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Capitolo 1

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Lero 1912

Il sole luccicava sul blu del mare Egeo mentre l'incrociatore italiano San Marco navigava lungo la costa orientale dell'isola di Calimno nel Dodecaneso, superando lo stretto passaggio tra di essa e l’isola di Lero, in una luminosa mattina del maggio 1912. Un giovane guardiamarina, Giuseppe Malpaiso, da poco assegnato a quella grande imbarcazione, guardava dal ponte mentre la nave superava due isolette ed entrava nell'ampia baia di Agia Marina. Sulla riva, vide un gruppo di case neoclassiche dall'aspetto ricco, che correvano lungo la costa e riempivano una valle poco profonda che percorreva l'isola. Al di sopra c'era una ripida collina dove una fila di torri rotonde, da ognuna delle quali partiva una serie di vele di tela, stava al di sotto di un maestoso castello veneziano.

“Mio Dio, guardate lì!” disse Giuseppe, “che posto fantastico!”

La nave da guerra entrò nella baia e si diresse verso gli edifici appena al di là dell'ingresso. Il capitano si rivolse a Giuseppe e ai suoi compagni.

“Preparate le scialuppe. Ogni ufficiale sarà accompagnato da un gruppo di marinai. Non appena getteremo l'ancora voglio che le barche partano.”

Uno degli ufficiali chiese, “Ci aspettiamo dei problemi?”

“Sinceramente spero di no. Ci è stato detto che qui c'è solo una piccola unità amministrativa, ma possono esserci dei soldati. Stiamo occupando tutte le Sporadi del Sud e apparentemente non ci sono state grosse difficoltà se non a Rodi. I Turchi hanno abbandonato senza opporre resistenza. A meno che non incontriamo problemi, voglio che li trattiate come ospiti non benvenuti e li incoraggiate ad andarsene!”

L'incrociatore gettò l'ancora nella baia. Giuseppe e i suoi compagni erano pronti e in attesa e quando le scialuppe furono messe in acqua vi salirono velocemente. I marinai afferrarono i remi e remarono rapidamente verso la banchina.

Giuseppe, che non era mai stato in missione in precedenza, sentì stringersi lo stomaco per il nervosismo quando abbandonarono la sicurezza della nave. Anche se teoricamente era al comando del tender, sapeva che i marinai ai remi stavano in realtà prendendo gli ordini dall'esperto nostromo seduto al suo fianco. Quando si avvicinarono alla costa vide un piccolo gruppo di uomini assembrato sul molo. Gli uomini seduti sulla barca presero le armi nel caso di un possibile scontro a fuoco.

“Tranquilli, ragazzi, state calmi. Non voglio nessun errore. Non sparate a meno che non ve lo ordini” Gramatika, il loro comandante, gridò da un'altra barca.

Quando la barca di Giuseppe arrivò sulla banchina, la prima della piccola flotta a raggiungere terra, i marinai misero i remi nella barca e lui saltò giù di lato insieme a un agile marinaio che prese abilmente la cima da ormeggio. I soldati scesero disordinatamente, le armi in pugno quando un piccolo uomo dalla pelle scura, che indossava un vecchio e piuttosto malridotto costume turco uscì da un gruppetto con le braccia alzate. “Non vi creeremo problemi – sappiamo di essere in un numero inferiore” disse in inglese – una lingua che Giuseppe aveva studiato a scuola. “Per cortesia venite con me nella casa dell'Amministratore.”

Le altre barche stavano attraccando e facendo sbarcare le guarnigioni di soldati che si stavano allineando sulla riva. C'erano solo cinque turchi, un gruppo raffazzonato, vestiti con vivaci ma rovinati costumi ottomani. Dietro di loro c'era un gruppo più numeroso di greci che stavano salutando i marinai italiani e stavano sventolando la bandiera nazionale greca. “Sembrano in uno stato pietoso,” disse uno dei soldati italiani. “Dove sono i loro soldati?”

