Читать книгу La soddisfazione di avercela fatta - Michele Bornaschella - Страница 7
Capitolo II
L’origine dell’immigrazione
ОглавлениеTra felicità e tristezza, il problema di migliorare la situazione economica diventava sempre più difficile.
Nella nostra famiglia, tuttavia, abbiamo trovato un’oasi inaspettata, un pizzico di fortuna che, seppur da piccoli episodi, ricavandoli dai ricordi molti anni dopo, ci tirò fuori dal profondo dell’anima la frase: “Ci ha cambiato la vita”.
Terminata la Seconda guerra mondiale e dopo essere emigrata negli Stati Uniti, tornò in paese Maria, una signora con cui avevamo complicati e lontani legami di parentela. Venne con lei un’amica di nome Amelia, imparentata allo stesso modo con altre persone del paese. Dopo qualche giorno, infettata dall’acqua, o dal cibo, o perché Dio ha voluto che si unisse per sempre alle nostre vite, Amelia sviluppò una reazione allergica che le causò una irritazione della pelle. Il medico che la curava, le prescrisse come trattamento, qualche bagno con l’acqua di una sorgente che sembrava contenere zolfo, particolarmente indicato per le malattie della pelle. Mio padre, che a quel tempo lavorava nel frantoio di famiglia dove erano alloggiate le due donne, tutti i giorni che Amelia rimase in paese, percorreva dieci chilometri per andare a prendere l’acqua medicinale, con botti di legno, dalla sorgente chiamata Solfatara di Pozzilli. Andava al mattino presto e lasciava le botti nella casa dove era ospite Amelia. Era puntuale e preciso tutti i giorni, finché dopo più di un mese, Amelia fu guarita. La donna ne fu molto riconoscente. Ripagò mio padre per le attenzioni ricevute, gesto molto ben accolto e gradito come si deve, e al momento di lasciare l’Italia per tornare negli Stati Uniti aggiunse: “Giovanni, grazie mille! Finché vivrò, alla tua famiglia non mancherà nulla”.
E fu così. Dalla sua partenza, e fino alla sua morte, ogni mese, con la stessa rigorosa serietà che aveva avuto mio padre, Amelia ci mandava un pacchetto con i vestiti per tutta la famiglia. Cose che non avremmo potuto mai avere e che continuammo a ricevere anche dopo la partenza di mio padre per l’Argentina.
Tuttavia, la situazione economica non era migliorata. Nel 1949 mio padre –io avevo un anno– ebbe una nuova speranza quando fu contattato dal proprietario di un importante pezzo di terra nella Valle Porcino, lungo la riva del fiume Volturno. Costui voleva assumere mio padre come caposquadra di un gruppo di persone che avrebbero lavorato nel suo campo. Il progetto stava prendendo forma e anche il sogno e l’illusione di mio padre. Ma il destino, la Divina Provvidenza o la fatalità che tira sempre le corde a suo piacimento, venti giorni prima della data prevista di inizio dei lavori, decise la morte del signor Nicodemo e con lui anche quella del progetto e della gestione di terre e costruzioni. Tant’è che quei terreni in cui si stava per lavorare, ad oggi sono rimasti congelati nel tempo, nello stesso stato, in abbandono.
Per mio padre questo fu il colpo di grazia. Nello sconforto decise che era giunto il momento di emigrare. Gli eventi che assediano altri, di tanto in tanto fanno visita a noi, temiamo il loro arrivo e cerchiamo di non pensarci, sperando che non giunga mai il momento di aprire quella porta. Comunque, un giorno giunse in casa nostra l’argomento emigrazione. In verità già diversi parenti, amici e vicini l’avevano già sperimentata. Sapevamo delle loro vicende e dei loro risultati, ma ora eravamo noi e specialmente mio padre, al centro della scena. Come si può immaginare, esisteva già un ingranaggio umano, una sorta di gestore, diremmo da queste parti, che con varia fortuna e differente onestà governava l’arrivo degli emigranti alle loro destinazioni. Diversi paesi, tra cui l’Argentina, favorivano l’immigrazione ed era facile ascoltare commenti sui vantaggi e gli svantaggi di questo o quell’altro luogo remoto nel mondo, per iniziare una nuova vita con i loro cuori e le loro famiglie, insieme o separati.
