda e in preda al panico, correva da una parte all’altra in cerca di rifugio in cavità e grotte nella montagna. In una di quelle fughe mio fratello Angelo informò mio padre di aver perso la scarpa sinistra. Mio padre voleva recuperarla, ma sarebbe stato meglio se mio fratello avesse segnalato il fatto non appena accaduto, tre chilometri prima. L’impresa di recuperare la scarpa era inutile e suicida, così il povero Angel visse i sei mesi seguenti con un pezzo di stoffa legato con corde attorno al piede e alla caviglia, in sostituzione della calzatura persa.
Terminata la seconda guerra mondiale, oltre alle ferite che si vedevano e quelle che non si vedevano, c’erano altre conseguenze più concrete e meno dolorose. A causa dello spostamento al nord, per la fretta necessaria o per il bisogno di proteggersi, durante la loro ritirata le truppe lasciarono diverse cose lungo la loro strada. Quando tornò la pace e il paese e dintorni non furono più occupati dalle truppe dell’una o dell’altra parte, si potevano trovare dappertutto resti dei loro averi ed effetti personali. Era molto comune trovare stivali, camicie sporche, così come grandi quantità di proiettili in sacchi di stoffa, pneumatici fuori uso, pezzi di jeep e camion delle truppe e persino un carro armato. I pezzi di ferro erano raccolti e venduti come rottami in diversi punti del paese. Così si riusciva a migliorare un po’ la condizione economica di ognuno. Coi copertoni degli pneumatici si realizzavano calzature casalinghe chiamate “scarponi”. Erano veri e propri certificati di povertà, ma, in mancanza d’altro, risultavano di grande utilità. Le gambe si coprivano dai piedi fino a sotto alle ginocchia, con un pezzo di stoffa di lino. Quindi si collocavano i pezzi di gomma, ben tagliati in base alle dimensioni del piede, lasciando un bordo ad ogni lato con dei piccoli fori dove si facevano passare delle stringhe di cuoio. Queste stringhe si incrociavano cercando di emulare quelle dell’ “età moderna”, e con lo stesso procedimento si continuava fino a sotto le ginocchia. Più fortunati erano coloro che trovavano le gomme delle moto, poiché, essendo più strette, si adattavano al piede in modo “anatomico”. Inoltre, l’uno o l’altro tipo di calzatura permetteva di non dover pensare a piccolezze come doverle lucidare o distinguere il sinistro dal destro.
Una volta, un compaesano e mio padre trovarono una ruota. Era gonfia e aveva persino il cerchione. Pronti a farsene i propri “scarponi”, l’aggredirono con il primo attrezzo che avevano a portata di mano. Così cercarono di attaccarla con un’ascia, ma la ruota, come se fosse viva, restituì loro il colpo facendoli a sua volta rimbalzare l’uno sull’altro. Non si diedero per vinti e con l’ascia e altri attrezzi, riuscirono a ferirla abbastanza perché esalasse la sua aria fino all’utilizzo desiderato.
Mio padre trovò anche un giaccone militare, molto utile durante l’inverno. Nel corso del rinvenire oggetti, la sorte gli concesse di incrociare il cammino con un’arma semiautomatica, che dai suoi racconti penso fosse una calibro 45. Per l’aspetto e la qualità, l’arma probabilmente era appartenuta ad un ufficiale di alto rango. Mio padre che sapeva utilizzarla, orgoglioso, insegnò a mia madre a valersene. Per i proiettili non c’era di che preoccuparsi, perché si trovavano senza difficoltà. I miei genitori mantennero il segreto sul ritrovamento, non la sfoggiavano né la mostravano, ma in un qualche modo era filtrata l’informazione e circolava la voce che c’era un’arma sofisticata per quei tempi e chi l’aveva. L’arma è sempre rimasta al sicuro, nascosta in un buco tra gli spessi muri della casa. Quando mio padre emigrò in Argentina, mia madre si fece carico dell’arma e del giaccone. In quei tempi di scarsità di cibo era normale che nei coltivi ci fossero alcuni atti di saccheggio e furti del raccolto, che, per quanto piccoli, in mezzo a tante ristrettezze, causavano grande danno. Per poterli portare a termine, alcuni rimanevano nei campi più degli altri o pernottavano nelle baracche vicine e al momento giusto facevano l’incursione nelle proprietà altrui. Mia madre, cui senza dubbio non mancavano risorse, tornava in valle con il giaccone e l’arma e sparava alcuni colpi come una raffica di mitragliera sorprendendo la tranquillità della valle e preavvisando chiaramente chiunque osasse toccare ciò che non gli apparteneva. L’eco dei colpi si propagava come un segnale d’avvertimento, e si sapeva benissimo da dove veniva, chi la portava e che giaccone la ricopriva. Il commissario insistette un paio di volte facendo visita a casa nostra, chiedendo dell’arma e reclamandone la consegna. Mia madre ha sempre negato la sua esistenza e il commissario finiva per accettare con rispetto la risposta.
