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CAPITOLO QUATTRO

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“Non c’è niente qua fuori, Royce,” insistette Mark, ma Royce scosse la testa. Non poteva spiegare tutto quello che aveva visto senza rischiare di cambiare le cose, ma sapeva che quella era la direzione giusta. Mise una mano sulla borsa che conteneva lo specchio, sentendo la sua rassicurante presenza.

“Stiamo andando dalla parte giusta,” lo rassicurò Royce.

“Allora dicci perché,” chiese Mark.

Royce esitò. “Io… non posso. Vi prego, dovete fidarvi di me.” Si voltò a guardare Matilde e Neave. “So che è difficile, ma so quello che sto facendo.”

“Sarebbe più facile se ci fossero terre in vista,” disse Matilde, indicando la distesa aperta del mare attorno a loro. “Non voglio restarmene qui ad andare alla deriva, Royce.”

Gwylim abbaiò come se fosse d’accordo con lei.

“Possiamo sempre mangiare te se finiamo il cibo,” disse Neave. Royce ci mise qualche secondo a capire che era una sua idea di battuta. La ragazza lo guardò negli occhi. “Se dici che questa è la direzione che dobbiamo seguire… beh, hai già avuto ragione altre volte.”

Royce le era riconoscente per questo, anche se era perfettamente consapevole che la giovane Picti avrebbe potuto facilmente sottolineare anche tutte le volte in cui si era sbagliato. Royce li aveva già condotti lungo una pista falsa, trovando lo specchio ma non suo padre. E se questa volta fosse stato lo stesso? E se lo specchio non gli avesse mostrato la verità?

Quella sensazione lo tormentava mentre continuavano a navigare, perché Royce sapeva quanta gente era stata deviata per aver visto troppo, considerando le possibilità come fossero certezze. Barihash aveva distrutto un’intera città per questo. Royce poteva condurre i suoi amici alla morte allo stesso modo.

Quella possibilità gli faceva venire voglia di girare la barca. Voleva che gli altri fossero al sicuro, voleva fare la cosa giusta per loro e per il regno, eppure le cose che aveva visto continuavano a fare pressione su di lui. Non erano la vasta gamma di possibilità e varianti che aveva visto nello specchio, eppure poteva ancora mantenersi sul filo centrale, poteva ancora ricordare i passi che doveva compiere. Guardò oltre attraverso gli occhi di Bragia. Il falco stava volando disegnando cerchi sopra alla barca, e in lontananza gli parve di distinguere la striscia verde di un’isola.

“Lì!” disse. “C’è un’isola lì!”

Gli altri parvero essere incoraggiati da quella visione. Mark corresse la rotta di un poco, Matilde e Neave aspettarono con ansia che il vento spingesse avanti la barca. Gwylim si portò a prua, lì immobile come una polena. Presto fu possibile vedere l’isola in lontananza, anche senza gli occhi di Bragia.

Era piccola confronto alle Sette Isole che si erano lasciati alle spalle, ma lussureggiante di erba e alberi, tanto che sembrava un gioiello verde che sbucava dal mare. Era piuttosto pianeggiante e l’interno dell’isola scompariva tra gli alberi, cosicché era impossibile vedere molto dalla barca. Quando si furono avvicinati, Royce distinse delle spiagge di sabbia dorata che si fondevano con i boschi come il bianco di un occhio attorno all’iride verde.

“Speriamo solo che non ci siano donne magiche o lucertoloni anche qui,” disse Matilde.

Neave scrollò le spalle. “Se ricordo bene, Lethe ti piaceva abbastanza.”

“Non è il momento di mettersi a litigare,” disse Royce. “Ma avete ragione, potrebbero esserci dei pericoli.”

Fece volare Bragia sopra alla spiaggia, usando il falco come guida, volendosi assicurare di non portare i suoi amici in un altro posto colmo di pericoli. Avrebbe potuto guardare nello specchio, ma quella era un’opzione ancora più pericolosa: doveva vedere ciò che era, non ciò che poteva essere. Attraverso gli occhi del falco, Royce vide che gli alberi formavano un cerchio esterno attorno al centro dell’isola, mentre dentro si trovava un vasto terreno aperto ricoperto di erba.