Mio padre, presa questa risoluzione forzatamente o per convinzione, con i pochi strumenti che aveva sottomano, iniziò a ragionare sulla destinazione migliore. Ma, per finir di prendere una decisione, non si confrontava solo con sé stesso, ma nel silenzio di entrambi, si confrontava anche con mia madre, che, da quel momento fino a che morì, ebbe la convinzione che quello sradicamento, sebbene logico per mio padre, non fosse la scelta migliore. Era stata una trattativa difficile, piena di nodi, con probabili risultati negativi, in cui mio padre proponeva il piano con cui avrebbe intrapreso il viaggio, scelto una sistemazione e un lavoro più o meno stabile. Poi avrebbe chiamato mio fratello, Angelo, perché anche lui si fermasse a lavorare, poi, con un po’ di fortuna ricavare un vantaggio in denaro e infine tornare a casa. L’andirivieni di discussioni ed opinioni non fu molto rapido, fino a quando nel 1951 mia madre accettò, non per convinzione ma per necessità, di mettere sulla bilancia le ragioni di mio padre. Nelle condizioni economiche del momento lo si vedeva infatti girare in ogni angolo di casa pensando e ripetendo “Non si riesce a lavorare, nemmeno per mangiare”.
Una delle possibili opzioni da considerare, erano gli Stati Uniti d’America. Ma ben presto fu scartata poiché erano necessarie persone più qualificate. Avevamo già alcuni parenti che vivevano in Brasile, in Venezuela e in Argentina. Nel 1950 nostro zio Fortunato, il fratello di mia madre, andò in Argentina. Si era stabilito in una città chiamata Villa Clara, dipartimento Florencio Varela, nella provincia di Buenos Aires. Con l’aiuto di altri vicini italiani aveva costruito un alloggio. Era modesto e abbastanza precario, appena sufficiente per dormire e svolgere le faccende domestiche essenziali.
Fu allora che lo zio Fortunato, con grande abilità, persuase mio padre che l’Argentina fosse la destinazione migliore, migliore di qualsiasi altra che i nostri amici, vicini o parenti avessero potuto consigliare. Mio padre vagò con i suoi sogni e le sue speranze per qualche tempo, da un’alternativa all’altra. Pensò alle promesse fatte a mia madre, al suo futuro e senza esserne molto sicuro, si imbarcò sul piroscafo Florida della compagnia navale ELMA e salpò dal porto di Napoli verso l’altra parte del mondo, e verso l’altra metà della vita, sua e mia.
Viaggiò insieme a suo fratello e le raccomandazioni che si erano fatti una volta arrivati a Napoli furono inutili. Era noto infatti che quella città ospitava persone scaltre molto abili nell’impossessarsi dei beni altrui, piccoli o grandi. Mio padre raccomandava a suo fratello, e viceversa, di stare molto attenti perché qui le trappole erano frequenti, inaspettate e subdole. Si avvicinò a loro un facchino del porto con il suo carrello e si offrì di portare la loro grossa cassa di legno al luogo dell’imbarco. “Stiamo attenti”, si raccomandavano l’un l’altro, e mentre uno di loro rimase in coda in attesa con il baule, l’altro andò a chiedere il tagliando per la spedizione del bagaglio. Il fatto fu che il facchino chiese a mio padre di portare il baule per tre lire, e continuarono a negoziare fino a raggiungere un prezzo finale di due lire. Ma poco dopo il facchino andò a parlare con mio zio, che fece la stessa cosa di mio padre, ignorando il fatto che lui avesse già pagato mentre faceva la fila. Quando entrambi i fratelli si riunirono di nuovo per imbarcarsi, si vantarono per l’affare che avevano fatto durante le trattative con il facchino, e così scoprirono che avevano pagato due volte per lo stesso servizio.