Ma non era solo il commissario a rispettarla, quando le donne l’incrociavano e la vedevano vestita col giaccone la salutavano con riguardo e soprattutto gli uomini ancora di più. Dopo la nostra partenza per l’Argentina e passati un paio d’anni, nella casa di via Piano 4 furono necessari alcuni lavori di ristrutturazione, che comportarono l’abbattimento di un muro, e lì comparve l’arma. Si denunciò il fatto e il commissario potè finalmente chiudere il caso. Raccontano i presenti che con l’arma in mano disse con un sorriso nostalgico: “finalmente... dopo tante ricerche”.
Ciò che sopravvisse alle devastazioni della guerra, oltre alla vita di tutta la mia famiglia, fu il grande caseggiato. Devo riconoscere che dentro i limiti della povertà che regnava in paese, la nostra casa si distingueva dalle altre. Il mio bisnonno Giovanni Ricci veniva da una famiglia che stava un po’ meglio di altre. Il tutto grazie ad alcuni stratagemmi della madre. Lei si sposò con un Ricci con denaro, padre di Giovanni Ricci. All’epoca era abbastanza comune sistemare la questione con soluzioni diverse dall’amore. Si usavano le motivazioni più stravaganti sulla convenienza di stipulare il matrimonio dei figli. La madre di Ricci fece uso di un sogno che raccomandava il matrimonio, con quella persona che, “casualmente” apparteneva a una famiglia bene. Verità o menzogna, raccomandazione della provvidenza o argomento pratico, il fatto è che col tempo le nostre famiglie furono favorite da quella trovata. Grazie a quel matrimonio, poterono costruire una casa che finì per distinguersi in paese. La costruzione iniziò nel 1850 e finì nel 1855, come rimase inciso per sempre nell’arcata della porta principale. Così fu eretto il “palazzo, isolato”, come si chiamava quel tipo di edificio. Aveva uno spazio centrale, chiamato “cortile” circondato da diversi ambienti che erano assegnati, com’era tradizione all’epoca, ai differenti membri della famiglia, che a loro volta abitavano con le rispettive famiglie. Com’era logico e giusto, quindi, le proprietà si tramandavano di generazione in generazione, e siccome di solito nessun erede poteva comprare la parte che spettava all’altro, gli appartamenti venivano divisi tra tutti gli aventi diritto.
Allo stesso modo si dividevano i terreni, e quando era necessario si ricorreva agli agrimensori e se non bastava, l’ultima parola della Giustizia dirimeva qualsiasi controversia.
Ogni famiglia aveva la sua cucina, dove si mangiava. Aveva anche una focolare a legna per poter cucinare e riscaldare la casa, e un forno per cucinare il pane e la pizza. di fianco c’era un fornello alimentato dalle braci del focolare. In un’altra stanza dormiva tutta la famiglia. E in altri locali c’erano il posto per tenere gli attrezzi per lavorare la terra e la stalla, normalmente occupata da una mucca, un mulo e un cavallo. La mucca per fornire il latte, il cavallo e il mulo per trainare il carro e lavorare la terra. C’era anche uno spazio dove immagazzinare tutte le conserve ottenute dal raccolto e dagli animali, dai quali si ricavava l’occorrente per mangiare e per commerciare quando ce n’era bisogno. Era comune vedervi un torchio con cui si macinavano le olive e si produceva olio, oppure si faceva il vino.
Non c’erano confini tra le famiglie, e tutti conoscevano segreti, chiacchiere, gioie e dolori di ognuno. Tutte le conversazioni arrivavano alle orecchie degli uni e degli altri, un po’ per l’inevitabile vicinanza ed un po’ per l’abitudine di parlare con urli che echeggiavano tra i muri di casa. Ad ogni modo, le comodità della casa erano sufficienti. Da una parte, perché sì e basta, e d’altro canto perché non se ne conoscevano altre. L’energia elettrica era arrivata in paese, ma oltre alla luce di notte, non esistevano altri tipi di apparecchiature da collegare.