“Non sottovalutate i turchi,” disse il comandante vicino a lui, richiamando l'attenzione dei suoi uomini. “Possono sembrare in rovina ma sanno anche essere dei guerrieri molto fieri come abbiamo scoperto in Africa del Nord. Mostriamo loro come sono dei veri soldati.”

Giuseppe fu orgoglioso dei suoi compatrioti quando si misero in riga con le loro armi moderne e si posero sull'attenti pronti a marciare – o a combattere. Il piccolo gruppo di turchi, però, si fece da parte per farli passare, e seguirono il primo uomo verso il piccolo ufficio sul molo.

“Combattiamo contro di loro dall'anno scorso in Libia,” disse Giuseppe “Mi chiedo come diavolo siano riusciti a bloccarci.”

“Sono stato uno dei primi a sbarcare a Tripoli” disse il soldato. “Non sembravano per nulla pronti a lottare e prendemmo subito il controllo. Proprio quando pensavamo che sarebbero caduti, arrivò un gruppo di arabi – la cavalleria. Dio, avevano dei cavalli meravigliosi! Ma sono anche estremamente sanguinari, glielo assicuro. Non fanno prigionieri e son sicuro che non vorrebbe vedere cosa fanno a chi cerca di arrendersi, “l’uomo tremò al ricordo. “Comunque, quasi ci batterono. Ci assediarono. Cominciammo con 20000 uomini ma ne rimasero solo circa 1000 quando riuscimmo a venirne fuori.

“Per nostra fortuna, noi” disse indicando la San Marco, “la Marina, siamo troppo forti per loro. Non hanno nessuna nave moderna per combatterci.”

Gramatika, accompagnato da un piccolo gruppo di soldati, seguì l'ufficiale turco all'interno dell'edificio per incontrare l'amministratore dell'isola. Dopo pochi minuti, uscì accompagnato da un turco dall'aria trasandata che parlò al suo piccolo triste gruppo. Il comandante italiano aspettò fino a quando ebbe finito. Poi si rivolse alla folla, le sue parole furono tradotte in greco da un interprete che era venuto a riva con loro dalla San Marco.

“Rivendichiamo quest'isola in nome del governo italiano. L'amministrazione turca se ne andrà. Dovranno essere trattati con rispetto e dovranno ricevere tutta l'assistenza necessaria per la loro partenza. Istituiremo subito una nuova amministrazione e l'ordine sarà mantenuto.”

I greci, sentendo questo, acclamarono gli italiani e fischiarono gli ottomani abbattuti mentre scendevano verso una barca che li stava aspettando per portarli verso la terraferma turca poco più a est.

Gramatika ritornò nell'edificio e chiamò all'interno gli ufficiali. “C'è un sacco di lavoro da fare qui e voglio che rispettiate la gente del posto che stiamo liberando dagli Ottomani. Lasceremo qui un gruppo per prendersi in carico l'amministrazione e mantenere la pace. La nostra priorità, una volta che ci saremo assicurati che gli ottomani se ne siano andati, sarà quella di mantenere l'ordine. Nel frattempo, voglio che troviate degli alloggi per gli uomini.”

Giuseppe tornò fuori con Gramatika e l'interprete. La sua piccola compagnia era ancora allineata e in attesa di ordini. L'interprete tornò alla nave per riferire al loro capitano. “Qualcuno qui parla greco?” chiese Gramatika ai suoi uomini. Nessuno si fece avanti.

“Come troveremo degli alloggi se non siamo in grado di parlare alle persone?” chiese al suo amico.

Proprio allora, un vecchio greco si fece avanti. “Mi scusi signore” disse in inglese.

Giuseppe si girò, “sì?”

“Lei parla inglese,” l'uomo sembrò sollevato. “Sono un insegnante. I miei amici vogliono sapere cosa sta succedendo qui.”

“Come ho spiegato, stiamo liberando queste isole dai Turchi.”