È un compito difficile tenere le fila tra un periodo e l’altro. Uno si avvale delle testimonianze di altri, dei ricordi personali e di quelli altrui. I miei dell’anno 1951 e degli anni precedenti sono svaniti. Non ho ricordi di mio padre quando viveva in Italia, un po’ a causa della mia memoria sbiadita ed un po’ per la sua assenza. Sono cresciuto ascoltando le storie di mia madre, di mio fratello e delle mie sorelle che mi raccontavano chi fosse e come fosse. Durante l’assenza di mio padre, mia madre non lavorava più come prima, al suo fianco, ma ora lavorava proprio come se fosse lui. Con avvedutezza ed intelligenza lavorava ai terreni e a tutto quello che serviva. La maggior parte delle volte rimanevo con mia sorella Livia, che si prendeva cura di me con variabile diligenza. Anche se non ho ricordi molto nitidi di quei tempi, mi ricordo di un libro di mia sorella in cui vidi una foto con dei cavalli e delle mucche che si riferivano all’Argentina. Ricordo anche che mia sorella mi disse “Papà è qui”. È il mio più antico ricordo riferito a questo paese.
Ma questo non è l’unico ricordo che unisce i miei pochi anni con mia sorella. Un pomeriggio stavo giocando con un cucchiaio ed un po’ di terra sulla terrazza della casa dei miei nonni paterni mentre gli adulti stavano separando i chicchi del grano. Quando vidi mio cugino Emidio che stava giocando con un ombrello, camminando lungo la “via”, un sentiero di ciottoli che passava sotto la terrazza, mi avvicinai al bordo dicendogli che gli avrei lanciato la terra che avevo nel cucchiaio e fu lì che sentii sulla schiena due mani fatali che mi spingevano un po’ per incoscienza e un po’ per divertimento. Ricordo che mi sporsi più del dovuto e caddi nel vuoto, e ricordo l’ombrello di mio cugino Emidio avvicinarsi sempre più alla mia faccia. Erano le mani di Cenzino, figlio di mia zia Aida, sorellastra di mio padre per il secondo matrimonio di sua madre, che mi spinsero nell’incertezza di quel vuoto. Poi non ricordo nient’altro.
Mio zio Pietro mi portò, ancora incosciente, dal dottor Gaetano Deboli, e chiamò mia madre a squarciagola, e l’eco si sparse per la valle. Questo era un eccellente mezzo di comunicazione, col quale si trasmettevano domande e risposte. Così chiamarono mia madre. Oltre allo spavento, un po’ di paura e i rimproveri che anni dopo mio padre fece a mia madre, dandole un po’ di colpa, l’unica conseguenza fu una cicatrice sulla fronte che mi accompagna ancora oggi, ma che mi protesse da future cadute.
Non ci volle molto perché mio padre, dall’altra parte dell’oceano, venisse a conoscenza del mio incidente. La corrispondenza aveva una certa puntualità ogni mese. Mia madre gli raccontava di noi e di come stavamo crescendo e mio padre le scriveva della sua avventura americana. Lei gli chiedeva degli sviluppi dell’accordo fatto, e lui riferiva sui lavori che faceva. Come previsto, si sistemò a Villa Clara con lo zio Fortunato e gli altri connazionali, in un alloggio precario.
L’arrivo di mio padre rese quel posto ancora più scomodo. Ma la provvidenza, non molto tempo dopo, portò loro un’offerta di lavoro presso aziende agricole vicino a La Plata, ad Arturo Seguì. Detto fatto, fice che si trasferissero tutti.
