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Capitolo IV
Crescere dall’altra parte del mare

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Avevo cominciato la scuola in Italia l’anno prima, a settembre. Il 20 aprile, senza un attimo di respiro, continuai le lezioni qui, come se non fosse successo nulla nel frattempo, come se mi fossi addormentato là e svegliato qui. Mio padre mi portò personalmente alla scuola numero 41, oggi la numero 10, a Villa Giambruno. Mi presentò in direzione, diede i miei dati personali e raccomandò alla direttrice che, per qualsiasi mancanza nell’istruzione, non esitasse a correggermi subito con un colpo di righello in testa, di taglio, e che dopo poteva chiamarlo cosicché potesse venire a prendermi. Conoscevo mio padre da appena quattro giorni e non avevo la migliore impressione di lui. Il suo modo di imporsi, le sue maniere dure e brusche mi ferivano sempre di più. La preside decise sul posto di esaminarmi, per poter stabilire se potevo iniziare dalla prima superiore o inferiore. Mi fece leggere il contenuto del mio passaporto per valutare la mia lettura e considerò che potevo iniziare in prima superiore. Ma leggere in italiano non era il problema, il fatto era imparare in spagnolo. Capire la lingua infatti ritardava la mia comprensione delle lezioni e per questo motivo mi bocciarono.

Due giorni dopo ero già a scuola, con un cappotto enorme, spesso e pesante, con i mormorii dei miei compagni di classe che mi circondavano e mi guardavano come se fossi un essere che veniva da un altro pianeta, che parlava strano e con un’insegnante che voleva insegnarmi in spagnolo. Tutti questi eventi mi segnarono per sempre: il rapporto con mio padre, il modo in cui mi trattava, lo shock enorme dello scontro con la realtà, la sensazione di discriminazione a scuola con le battute costanti e la creatività dei mie soprannomi, ricordo i più comuni “tano mangia-broccoli”, “tano mangia-cipolla”, frasi apparentemente sciocche che non solo mi fecero crescere all’improvviso, ma anche sentire una grande tristezza. Ho contato da due a tre litigi a settimana fino a quando arrivai ad un accordo di ‘non aggressione’. A peggiorare le cose, e a farmi sprofondare nella rabbia sempre di più, mia madre cucinava broccoli la sera. Avevo bisogno di un motivo per respingere le accuse e il bullismo dei miei compagni di classe, quindi mi rifiutavo di mangiarli. Ma non funzionò. Mio padre, che non era a conoscenza dei miei problemi, non accettava il mio rifiuto perché riteneva che qualsiasi cosa fosse messa in tavola si doveva mangiare senza obiezioni. Quindi per farmi capire questa nuova lezione, mi fece mangiare solo verdure per tre giorni di fila. Avendo imparato la lezione, io alla fine dichiarai: “Che buone che sono le verdure”. Al che, mio padre aggiunse: “E ieri erano anche meglio”. Da quel momento in poi mangiai qualsiasi cosa la mamma preparasse, fredda, calda, cruda o troppo cotta.

Credo che prima di allora non mi fossi mai sentito triste. Avevo la sensazione di essere nel mezzo di un brusco abbandono. I bambini che erano immigrati prima di me ormai erano grandi. A volte cercavo la loro solidarietà, ma loro, che avevano già vissuto quell’esperienza, non erano ben disposti a ripeterla. E così, come in altre circostanze spiacevoli, non c’era posto per le lamentele e bisognava aprir le braccia alla rassegnazione.

L’unica oasi che poteva esserci, sarebbe stato incontrarmi con mia sorella Giuseppa all’intervallo, ma neppure ciò era possibile, giacché i cortili di femmine e maschi erano separati. Presto capii che dovevo cavarmela da solo e con le cattive. Le liti che spesso avevo per porre fine alle battutacce dei miei compagni, avevano conseguenze fisiche e, alle volte, anche peggiori. Per esempio, quando il mio grembiule fu ridotto a brandelli. In Italia, I grembiuli erano uguali per ragazzi e ragazze. Per la fretta che c’era sempre e per non perdere tempo in questioni di poco conto, mia madre mi mise uno dei grembiuli di mia sorella, che ne aveva due. Di quanto fosse imbarazzante nessuno se ne accorse né ci pensò. Ma io sì. Quel giorno non sapevo dove nascondermi dalla vergogna e mi coprivo con lo stesso cappotto enorme e la sciarpa che indossai nel viaggio dall’Italia. Non me li tolsi di dosso per tutta la mattinata, sempre attento a che non si intravedesse niente. Fu un vero e proprio tormento perché tutti volevano vedere cosa indossavo. Quando tornai a casa mia madre capì la situazione e nel pomeriggio risolse coi necessari rammendi.

Il cumulo di così tante avversità in poco tempo, mi portarono, un giorno, in preda un po’ dell’infelicità e un po’ della ribellione, a gridare a pieni polmoni: “Torno in Italia”, e uscii di casa, assolutamente determinato nel mio intento. Corsi per un paio di isolati verso dove credevo si trovasse il fiume, e pensavo: dopo il fiume viene il mare e dopo il mare sicuramente c’è di nuovo l’Italia. Mio padre mi lasciò andare per alcuni isolati e poi mi raggiunse. Non ha neanche provato a consolarmi. Tirato per un orecchio tornai alla solita vita.