“Ma non abbiamo bisogno di essere liberati,” disse l'uomo. Sembrava confuso e indicò i turchi che se ne stavano andando. “Ci hanno lasciati per conto nostro e non si sono mai immischiati con noi. Non erano abbastanza.”

Giuseppe era confuso. “Ma governavano l'isola, no? Li stiamo sostituendo e vi stiamo liberando.”

“Ma liberarci da cosa? Non siamo prigionieri!”

“Mi dispiace, non sono veramente in grado di spiegare, sono solo un marinaio. Cercherò di far venire una dei nostri ufficiali a parlare con voi. Nel frattempo, mi è stato chiesto di trovare delle sistemazioni per i miei uomini. Può aiutarmi?”

“Sistemazioni?”

“Alloggi – stanze per loro dove soggiornare.”

“Intende hotel? In realtà non abbiamo nulla del genere qui.” Guardò in basso e pensò per un attimo, poi alzò lo sguardo, “I turchi avevano delle case. Se se ne sono andati, potreste mettere lì i vostri uomini. Ma non credo ci siano abbastanza stanze per tutti voi.”

“Allora dovremo ospitare alcuni uomini nelle case private.”

“Pagherete un affitto?”

“Non so. Non credo.”

L'uomo sembrò infastidito. “Affermate di venire a liberarci, ma mi sembra che siate peggio dei Turchi.” Si girò verso il gruppo di greci che erano in attesa dietro di lui e disse velocemente qualcosa in greco. Girandosi di nuovo disse, “vi porteremo dal sindaco. Dovrete spiegargli tutto.”

Gramatika ordinò a Giuseppe di andare col vecchio, che condusse l'italiano in un altro ufficio dove un funzionario rubicondo, lo presentò al sindaco dell'isola, che, seduto dietro una grande scrivania, stava sudando copiosamente. “Ναι [Sì]?” disse.

Seguì una discussione, con il sindaco che cominciò chiaramente ad agitarsi quando il vecchio spiegò quello che gli aveva detto Giuseppe. L'uomo si girò verso l'italiano, “Come le ho detto. Non avevamo bisogno di essere liberati e non abbiamo stanze a meno che non siate pronti a pagare.”

Giuseppe era stupefatto. “Capisco. Dovrò parlarne con il mio comandante. Grazie.” Si girò, lasciò l'edificio, e ritornò a riferire quello che gli era stato detto.

“Non vogliono essere liberati?” Gramatika era sconcertato. “Beh, non sta a loro decidere quello che vogliono,” proseguì in modo poco razionale, “li libereremo comunque. Spiegaglielo e di' loro di procurarci degli alloggi. Se non vogliono collaborare, dovremo obbligarli a farlo.”

Giuseppe tornò nell'ufficio del sindaco. Il vecchio era ancora seduto su una sedia davanti alla scrivania, sulla quale c'era un vassoio rotondo di ottone sormontato da un treppiede con un grande anello in cima. Sul vassoio c'erano due piccole tazze vuote. Il sindaco salutò Giuseppe, indicandogli una sedia libera su cui si sedette l'italiano. “Kaffee?” chiese e, ricevendo un cenno d'assenso, urlò qualcosa a qualcuno presente nell'ufficio adiacente. Una segretaria entrò, sollevò il vassoio per l'anello e lo portò fuori dalla stanza. Non venne detto nulla fino a quando la donna ritornò portando il vassoio su cui ora stavano tre tazze del forte caffè dolce amato dai Greci e dai Turchi. Tutti presero una tazza. Giuseppe, abituato al forte espresso italiano, ne bevette una lunga sorsata, e rimase sorpreso dalla dolcezza del caffè e dal ritrovarsi la bocca piena dei residui presenti sul fondo della tazza. Li inghiottì, non volendo mostrare il suo disagio.

Il sindaco disse qualcosa e il vecchio tradusse, “Quindi?”