Su di esso vide un branco di cervi bianchi che brucavano e gli parve che un cervo maschio sollevasse la testa al passaggio di Bragia, le corna maestose stagliate al vento mentre controllava il volo del falco. Ora Royce sapeva senza ombra di dubbio che questo era il posto che lo specchio gli aveva promesso. Significava anche che sapeva cosa fare adesso.

“Siamo nel posto giusto,” disse. “Devo scendere a riva da solo.”

“Da solo?” chiese Mark con voce ovviamente incredula. “Dopo che abbiamo fatto tutta questa strada con te, vuoi andare da solo?”

“Devo,” disse Royce. “Io…” Di nuovo provò la tensione dei futuri che minacciava di mutare. Se avesse spiegato, sapeva che le cose che aveva visto sarebbero cambiate del tutto. “Non posso spiegarne i motivi, ma devo andare su quest’isola senza nessun altro.”

“Sai come sembra?” chiese Matilde.

“Sembra una sciocchezza senza senso, lo so,” confermò Royce.

“No Royce,” rispose lei. “Sembra che non ti fidi di noi.”

“Metterei la mano sul fuoco per voi,” disse Royce. “E quando potrò, spiegherò tutto. Ma adesso non posso.”

“E quindi devi andare sull’isola da solo, soltanto con la spada di ossidiana come protezione?” chiese Neave. La sua disapprovazione era evidente come quella degli altri.

“Penso… penso di poter portare Gwylim e Bragia con me,” disse Royce. La forma del potenziale futuro non sembrava essere intaccata dall’idea della loro presenza. “Vi prego, siete arrivati fino a questo punto fidandovi di me. Vi chiedo solo un altro sforzo.”

“Va bene,” disse Mark sospirando. Ma non mi piace.

Portarono la barca il più vicino possibile alla riva, senza toccare la spiaggia, poi buttarono in mare una piccola ancora per tenerla ferma. Royce controllò di avere la sua spada e tutto il resto di cui aveva bisogno, mentre Gwylim si portava al suo fianco. La presenza del bhargir gli dava un senso di potere e sicurezza di cui Royce era grato. Bragia volava sopra di loro, disegnando dei cerchi attorno all’isola alla ricerca di pericoli. Royce mise lo specchio nella borsa di velluto che aveva alla cintura.

“Tornerò appena posso,” promise ai suoi amici.

Royce scese dalla barca, mettendo i piedi in acqua. Era bassa lì e gli arrivava solo alla vita, ma lo stesso avanzò con cautela mentre si dirigeva verso la costa. C’era sempre il rischio di qualche creatura pericolosa nell’acqua. Il bhargir nuotò fino a che non poté posare le zampe sulla sabbia e camminare come Royce.

Arrivarono alla spiaggia, con le onde che lambivano delicatamente la sabbia. Guardandosi alle spalle, Royce vide che i suoi amici erano ancora sulla barca, in attesa ma preoccupati. Sapeva che avrebbe dovuto fare in fretta: se ci avesse messo troppo, sarebbero di certo venuti a cercarlo, semplicemente per assicurarsi che stesse bene.

Si portò in mezzo agli alberi, con Bragia che volava in alto, guardando attraverso i suoi occhi il più spesso possibile per assicurarsi che la direzione fosse quella giusta. La vegetazione era piuttosto rada e Royce poteva scorgersi in mezzo agli alberi, guardando se stesso dall’alto attraverso gli occhi del falco. Si addentrò di più verso l’interno dell’isola, diretto verso il punto dove il paesaggio si apriva in una distesa pianeggiante e scoperta.

Tra gli alberi vide molte piante che conosceva: frutti e radici commestibili che suggerivano che qualcuno potesse vivere sull’isola per tutto il tempo che voleva, senza doversi preoccupare di morire di fame. Royce poteva sentire poco lontano il rumore di un corso d’acqua, e avvicinandosi a quel suono, trovò l’acqua che sgorgava da dei massi ricoperti di muschio. Meglio ancora, vide il piccolo secchio di fortuna che vi era stato posto accanto, ovviamente progettato e costruito per prendere l’acqua. L’aveva fatto suo padre?