Dopo aver lavorato un po’ di tempo con zio Fortunato nell’azienda agricola di Arturo Seguì, mio padre cominciò a lavorare nella fabbrica tessile Amat di Monte Grande. Mia madre gli mandava lettere con tutte le notizie del paese, su chi era venuto a mancare, mentre mio padre le raccontava dei progressi e delle conseguenze del “sindacalismo argentino”. Tra i lavori svolti ad Amat, ce n’era uno in cui lui insieme ad altri tre lavoratori dovevano caricare balle di filati, caricarle sui carrelli e stivarle nei magazzini. Il fatto era che puntualmente, a turno, ognuno degli altri tre faceva sosta per andare in bagno. Così le balle di filato non si muovevano. Giovanni, mio padre, si offriva allora di fare il lavoro per due, sostituendo il compagno con l’urgenza del bagno. “No, non puoi farlo” gli dissero la prima volta, un pò a modo di minaccia e un pò come insegnamento. “Non capisco” insistette “sono io che faccio il doppio della forza”. Lo avvertirono ancora una volta e quando andò in bagno gli operai gli spiegarono, con qualche botta, delle conquiste sociali ottenute, come andare in bagno senza necessità, l’uso della forza per far capire che così non va, e che era giunta una nuova era per gli operai. “Non capisco” tornò a scrivere nelle sue lettere, insieme ad una frase profetica per i tempi politici, economici e culturali che sarebbero venuti: “Queste persone avranno problemi”.
Ma mio padre non scriveva solamente. Tra una lettera e l’altra, con altri mezzi, inviava denaro a intervalli regolari. Tutti coloro che erano emigrati avevano il fondamentale bisogno di dimostrare che la loro avventura e il loro sforzo non erano stati vani e che potevano aiutare coloro che erano rimasti dall’altra parte del mondo, con la speranza di migliorare la loro vita. Anche se c’erano delle eccezioni. Come il caso di Carmelo. Carmelo si era già sistemato bene nella sua nuova patria e si godeva la vita. Alcuni paesani lo avevano avvertito del fatto che la sua famiglia a Montaquila non se la passava granché bene, e lui non riuscì a trovare un modo migliore per consolarli e aiutarli che scrivendo loro: “Cara famiglia, bevete e mangiate in allegria, non vi preoccupate per me”.
Un bel giorno, tra una lettera e l’altra, arrivò finalmente la notizia che mio fratello Angelo, compiuti i suoi sedici anni, sarebbe potuto partire. Era il 1952. Lo zio Fortunato aveva mandato a chiamare sua moglie Maria Antonia e a sua figlia Ana, e per completare il gruppo si decise che si poteva aggregare anche mio fratello Angel. Il progetto di mio padre andava avanti come previsto, e mentre mia madre soffriva sempre di più, in silenzio e nella sua solitudine, io diventavo sempre più l’uomo di casa. Lei andava sempre da un posto all’altro, tra il lavoro nella valle e il lavoro a casa. Devo confessare che la pulizia e l’ordine della casa non erano la sua priorità, perché il sostegno economico alla famiglia non le lasciava altro tempo. La cucina dove mangiavamo, aveva la stufa che affumicava e tingeva sempre tutto di giallo. Ogni tanto mia madre, con ciò che aveva, dipingeva le pareti. Gli strumenti a disposizione per fare questo lavoro erano un grosso ramo, abbastanza lungo da raggiungere i soffitti della casa, con in cima alcuni fiori di mais ben legati. Il pennello fatto in casa veniva immerso nella calce viva sciolta nell’acqua, e così si sfogava mia mamma con tutta la sua anima, il suo silenzio, con i ricordi di suo marito dall’altra parte del mondo, dipingendo i muri, schizzando i pavimenti, i mobili e tutto ciò che la incrociava in questo benedetto mondo. Lo avrebbe ripetuto anni dopo, quando il fumo avesse lasciato di nuovo le sue tracce, ancora una volta sperando che mio padre decidesse che era arrivato il momento giusto per il ritorno e stare di nuovo tutti insieme.