Giuseppe ripeté quello che gli era stato detto. I Greci dovevano trovare degli alloggi per gli italiani e non sarebbero stati pagati. L'isola era sotto il controllo italiano e il comandante italiano prometteva che le cose sarebbero andate per il meglio per i greci, ma si aspettava la loro cooperazione.

Quando questo fu spiegato al sindaco, l'uomo emise un sospiro esasperato. “Molto bene, non possiamo combattervi e neppure vogliamo farlo,” tradusse il vecchio. “Troveremo delle stanze per i vostri uomini e speriamo che ci rispetterete e che ci permetterete di proseguire come facevamo prima che ci ‘liberaste’.” L'ultima parola fu detta con un tono sarcastico.

Fu accordato non senza difficoltà che gli italiani che sarebbero rimasti sull'isola sarebbero stati messi inizialmente in case private vuote. Giuseppe, sollevato che fosse passata la freddezza iniziale, accettò l'offerta di un'altra tazza di caffè – assicurandosi questa volta di bere solo la piccola parte liquida in cima – e poi, dopo gli amichevoli saluti, lasciò l'ufficio e ritornò dai suoi uomini.

Gramatika aveva ordinato agli uomini di sciogliere le righe e di rilassarsi. Erano seduti all'esterno di un piccolo bar, riparato dal sole da canne di bambù sorrette da una struttura di legno. Sembravano molto a loro agio e Gramatika invitò Giuseppe a sedersi a un tavolino vicino a lui. “Come è andata?”

“Bene,” disse Giuseppe. “Sono d'accordo nel trovarci delle sistemazioni ora che si sono calmati. Anche se non sono particolarmente felici che abbiamo cacciato i turchi.”

“No, l'avevo capito. Il nostro interprete è tornato pochi minuti fa e ci ha spiegato che gli è stato detto che la nostra forza di ‘liberazione’ è più come una forza di occupazione. Birra?”

Prese il silenzio di Giuseppe come un assenso e chiamò la cameriera, “due birre”. Lei sollevò due dita e guardò in modo interrogativo, rientrando nel bar e ritornando con due birre quando lui annuì. Lui le porse una moneta che lei guardò sospettosamente e poi disse qualcosa in greco.

“Sono soldi italiani,” disse, “Lira, capisce?”

Lei scosse la testa, disse qualcos'altro e mise il denaro sul tavolo. In quel momento, arrivò il vecchio e Giuseppe lo chiamò. “Può spiegare alla ragazza che questi sono soldi italiani e che qui sono validi?”

L'uomo si rivolse alla ragazza in greco. Lei guardò le monete, le prese e girandole lesse le iscrizioni. Il vecchio tradusse la sua risposta, “Non so cosa siano questi. Ora li prendo ma, se mi avete imbrogliata, mi lamenterò con il sindaco.”

“E noi non vogliamo che accada, giusto?” disse Gramatika. Le porse altre monete. “Dovrebbero essere sufficienti.”

Lei le guardò di nuovo con sospetto, poi, scuotendo la testa, ritornò nel retro del bar e le depositò con attenzione in cassa.

“Questo è un'altra cosa che dovremmo sistemare – il denaro,” disse Gramatika con un sospiro.

Dopo aver aiutato gli uomini a sistemarsi nei loro alloggi, Giuseppe fu sollevato quando gli fu ordinato di ritornare sulla nave per fare rapporto al Capitano.

“Allora, Malpaiso, cosa faremo con lei ora? Ci servono degli ufficiali a terra per rendere questo posto una base per la nostra flotta. Questo significa che ci servono dei buoni ingegneri. Sarebbe una ottima opportunità per lei” disse il Capitano. “Vuole restare qui o continuare con noi?”

“Sono onorato per avermi considerato, signore, ma preferirei restare con la nave – ho ancora molto da imparare.”

Dopo aver lasciato Gramatika e un gruppo di soldati sull'isola, la San Marco si allontanò per unirsi al resto della flotta italiana. Tutte le isole del Dodecaneso erano state prese senza molti problemi, e la bandiera italiana sventolava su tutte le città principali delle isole.