Royce osava sperarlo, mentre arrivava al limitare degli alberi e metteva piede sulla piana ampia ed erbosa. L’erba era corta, ovviamente mantenuta a quell’altezza dagli sforzi dei cervi, mentre c’erano dei punti dove non ce n’era proprio, perché vi si trovavano delle grandi piastre di roccia, contrassegnate da simboli e segni intagliati sulla superficie. La maggior parte dei cervi corsero via sparpagliandosi, diretti verso il bosco alla ricerca di un nascondiglio. Solo uno rimase lì: un cervo maschio più grande degli altri, le corna magnifiche, la pelliccia bianca che luccicava al sole. Si impennò, lanciando un bramito scocciato, poi andò verso gli alberi insieme agli altri. Se Royce non avesse già saputo di essere nel posto giusto, lo avrebbe scoperto adesso.

Ora che si trovava in quell’ampia radura nel cuore dell’isola, poteva vedere la capanna che vi era stata costruita, riparata sotto agli alberi di lato. Era di semplice fattura, ma sembrava robusta, costruita con alberi caduti e tagliati da mani che chiaramente sapevano quello che facevano.

Royce si diresse verso la capanna, ragionando sul fatto che ciò che era venuto a cercare qui poteva solo trovarsi là dentro. Attraversò la radura, passò oltre le lastre di pietra e si trovò a fermarvisi accanto per leggere. Vi trovò le parole delle persone che erano state lì prima, e qualcosa in quelle parole parve risuonare nel profondo della sua anima. Alcuni rimasugli della chiarezza che aveva trovato nello specchio gli dicevano che quelle erano parole in una lingua antica riguardo ai suoi antenati, re e regine di cui le pietre avevano cantato e i cui regni erano stati pieni di magia.

Royce andò fino alla capanna. Era semplice, ma poté vedere che qualcuno aveva iniziato a intagliare delle scritte nel legno, lavorando con un coltello lungo, o forse con un’accetta tenuta con mani attente. Royce fissò gli intagli, che sembravano raccontare la storia di un uomo che aveva attraversato il mare, che aveva fissato nello specchio e…

Royce sentì Gwylim ringhiare accanto a sé e si girò giusto in tempo per vedere un’ascia che calava verso il suo volto. Royce si gettò di lato e l’arma si piantò nel legno, liberandosi subito dopo mentre un uomo grande e grosso con i capelli scompigliati e la barba incolta la tirava su di nuovo.

“Carris finalmente mi ha trovato e ha mandato un assassino?” chiese l’uomo, pronto a colpire ancora con la sua accetta.

Royce fece un salto indietro, schivando con fatica il fendente. Sguainò la spada di ossidiana e parò il colpo successivo, trovando solo a malapena la forza per tenere la lama alla larga dalla sua testa. Al suo fianco, Gwylim ringhiava, pronto a saltare da un momento all’altro.

“No, Gwylim, non farlo,” disse Royce. La distrazione quasi gli costò la vita mentre il suo avversario lo colpiva allo stomaco con il manico dell’ascia, pronto poi a calarla contro di lui in un fendente mortale. Royce rotolò via e l’accetta colpì la terra dove si era trovato un istante prima.

“Padre, ti prego,” gridò Royce. Gettò via la spada di ossidiana, intenzionato a fargli capire che non era lì per combattere.

“Pensi che possa cascare in un trucchetto del genere?” chiese suo padre. “Pensi che gli assassini non abbiano finto di essere tutti coloro a cui voglio bene, ormai? Intendi indurmi ad abbracciarti così da potermi pugnalare? Ho dato a mio figlio un ciondolo con il mio sigillo in modo da poterlo riconoscere. Ce l’hai? No? Penso di no!”

Fece un passo avanti, l’ascia sollevata sulla propria testa, e per un momento Royce temette che la magia dello specchio lo avesse reso pazzo come aveva fatto con Barihash, capace solo di vedere nemici ovunque. Royce alzò le mani per arrendersi, nella speranza che suo padre fosse un uomo ancora abbastanza buono almeno da riconoscere quel gesto.

L’uomo rimase fermo fissando le mani di Royce, che presto si rese conto di cosa stava guardando: il simbolo impresso lì, le cicatrici di quando era stato bambino, quando aveva allungato la mano per afferrare il ciondolo che era finito in mezzo alle fiamme.

Suo padre si fermò e lasciò cadere l’accetta. “Tu… quello è il mio simbolo. Quello è il ciondolo che ti ho dato. Tu sei mio figlio.”

Royce sorrise. “Ciao, padre.”

Solo chi è coraggioso

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