Lavorare in fattoria e fare qualsiasi altro tipo di lavoro era un fatto naturale per mia madre, e per quanto potesse essere pesante, lei non si affliggeva e lo svolgeva in scioltezza. Se c’era qualcosa di importante che la preoccupava, erano le tasse che doveva pagare. In Italia la maggior parte dei beni era tassato ed era necessario essere puntuali nei pagamenti perché in caso contrario, si rischiava la confisca del bene tassato. Si dovevano pagare tasse sulla casa, sui terreni, e sugli animali, facevano eccezione solo i cani da guardia e le galline. Ogni volta che arrivava la data di scadenza e mia mamma non era stata in grado di raccogliere tutti i soldi necessari, prendeva un po’ di lana dal materasso, la scambiava con denaro, pagava la tassa e infine riempiva gli spazi vuoti nel materasso con le foglie delle pannocchie di granturco. Con nostra madre ci sentivamo al sicuro e protetti da tutto, e non era che la mancanza di suo marito le avesse aguzzato l’ingegno. Aveva una capacità innata nel superare le difficoltà, e mio padre trasse sempre vantaggio dalla sua abilità di farsi avanti.
In ogni modo, il mondo continuava a girare e ogni 16 di Agosto in paese si svolgeva la festa del santo patrono: San Rocco. Tutti uscivano in strada e per due o tre giorni le persone dimenticavano i loro problemi e le loro preoccupazioni, mangiavano e bevevano insieme, con un sentimento di affetto comune e senza brutti ricordi. La festa era finanziata in parte con la vita di un maiale che lungo l’anno era lasciato girare libero in paese, nutrito dalla generosità dei vicini e infine macellato con gioia e venduto a tranci. Una volta era persino venuto il vescovo alla celebrazione, e ci sarebbe pure tornato se solo non fosse stato sorpreso dalla velocità dei cavalli che trainavano la carrozza per portarlo dalla stazione ferroviaria al paese. La persona incaricata di prenderlo era ben nota per la sua capacità di condurre, usando un suo metodo poco convenzionale, ma efficace. Questi, infatti, per tutto il percorso copriva i cavalli di insulti ben articolati, tirando in ballo antenati, parti intime, tutto il genere umano con i suoi Cristi, madri e altri dei. Peccato o virtù, il fatto era che questo suo modo così creativo risultava efficace e i cavalli correvano a una bella velocità.
Nondimeno, quando gli fu affidato il compito di portare il vescovo in paese, fu implorato fino all’ultimo minuto di non usare la sua tecnica in questo viaggio e di guidare la carrozza più lentamente se fosse stato necessario. Tuttavia l’impazienza del vescovo fece tornare il conducente al suo metodo per affrettare il passo. Dopo un po’ il vescovo aveva iniziato a lamentarsi con discrezione per la lentezza dei cavalli ed il conducente disse che avrebbe potuto farli andare più veloce, ma poiché avrebbe usato parole, insulti e bestemmie inadeguate all’onorabilità del passeggero, stavolta non avrebbe messo in pratica il suo metodo senza il permesso del vescovo. Il vescovo forse per un po’ di malessere, a causa del caldo, della polvere e del ritardo, gli diede il via libera. Non appena arrivarono in città, il vescovo confessò di non aver mai sentito da cristiani, neppure da quelli più rivoltosi e ribelli, atrocità così disparate, di tale livello di oscenità, ma allo stesso tempo così efficaci.