Navigarono a nord verso i Dardanelli, lo stretto che portava dalla parte nordorientale del Mar Egeo verso la capitale turca, Istanbul. Lì supportarono un attacco piuttosto blando dei caccia torpedinieri italiani contro le posizioni turche prima di staccarsi e di ritornare al porto italiano di Brindisi.

Per Giuseppe, le ultime settimane della guerra non furono per nulla eccitanti e si ritrovò a domandarsi se sarebbe stato meglio se fosse rimasto a Lero con il suo amico Gramatika.

****

Dopo il termine della guerra italo-turca, Giuseppe si iscrisse all'Università per studiare ingegneria e passò la maggior parte degli anni della prima guerra mondiale a studiare a Pisa, vicino alla base navale di La Spezia. Non era più in Marina ma mantenne i contatti con alcuni dei suoi colleghi della San Marco.

L'università di Pisa era nota per i suoi corsi di lingua. A causa della sua esperienza nel mar Egeo, Giuseppe aveva cominciato a interessarsi alla cultura greca e decise di frequentare anche un corso di greco, oltre ai suoi corsi principali Questo significava studiare il greco antico ma il suo tutor parlava greco e insistette affinché i suoi studenti imparassero a conversare nella versione moderna della lingua.

Il suo alloggio nella parte più povera di Pisa, dava su una strada trafficata, e, mentre studiava, osservava le persone che andavano e venivano dalla fermata dell'autobus. Una ragazza in particolare lo colpì- I suoi capelli biondi e la sua figura slanciata la faceva spiccare rispetto alle comuni ragazze italiane dai capelli scuri. Ogni giorno la vedeva andare alla fermata, aspettare l'autobus e, di sera, cominciò ad aspettare che tornasse. Era alta e magra e camminava con una certa grazia.

Una sera, quando la ragazza scese dall'autobus, Giuseppe vide un gruppo di giovani andare verso di lei. La finestra era aperta e sentì loro dirle “ciao, cara, come sta?” Lei li ignorò e continuò a camminare, ma loro le si misero davanti. Quando cercò di superarli, le bloccarono la strada e uno di loro le prese il braccio, “su ragazza, cosa c'è che non va?”

Lei non rispose, cercando di liberarsi dalla stretta, ma il giovane non la lasciò andare. “Lasciatemi in pace.”

“No, non faccia così. Vogliamo solo parlare, tutto qui” disse il suo tormentatore. Un altro giovane sogghignò.

“Lasciatemi andare” disse lei cercando di sfuggire alla presa.

“Ma se ci siamo appena conosciuti” disse lui spingendola contro un edificio. Gli altri la circondarono mentre lui cercava di baciarla. Lei ora stava lottando, cercando con tutte le sue forze di liberarsi del muro di giovani.

Giuseppe non poteva permettere che questo succedesse. Uscì di corsa dal suo appartamento, scese le scale e arrivò in strada. “Ehi, lasciatela stare!” urlò.

“Non rompere il cazzo” disse uno di loro. “Questa è la nostra ragazza, non è vero, cara?”

La ragazza stava ancora lottando per liberarsi quando Giuseppe camminò verso di loro “lasciatela andare” disse.

“Altrimenti, sgorbietto? Non rompere il cazzo.”

Erano tutti girati dalla sua parte e la ragazza riuscì a liberarsi e a fuggire. Corse via, senza guardarsi indietro.

“Guarda cosa hai fatto, piccola merda” disse uno di quelli che la stavano tenendo. “Non potevi pensare agli affari tuoi, eh? Perché vuoi difendere una puttana tedesca?” Spinse Giuseppe e lo colpì con forza sul petto. “Stavo solo scaldandola” disse. Giuseppe cercò di indietreggiare quando gli altri cominciarono a spingerlo. Uno dopo l'altro cominciarono a colpirlo, sempre più forte, obbligandolo contro il muro.

