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Capitolo III
Il mondo dall’altra parte del mare

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Dal ponte della nave, la mamma guardava il fianco delle montagne di Genova, le sue case, i suoi camini, e vedeva la propria vita proiettata verso luoghi ignoti. Vedeva un passato recente sparire così velocemente da non aver avuto nemmeno il tempo di reagire. Doveva accettare il fatto di essere stata spogliata della sua terra e dei suoi ricordi, come se nulla fosse successo. La contemplavo, consapevole della sua malinconia e tristezza e credetti che la cosa migliore fosse intervenire con parole che rompessero quel silenzio e dissi: “Arrivederci Italia”. Mia madre crollò. Se avesse pianto poi, non lo so, ma quella volta sì, perché lo vidi e lo sentii. Si chinò verso di me e continuò a piangere ancora un po’, e mi abbracciò con un braccio solo, perché con l’altro teneva ancora stretta la borsa con la lana e la maglia.

A Roccaravindola abbiamo incontrato la famiglia Rossi, Berenice, Giuseppe e i loro otto figli. Abbiamo condiviso tutto viaggio con loro, e più tardi fummo pure vicini di casa a Villa Clara. Con Pepe, uno dei loro figli, abbiamo passato molto tempo a giocare a dama sulla nave e Adriano, un altro dei loro figli, divenne un mio dipendente qualche tempo dopo, in una delle mie tante attività commerciali.

Anche se i nostri posti erano in terza classe, il transatlantico era una nave maestosa, solo passeggeri, dove si serviva la colazione, il pranzo e la cena come non avremmo mai sognato. C’erano zone destinate ai giochi per bambini e altre per le attività ricreative degli adulti. Condividevamo la nostra cabina con una donna che viaggiava con suo figlio e l’oblò, da cui entrava la luce e il buio, incorniciava la linea di galleggiamento.

Mia madre continuava ad essere ansiosa e nervosa. Camminava lungo il ponte e si sedeva, di tanto in tanto, con il lavoro a maglia in grembo, ma senza farlo. Con il passare dei giorni, iniziarono a circolare delle voci su quanto fosse pericoloso attraversare lo stretto di Gibilterra. Senza nessuna logica, era nata, e diffusa da qualche ignorante, la diceria che se nello stretto ci si fosse incrociati con un’altra nave in senso contrario, correvamo il rischio di collisione.

Questo provocò, soprattutto nei bambini, me compreso, una grande paura.

Poi arrivammo al porto di Dakar e, anche senza scendere dalla nave, rimasi sorpreso a vedere persone di colore che camminavano in terra. Alcuni passeggeri scendevano nei porti dove faceva sosta la nave per i rifornimenti. Noi, assieme ad altre famiglie rimanevamo sulla nave per la semplice ragione di non aver nulla da fare in terra. Una volta partiti da Dakar, sapevamo che la nostra prossima fermata sarebbe stata dall’altra parte dell’oceano. Festeggiammo il pranzo di Pasqua in alto mare, uovo di cioccolata incluso.

Mentre viaggiavamo, mio padre andava di tanto in tanto al porto di Buenos Aires per avere informazioni e conferma di volta in volta della data di arrivo della nostra nave. Mia madre mi aveva preparato per il freddo che ci aspettava in Argentina. Ci comprava sempre vestiti di alcune taglie più grandi, così da poterli usare per alcuni anni senza doverne acquistare di nuovi. Il mio era spesso come una coperta e così grande che non vedevo le mie mani. Servì allo scopo, mi accompagnò per tutto il viaggio e per molti anni ancora. Ma mi faceva sentire a disagio, ridicolo e goffo.

Nel mezzo dell’Oceano Atlantico, la Giulio Cesare incontrò l’Augusto, una nave della stessa compagnia che stava facendo lo stesso viaggio, ma in senso opposto. Ci fu un frastuono di sirene, e urla, e mani che salutavano sconosciuti. Fu un episodio importante del viaggio, il quale rimase fissato nella mia memoria. La successiva fermata fu il porto di Rio de Janeiro, e poi il porto di Santos, in Brasile. A quel punto mio padre aveva la conferma definitiva della data del nostro arrivo a Buenos Aires: sabato 16 aprile del 1955.

Il porto di Buenos Aires era pieno di gente. Non avevo mai visto così tante persone tutte insieme. Quelli sulla nave si salutavano con quelli a terra senza conoscersi, come facemmo quando salutammo i passeggeri dell’Augusto in mezzo all’oceano. Dopo aver aspettato un po’, sbarcammo. Mio padre e mio fratello erano lì ad aspettarci. Ci salutammo tutti più e più volte. I miei genitori si rivedevano dopo quattro anni, il che li mantenne emozionati per un pò di tempo. Tutta la famiglia visse un momento di agitate emozioni, coi cuori che battevano forte. Io rimasi estraneo a questo festoso sconvolgimento. Per i ricordi che avevo fino a quel momento, quella fu la prima volta che conobbi mio padre. Andammo a Villa Clara in autobus, girando dappertutto i nostri occhi avidi e curiosi ad esplorare il nuovo paesaggio. A poco a poco ci allontanammo dal centro città, e l’espressione di mia madre si alterava gradualmente chiedendosi come sarebbe stata la nostra destinazione. Quando dopo più di un’ora finalmente arrivammo, lei rimase in silenzio, osservando ogni dettaglio della casa e l’immensità della campagna che ci circondava, con qualche casa sparsa qua e là, senza fare commenti.