Alla celebrazione non partecipavano solo membri della Chiesa, era immancabile la banda musicale. I musicisti venivano a suonare a condizione che i paesani mettessero a disposizione la casa, in modo che a nessun suonatore mancasse vitto e alloggio. Ma questa organizzazione occasionale di assegnazione delle stanze non era esente da errori, alcuni dei quali erano pericolosi. Una volta, al termine di una delle notti della festa patronale, Geremia Ricci e sua moglie tornarono a casa. Stavano andando a letto quando improvvisamente e per loro sorpresa trovarono addormentati nel loro letto matrimoniale due musicisti. Questi infatti erano andati a finire nella casa sbagliata e siccome le porte delle case non si chiudevano a chiave, semplicemente avevano aperto la porta e si erano coricati a letto. Ancora oggi, in paese, le persone non chiudono a chiave le porte. Il fatto è che quei due musicisti erano entrati in casa e si erano messi comodamente a dormire. Geremia Ricci all’inizio pensò che fosse uno scherzo della moglie, ma poi prese il suo fucile e lo puntò alternativamente all’uno e all’altro minacciandoli di morte. “Siamo i musicisti, siamo i musicisti”, dissero più volte fino a quando Geremia capì la situazione. Tra i tanti episodi tragicomici che si ripetevano da un capo all’altro del paese, così tipici e tradizionali da rispecchiare i film del genere commedia all’italiana, di uno ne fui protagonista a cinque anni. Si affacciò alla porta di casa una ragazza di quindici anni, più o meno, chiedendo se qualcuno avesse visto o trovato un suo anello che aveva perso. Come per un’illuminazione del destino, pensai che fosse il momento giusto per vendicarmi, a modo mio, di una bambina della mia età che di solito mi prendeva in giro. Perciò rivelai, con moderata convinzione e nessuna innocenza, che avevo visto quando la bambina in questione l’aveva raccolto da terra e che sicuramente lo aveva ancora con sé. Il risultato quasi immediato fu che tutti, io, mia madre, la bambina falsamente accusata, i suoi genitori, dovemmo recarci al commissariato. Ben presto dovetti svelare la mia bugia, e questo provocó credo il mio primo serio turbamento di coscienza. Mia madre rimproverò rabbiosamente le autorità per aver preso in seria considerazione le mie parole e aver creato una seccatura così grande su un fondamento così insignificante. Fatto sta che l’anello in questione non si trovò, ma il mio inutile rammarico e il mio avvilimento per l’accaduto meritarono l’intervento del mio padrino Antonio Ricci. Era il padrino mio e delle mie sorelle e di mio fratello, e il mio cuore e i miei ricordi sono ancora profondamente legati a lui perché ci considerava e ci proteggeva, durante l’assenza di mio padre, con consigli e altre questioni più terrene. In quell’occasione si offrì di portarmi a casa sua per alcuni giorni, per distrarmi e liberare la mia mente colpevole. Fu una settimana indimenticabile. Carmela, la moglie del mio padrino, mi coccolò con con la stessa tenerezza con la quale aveva coccolato i suoi figli in tenera età, visto che ormai erano già più grandicelli. Avevano un camion e mi portarono a spasso con loro ovunque andassero. Mi mostrarono diverse parti del paese e fu per me come visitare altre parti del mondo. Quando, nel percorso, ci avvicinavamo al mio quartiere, pregavo il mio Dio interiore, che non fosse il momento di tornare a casa.
A quei tempi mio padre non aveva ancora deciso sul da farsi, e non c’erano molte novità al riguardo. Ma siccome manteneva uno scambio epistolare con sua sorella, la zia Aida, lei finì per irretirlo in un labirinto di bugie, che finirono per far esplodere in papà la decisione di non tornare più in Italia.
Prima di questo però c’è un altro ricordo che si affaccia nella mia memoria. Accadde che un nuovo insegnante arrivò in paese, con sua moglie e suo figlio e puntualmente tornava da scuola nel pomeriggio, scendeva dall’autobus e percorreva quattro isolati fino arrivare a casa sua. Forse fu proprio allora che nacque la mia vocazione commerciale di fornitore di servizi. Mi offrii, infatti, di portare la sua valigetta e il maestro mi ricompensava con qualche dolcetto. Non so se fosse giusto o no, ma preferii perseverare pazientemente per poter così ottenere delle ricompense un po’ più grandi. E non sbagliai, infatti poco tempo dopo l’insegnante comprò una nuova palla per suo figlio ed a me diede quella vecchia. Non giudicai se era giusto o no. L’emozione non me ne diede il tempo, perché il cuore mi balzava in gola, ma ciò non mi impedì di ringraziarlo adeguatamente. Portai la palla a casa tenendola ben stretta a me, quasi potesse sfuggirmi e la lasciai sul lato opposto del tavolo. Avevamo appena finito di cenare quando vennero a trovarci zio Pietro e suo figlio Emidio. Mio cugino ed io uscimmo di casa per giocare con la palla. A quattro metri di distanza l’uno dall’altro, io detti un calcio alla palla per primo, piano, facendo molta attenzione. Emidio invece la rinviò con meno attenzione e con molta forza indirizzandola al destino finale giù per la montagna e chissà dove perché non la vidi mai più. La cercammo quella notte: mia madre, lo zio Pietro, Emidio e io. La mamma la cercò anche il giorno dopo, all’alba molto presto, ma fu invano. In quel momento imparai cosa fosse la rassegnazione.