“Smettetela” disse disperatamente.

“O altrimenti? Cosa farai?”

Colpì con forza Giuseppe sul mento e la sua testa andò a sbattere contro la parete alle sue spalle, lasciandolo sotto shock. Cercò di parare i colpi che seguirono, tendo alti i gomiti sui lati e i pugni davanti al suo volto per difendersi. Poteva vedere le persone venire verso di loro e, vedendo quello che stava succedendo, andare dall'altra parte della strada per evitare di essere coinvolti. Fu colpito con forza allo stomaco e si piegò, cadendo sulle ginocchia. Continuarono senza sosta a picchiarlo e calciarlo mentre era a terra. Finalmente uno di loro disse “andiamo, lasciamo perdere il piccolo bastardo” e, con un ultimo calcio, se ne andarono, ridendo, a cercare un'altra vittima.

Giuseppe rimase lì. Il sangue gli scendeva dal naso ed era piegato per il dolore. Quando cercò di muoversi, tutto il suo corpo protestò. Riuscì a mettersi sulle ginocchia. Le persone girarono al largo, pensando fosse ubriaco o peggio.

Tuttavia, una persona non andò dall'altra parte. “Sta bene?” disse una voce femminile. Si accucciò vicino a lui. “Riesce ad alzarsi? Ecco, lasci che la aiuti. Vive qui vicino?”

Lui indicò la porta aperta del suo condominio. “OK, andiamoci. Su, la aiuterò.”

Riuscì a farcela mentre lei lo aiutava a superare incespicando i gradini verso il suo appartamento, dove lei lo condusse attraverso la porta ancora aperta e lo aiutò a sedersi sul divano. Lui si distese e si lasciò andare. Il tocco di un panno freddo sulla sua fronte lo svegliò e si lamentò quando ritornò tutto il dolore. “Ssh” disse una voce. “Cerchi di stare fermo.”

Non era in grado di aprire completamente gli occhi, la pelle attorno era gonfia dove i mascalzoni lo avevano colpito. Anche quando si sforzò di aprirli, trovò difficile vedere e le lacrime cominciarono a scorrere lungo le sue guance. Alla fine, vide un volto davanti a lui e dei capelli chiari sopra di esso. La sua bocca era ammaccata e le sue labbra tagliate perciò riuscì a malapena a biascicare “Cosa? Come?”

“Mi dispiace, spero non la disturbi, l'ho aiutata a salire – ha lasciato la porta aperta. Ricorda?”

Stava ritornando in sé e si rese conto che il volto apparteneva alla ragazza bionda. “É tornata?” riuscì a dire.

“Mi sono nascosta dietro l'angolo fino a quando quei farabutti non se ne sono andati. Lo sa, è stato molto stupido affrontare quei tizi ma grazie comunque. Non so veramente come sarei stata in grado di fuggire da loro senza il suo aiuto. Spero non le dispiaccia che io sia entrata in questo modo.”

Riconobbe il suo accento come straniero – poi si ricordò che il giovinastro aveva parlato di una “puttana tedesca”. “É tedesca?”

Lei sembrò quasi vergognarsi. “Sì, è un problema?”

“No, certo che no.”

“Ma noi siamo ancora il nemico, no – gli Unni?” disse alzandosi e preparandosi ad andarsene.

“No, per favore – no. Lei non è mia nemica. La guerra è comunque finita, per favore non se ne vada.”

Lei si girò, raccogliendo il telo macchiato di sangue con cui gli aveva pulito il volto. Andò verso il piccolo lavello in cucina e lo risciacquò con l'acqua fredda. Lui cercò di alzarsi e si lamentò per l''improvviso ritorno del dolore allo stomaco e alla testa. Provò a toccarsi con attenzione il volto e le sue dita tornarono appiccicose per il sangue. “Stia fermo, ha un brutto taglio sopra l'occhio,” disse lei.