Villa Clara era a quel tempo, una vasta area di campagna di quaranta ettari, in gran parte desolata e con un po’ di edifici modesti, nel chilometro 28, tra la Strada Generale Belgrano e la autostrada 2, a circa venti isolati dalla stazione di Bosques. La maggior parte dell’attività economica, peraltro modesta, consisteva in alcuni caseifici, il cui prodotto era adeguato, o poco più, al commercio con gli abitanti del paese. Il più noto era della famiglia Callegari. Con uno dei loro figli, Jorge, coltivammo una profonda amicizia. A parte quelle piccole manifestazioni sociali e produttive, non c’era nient’altro, il luogo era selvaggio e ostile, dove le strade erano sterrate e con l’erba che stava guadagnando spazio per la scarsa circolazione. C’erano promesse di asfaltatura, luce elettrica e gas, cose che sarebbero arrivate molto tempo dopo. Tutto ciò che doveva essere riscaldato, acqua, cibo o quant’altro, si lo faceva con un’unica stufa a cherosene. Perfino il lume che faceva luce la sera era a cherosene, finché più di un anno dopo arrivò il “sol de noche”.

La casa che mio padre riuscì costruire aveva una cucina e due camere da letto. Mio padre e mia madre dormivano in una stanza e noi quattro nell’altra, in due letti separati: ragazze in uno, ragazzi nell’altro. La mattina presto i nostri letti si mettevano fuori e la stanza si trasformava in sala da pranzo.

Mio padre era contento. Aveva portato a casa un grammofono RCA con cui suonava le canzoni di Beniamino Gigli, Feliciano Brunelli, opere, e altri cantanti italiani che oramai non ricordo. Mi ricordo che una volta, alla fine di uno di quei dischi in gommalacca, il grammofono continuò a girare a vuoto facendo un leggero rimbalzo a fine corsa. L’osservai ripetere inutilmente il suo girare e quindi per la prima volta mi rivolsi a mio padre: “Oh!” –Gli dissi senza sapere se dovevo chiamarlo “papà” oppure col suo nome, “Potrebbe fermare il grammofono?”.

Dopo un po’ mio padre chiese a mia madre come stavo per il colpo che avevo ricevuto in testa e io la sentii dire che stavo bene, ma che dovevo cercare di evitare essere colpito dove avevo preso il colpo. Ascoltandola, non capii se dovevo stare attento a non farmi male o se mio padre non poteva colpirmi in testa per punirmi. Fatto sta che avevo sentito la conversazione e da quel momento in poi, dopo aver fatto qualche monelleria che meritava una punizione, mostravo la testa con la cicatrice permanente e riuscivo ad attenuare la severità del castigo.

Tutti vennero a casa a salutarci e darci il benvenuto. Ci incontrammo pure con lo zio Fortunato e la sua famiglia, che ora erano anche nostri vicini di casa. Era come se tutti volessero ricreare la vita e le abitudini che avevamo lasciato dall’altra parte dell’oceano. Ma la mamma non smetteva di fissare assorta la solitudine del paesaggio. Lo confrontava con quanto avevamo lasciato e ne ricavava un bilancio negativo. Era infelice, potevo leggerlo nel suo volto. Prima piuttosto che poi, si scagliò contro mio padre. Lo rimproverò per essersi sistemato in un posto che non era migliore di quello in cui eravamo, dove eravamo inseriti in un paese che stava tornando a funzionare e che presto sarebbe uscito dalla stagnazione. A Villa Clara non avevamo né elettricità, né acqua corrente. La discussione non fu facile. La mamma continuò con le sue recriminazioni perché mio padre le aveva fatto vendere tutte le sue proprietà in Italia per venire e investire i suoi soldi in un posto adatto solo a far perdere il capitale. Papà sapeva che era vero, aveva fatto una scelta sbagliata e con poca visione per il futuro. Ma aveva la virtù di non cercare di mascherare i suoi errori con delle scuse. Solo cercò di spiegare che “non era stato in grado di costruire un posto migliore perché mandava a casa soldi ogni volta che poteva”. Stava per prendere un pezzo di carta da una delle tasche dei pantaloni in cui aveva annotato con precisione quasi contabile, la somma specifica e il giorno in cui aveva mandato il denaro. La mamma disse una volta per tutte l’unica frase che era necessaria per finire con la disputa e poter iniziare la nuova vita: “Non sono necessari dettagli”, prese la borsa per fare a maglia, la mise sul tavolo e continuò: “Qui c’è quello che hai mandato, tale e quale”. Religiosamente, ogni volta che riceveva una busta con il denaro, faceva un gomitolo di lana con i soldi dentro, e così aveva conservato tutto il tempo quei soldi come un tesoro intoccabile. Poi, prima che mio padre potesse superare il suo stupore, la mamma disse un’altra frase, con cui tutti iniziammo definitivamente la nuova vita: “Questo è ciò che abbiamo ora” riferendosi a tutte le novità della situazione “e con questo riusciremo ad andare avanti”, e mai più si lamentò del suo destino. Almeno lei.

La sera, dopo cena, mio padre e mia madre andarono nella loro camera da letto e con mia sorpresa chiusero la porta. Le mie sorelle mi spiegarono che era giusto così. Ma l’unica cosa che capii fu che si era aggiunto un fattore in più per capire, con uno o più traumi, che nulla sarebbe stato più come prima. La vita si era spezzata in due.

Il giorno dopo, con un furgone del nostro vicino Giovanni D´Angelo, andarono al porto a prendere il baule con il resto delle nostre cose, assieme a quelle della famiglia Rossi, con cui avevamo viaggiato.

La soddisfazione di avercela fatta

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