Mia madre, che aveva perso il conto delle rassegnazioni nella sua vita, non intendeva aggiungerne un’altra, ed iniziò a pressare mio padre per stabilire una scadenza al patto che avevano. Sicuramente tutto sarebbe andato a posto se non fosse stato per i pettegolezzi che zia Aida faceva arrivare ai fratelli di papà e che presto giunsero alle sue orecchie. Il fatto era che mia zia con chiacchiere maliziose e senza alcuna ragione metteva in dubbio l’onestà, la riservatezza e la fedeltà della mamma. I suoi cattivi e infondati pettegolezzi in paese non erano nemmeno tenuti in conto, era sola con la sua calunnia, ma la distanza e le difficoltà di comunicazione spargevano sconcerto e disagio. Quando mia madre lo venne a sapere, non reagì né con odio né con vendetta, semplicemente rimase indifferente. Ma mio padre invece, a dodicimila chilometri di distanza, non aveva la possibilità di mettere le cose a posto e capire la differenza tra pettegolezzo e verità. Tutte le ragioni che avevo per non raccogliere la provocazione come si sarebbe dovuto, convinto com’ero dell’onorabilità di mia madre, le avrei ritenute valide anche adesso. Invece mio padre non trovò altra soluzione che riunire tutti in Argentina e continuare qui le nostre vite insieme.
La mamma fece un nuovo tentativo per convincerlo, scrisse un’altra lettera, ma niente di più e ben presto passò sopra a tutte le clausole del patto. Quindi mio padre, dall’Argentina, iniziò le pratiche amministrative per ottenere il permesso di emigrazione per mia madre, le mie due sorelle e me. Questo passaggio, necessario per ottenere i biglietti, fu approvato il 31 gennaio 1955. All’inizio di marzo la mamma portò avanti le sue formalità in Italia. Ci dovemmo trasferire a Campobasso, dove ottenne il suo passaporto dove eravamo inclusi noi figli. Ci trasferimmo da lì al porto di Genova per alcuni esami medici. Le cose sembravano pronte, stavamo aspettando solo il momento della partenza. La data di partenza e il nome della nave dovevano essere confermati. Durante quei due giorni in dovemmo fare i conti con gli esami medici, alloggiammo nell’hotel per emigranti, vicino al porto. Quando qualcuno avvertì la mamma di un errore commesso nel passaporto: il nome di mia sorella, Giuseppa, era stato scritto erroneamente come Giuseppe, e questo avrebbe potuto impedire la partenza se non fosse stato corretto. Quindi tornammo in paese e il giorno seguente mia madre dovette tornare a Campobasso, con la missione di far correggere la “e” in “a” e dare a mia sorella la giusta identità.
Presa la decisione di andarsene, e con la personalità di mia madre le decisioni prese non avevano dietrofront, la casa e l’umore di tutti erano sottosopra. La mamma era tesa, cercando ogni momento di non lasciare niente al caso. Le formalità doganali e le altre procedure burocratiche, e in più l’incertezza di cosa si sarebbe trovata davanti, una volta iniziata la nuova vita, con un nuovo paesaggio e altre preoccupazioni, tutto ciò la teneva sveglia e inquieta tutto il tempo. La difficile decisione di vendere le sue proprietà, eredità dalla sua famiglia, era quello che la riempiva più di incertezze. Il mio padrino, Antonio, fu la persona che badò a tutto questo. Era la stessa persona che mi aveva regalato, insieme alla sua famiglia, una settimana in un mondo tutto diverso. Alcune cose si vendettero e altre si affittarono e Antonio si fece carico della loro gestione. Molti anni dopo capii l’apprensione di mia madre quando dovette trasformare le sue proprietà in denaro da investire e ricostituirle in un posto che non era mai stato ben descritto e che non riusciva nemmeno a immaginare. Dopo tutti i pettegolezzi diffusi da Aida, mio padre non ebbe nessuna intenzione di tornare in Italia, forse per paura o forse perché voleva dimenticare, quindi avere proprietà in Italia gli sembrò inutile e non redditizio. Da allora e fino a qualche tempo dopo di esserci stabiliti in Argentina, tutti le proprietà vennero liquidate.