L’intera casa è rimasta uguale fino ad oggi, troneggiante quasi sulla cima della montagna. Sedotto dalla sua maestosa semplicità, decisi, anni or sono, di comprarla da un intero gruppo di eredi, coi quali ho combattuto con differenti risultati, ma con l’obiettivo raggiunto. La comprai per un impeto sentimentale, anche se in seguito ho trovato scuse più razionali con cui mi sono convinto che la decisione impulsiva non era sbagliata. Come vedete, i salti tra il presente ed il passato sono inevitabili.
Verso il 1945, con l’avanzata dell’esercito nordamericano, fu l’inizio della fine della guerra. La gente abbandonò i rifugi in valle per tornare in paese, con una nuova sensazione di serenità che durò un paio di mesi in stretta convivenza coi soldati. Loro nel frattempo, distribuivano carne in lattina, cioccolato, cappotti, coperte e a modo di ringraziamento, le donne del paese, compresa mia madre, pulivano i loro vestiti. Questo compito era piuttosto fuori dal comune, visto che una volta immersi gli indumenti dei soldati in acqua calda, ne saltavano fuori pidocchi e impurezze di altro tipo. Tuttavia, tra la rassegnazione che la guerra aveva lasciato nella gente, e la silenziosa inclusione della sofferenza nella vita quotidiana, la verità era che la gestione delle risorse, per rudimentale che fosse, era scesa a livelli difficili da sopportare. Il razionamento alimentare costringeva mio padre ad andare a lavorare mietendo il grano e svolgendo altre incombenze, solo per essere pagato con un piatto di cibo. Perfino a queste condizioni, sempre più spesso non si aveva neanche questo. La povertà si faceva sentire sempre più crudelmente, ma continuava ad essere sopportata con signorile dignità. Era sempre più frequente vedere i vicini con toppe nei vestiti. I miei raccontavano perfino di aver visto un uomo portare senza imbarazzo una camicia bianca con una toppa rossa, la povertà di quest’uomo era arrivata al punto di non avere nemmeno un pezzo di stoffa del colore della camicia strappata, eppure, fatto il rammendo, sfoggiava fieramente la sua camicia riparata.
Poi la nostra famiglia e altre nel paese, col necessario e lungo iter burocratico e approfittando dei benefici concessi dal Piano Marshall promosso dagli Stati Uniti, ricevettero piccoli risarcimenti che tendevano a correggere le perdite di oliveti, animali e alcuni danni alle abitazioni. Sebbene l’importo coprisse solo una parte delle perdite e dei danni causati dalla guerra, fu ben accolto e apprezzato sinceramente.
Ma non erano gli unici danni dei giorni di guerra. Alcuni si risolvevano con l’intervento di membri del clero. Con molta pazienza intervenivano come mediatori tra vicini le cui proprietà erano state messe a soqquadro dai bombardamenti o dalle incursioni militari. Utensili semplici come una pala o una casseruola, finiti nella casa del vicino, originavano risse per dirimere la controversia.
Questo tipo di conflitti rappresentava il carattere stesso del paese, dove le gravi inimicizie irrisolte diventavano ostilità senza fine, generazionali. Allo stesso modo le amicizie diventavano fratellanza infinita con regole di fedeltà perduranti per generazioni.
Le cause delle controversie potevano essere per motivi politici, perché l’animale d’uno aveva rovinato il raccolto dell’altro, per amori contrastati o promesse non mantenute. Gli scenari di questi confronti erano i più diversi, ma nella memoria collettiva in generale e nella mia in particolare, uno è rimasto ben impresso.
Una domenica, all’uscita da messa, una donna in gravidanza avanzata, si piazzò davanti a colui che non aveva adempiuto al suo dovere e mantenuto le promesse. Presto la donna si rese conto dell’inutilità della discussione, ma non aveva immaginato che la reazione premeditata che andava maturando in tante notti insonni, diventasse ora così giustificata. L’uomo la disprezzò, l’insultò e cercò di spingerla via, per continuare per la sua strada. Fu l’ultima cosa che fece. La donna si sentì ribollire il sangue e segnare definitivamente il suo destino. Dal vestito estrasse una lama di dimensioni adeguate alla tragedia e trafisse il responsabile senza nemmeno lasciargli il tempo sufficiente di comprendere di morire. Lei ebbe il suo bambino in carcere. Il bimbo è cresciuto, ha studiato ed è diventato un brav’uomo, si è laureato in Commercio Internazionale e attualmente risiede a Parigi. Torna spesso in paese e ho avuto il piacere di conoscerlo.