Piano piano, così come mia madre dovette imparare a rassegnarsi a certe cose, anche io imparai a fare lo stesso. Mio padre veniva a tavola senza l’intento di essere severo, ma finì per assumere abitudini che lo facevano apparire tale. Una era quella di sedersi a tavola con la cintura allacciata, ma senza farla entrare nei passanti, per poter agire con prontezza, senza lasciare scampo, quando serviva un castigo. Ho ancora molti ricordi dei metodi adottati da mio padre per correggere le deviazioni disciplinari. E non li giudico con l’ottica attuale. Anzi, non li giudico del tutto. Erano situazioni e metodi di quei tempi, in quei tempi hanno avuto il loro effetto e mi hanno educato e formato in qualche modo.

A volte mio fratello Angelo usava l’espressione: “me cache en diè”, e senza aver affatto capito quando si poteva o meno usare, un giorno ebbi la brillante idea di ripeterla a tavola. Ebbi la sfortuna di avere mio padre seduto accanto, che, con la velocità di un lampo, mi stampò uno schiaffone in faccia, facendomi arrivare fino agli angoli più remoti del cervello che non era consigliabile ripetere quella frase, che, a quanto pare, era permessa solo ai grandi. Scese il silenzio. Anche da parte mia. Quella frase non l’ho più ridetta.

Dover condividere faccende domestiche con mia sorella Giuseppa non era per niente facile. Faceva fatica a mettersi in moto e a proseguire con continuità. Rispettare gli impegni non era per lei. I miei genitori avevano comprato una pompa per l’acqua, che serviva a riempire un serbatoio per la cucina e il bagno. In questo modo, mio padre aveva rimpiazzato la fontana di Montaquila, collegando la pompa ad un tubo che portava l’acqua in un serbatoio in fibrocemento di duecentocinquanta litri, collocato sulla terrazza di casa. Erano piccole innovazioni, fatte per introdurre un minimo di comodità in casa e anche per addolcire un po’ il cuore alla mamma. Mia sorella ed io avevamo il compito di pompare, quattrocento o cinquecento volte a ciascuno, la quantità sufficiente a riempire il serbatoio. Ma non tutto andava come doveva, per via di Giuseppa, che non arrivava mai alla quota stabilita e sempre si approfittava di me, mercanteggiando e caricandomi di pompate che poi non restituiva a parificare gli sforzi. La mamma non tardò ad accorgersene e la costrinse a fare il lavoro che doveva e anche di più per compensare la furbata. Giuseppa quindi si arrabbiava e con tutta la sua furia, finiva per pompare più del necessario, facendo traboccare inutilmente il serbatoio.

Una domenica pomeriggio presi in prestito la bicicletta di mio padre. Di solito la usava per andare al lavoro, ma quella domenica, per la rotazione dei turni di lavoro, gli toccava il turno di notte. Appena salii sulla bicicletta, sembrava che si rivoltasse contro di me. La catena saltava continuamente, la risistemavo riempiendomi le mani di grasso. Tutto inutile. Dopo aver ripreso un po’ ad andare, tornava a sganciarsi dalla corona e dal pignone. Ad ogni guasto mi sentivo ribollire il sangue e alla quarta o quinta volta non ce la feci più. Senza pensare alle possibili conseguenze gettai la bicicletta per terra e iniziai a saltare sulle ruote, piegando raggi e cerchioni, danneggiandola fino a renderla inutilizzabile. In quel preciso momento mi resi conto delle proporzioni della mia rabbia, ma, soprattutto, mi immaginavo mio padre al momento di doverla usare. Tornai a casa al cader della sera, trascinandomi a fianco, in qualche modo, la bicicletta. Appoggiai la bicicletta su una colonna di cemento ed entrai in casa cercando di dimenticare quello che era appena successo, ma mi fu impossibile. Nessuno notò l’incidente. Non ebbi il coraggio di dichiararmi colpevole e tacqui aspettando il corso degli eventi e lo scatenarsi della tragedia. Mio padre doveva andare a lavorare alle dieci di sera. Finito di cenare, alle nove, disse a mamma che andava a sdraiarsi un po’ e di chiamarlo alle nove e mezza. Alle dieci meno venti la mamma lo chiamò: “Giovanni, sono le dieci meno venti”. Mio padre si alzò subito e chiese se la bicicletta avesse le gomme ben gonfie. Il conto alla rovescia era arrivato alla fine. Davvero. Ebbi il tempo sufficiente prima di sentirlo precipitarsi e urlare tra il cielo e la terra di Villa Clara: “Lo ammazzo”. Entrò in casa come una tempesta, con la cintura in mano e colpì tre, quattro volte il rigonfiamento nel mio letto. Non si fermò di più perché sarebbe arrivato tardi per il suo turno in fabbrica. Quindi con lo stesso impeto con cui era entrato, uscì, giurando che avrebbe continuato a fare giustizia la mattina dopo.

La mamma entrò subito nella stanza. Sapevo che, almeno per ora, il peggio era passato e pensai che l’espediente di infilare nel letto, al posto mio, il cuscino nascosto con la coperta, aveva funzionato. Quando vidi mia madre, mi affacciai da sotto il letto e le chiesi con aria compiaciuta: “È uscito?”. La mamma, in tutta risposta, mi diede un ceffone che mi fece sbattere la testa contro la trave del letto. Comunque, il bilancio fu soddisfacente, mi ero immaginato di peggio.

La soddisfazione di avercela fatta

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