Alla fine di marzo arrivò la notifica ufficiale. Il 1 aprile saremmo partiti dal porto di Genova, sulla nave Giulio Cesare. Fummo fortunati. Anche se viaggiammo in terza classe, era un lussuoso transatlantico. Mia madre non tardò molto a raccogliere le poche cose che avevamo. Prese una valigia e una cassa di legno e al loro interno mise i nostri vestiti, piatti e posate, che ho avuto la gioia di conservare in tutti questi anni. La mamma prese anche alcuni degli strumenti per lavorare la terra, il suo abito da sposa e dei libri di mio padre, alcune fotografie e soprattutto, la certezza che non saremmo mai più tornati a casa, anche se aveva la convinzione che non fosse la scelta migliore. All’ ultimo momento aggiunse una borsa piena di gomitoli di lana e alcuni ferri da maglia, per lavorare a maglia, qualcosa che effettivamente non fece, eppure non si staccò dalla borsa fino a quando arrivammo a Buenos Aires.
La mamma stava ancora finendo di fare i bagagli, e la notizia della nostra partenza si era già sparsa attraverso il passaparola, dalle case del quartiere fino alle persone giù in valle. La nostra si trasformò in una sfilata di persone. Mia madre aveva ventidue figliocci e tutti vennero a casa per salutarci, con le loro rispettive famiglie e così anche le altre famiglie dei vicini. A ciascuno di loro, la mamma raccontava dell’angolo del mondo lontano in cui avremmo vissuto.
Tra 1953 e 1954, mio padre si era già stabilito a Villa Clara. A quel tempo aveva un impiego sicuro ed era stato in grado di acquistare delle terre da un lotto messo all’asta dalla ditta F.lli Artaza, con agevolazioni per il pagamento rateale. In uno di quei terreni costruì un alloggio con cucina e due locali. Questa era la casa dove finalmente ci saremmo sistemati ed avremmo vissuto. Conoscevamo lo stato di avanzamento dei lavori attraverso le sue lettere, quando ancora continuava a mandare i soldi che riusciva a risparmiare sulle spese correnti, le rate della terra, i costi dei materiali da costruzione.
Mentre ringraziava le persone che venivano a salutarci facendoci i loro migliori auguri, mia madre si preoccupava di non trascurare nessun dettaglio nei preparativi, e che non le scoppiasse il cuore tra la rivoluzione in casa e la necessità di avere tutto sotto controllo. Tra coloro che vennero a salutarci c’era la famiglia Zaccarella. Michele era mio amico e mia sorella a volte si prendeva cura di lui. In un angolo della memoria ho conservato per sempre lo sguardo di sua madre mentre saltavo tra il baule e la valigia e correvo dappertutto per l’ultima volta in quella casa.
Con la consapevolezza che la vita e il tempo mi hanno dato, posso dire di aver capito lo sguardo di Maria Zaccarella, madre del mio caro amico Michele, uno sguardo che racchiudeva l’incertezza del nostro destino, chiedendosi in quale angolo di questo mondo saremmo andati a finire.
Nessuno di noi dormì quella sera. Alle cinque del mattino Angelo Zaccarella, lo zio del mio amico Michele, ci portò alla stazione ferroviaria di Roccaravindola. Prendemmo il treno per Campobasso e poi un altro per raggiungere il porto di Genova. Non persi mai di vista la tensione che percorreva per tutto il corpo la mamma e che si intuiva in ogni gesto. La responsabilità la soverchiava ed avrebbe dato la vita perché fossimo tutti, in un batter d’occhio, dall’altra parte dell’oceano. Ma il viaggio era lungo e c’erano ancora cose da risolvere.