Sussultò quando lei gli risciacquò con attenzione il volto e levò il sangue. “Credo che dovrà riposare per uno o due giorni. Dovrebbe andare da un medico e fare un controllo.”

“Non posso, non posso permettermelo.”

“Beh, allora credo che dovrò prendermi cura io di lei” disse. “Dopo tutto mi ha salvato la vita.”

Lui rise, pieno di dolore. “Non credo sia necessario. Starò bene.”

“Fra qualche giorno forse, ma nel frattempo, temo che dovrà avermi come infermiera.”

“Grazie.” Riaffondò sul divano. “Bene, io sono Giuseppe Malpaiso, sono uno studente – povero, chiaramente. É tutto – non molto interessante. Lei chi è? Mi parli di lei.”

“Sono tedesca – come ha già scoperto. Anche io sono qui per studiare. Sono una infermiera tirocinante.”

“Che fortuna – essere picchiato per essere salvato da una infermiera. Parla un italiano molto buono – come mai?”

“Vivo in Baviera. Abbiamo molti contatti con gli italiani – siamo piuttosto vicini al confine austriaco e spesso scio sulle Alpi in Italia. Mio padre era un insegnante di lettere classiche e ci ha portati a Roma e in altri luoghi quando eravamo piccoli. Amava anche l'opera e il suo compositore preferito era Verdi.”

“Non Wagner?”

“No, lo riteneva prolisso e ampolloso, ma Verdi, Rossini, Donizetti – sono così pieni di vita e divertimento. In ogni caso, per questo motivo sono riuscita ad apprendere un po' di italiano e lui mi ha incoraggiata a venire qui a studiare. Era solito dire che lui era più un Romano che un Unno! Aspetti un attimo, cantò: ‘Studente son – e povero’. Gualtier Maldé – giusto?”

Giuseppe rise – e questo gli fece di nuovo dolere il volto. “Non si preoccupi, non sono un Conte, se è questo che sta pensando – suo padre, invece, è un gobbo?”

“No, lui non è Rigoletto e io non sono Gilda. Conosce le opere?”

Maria – quello era il suo nome – lo aiutò a levarsi la giacca e la camicia – entrambe lacere e insanguinate – e poi cercò di aiutarlo a togliersi la canottiera ma lui si ritrasse. “Oh, per favore, sono un'infermiera, ho già visto di tutto. Devo vedere quando gravemente è ferito.”

Con riluttanza e sentendosi sorprendentemente timido, lasciò che lei gli sollevasse la canottiera sopra la testa. Lei emise un rumore di disgusto quando vide le ammaccature che gli avevano procurato i suoi aggressori. Con gentilezza gli controllò le costole e lui trasalì quando lo toccò. “Mi dispiace. Credo che lei possa avere una costola incrinata. Non c'è molto che io possa fare al riguardo – deve solo essere paziente fino a quando guarirà.”

Lo convinse a togliersi i pantaloni e guardò i tagli e le ammaccature sulle gambe provocategli dai calci che aveva ricevuto. Gli toccò un livido e lui si ritrasse. “Mi dispiace. Le fa male?”

“No, è solo che non sono mai stato toccato lì prima – è strano.”

Dopo che lo ebbe esaminato completamente disse “Non credo che ci sia nulla di rotto, a parte le costole. Ora la metto a letto e andrò a prendere del linimento per quei tagli.”

Lo accompagnò con attenzione verso il letto, prese il suo pigiama da sotto il cuscino e, dopo avergli levato il resto dei suoi vestiti, lo aiutò a indossarlo e poi lo fece distendere. “Ha una chiave per poter entrare da sola?”

“Si sta già trasferendo qui?”

Lei arrossì. “No, certo che no, non intendevo… solo che non voglio che lei si alzi per farmi entrare, tutto qui.” Arrossì di nuovo e si affrettò a rimettersi il cappotto e a prendere la borsa che aveva lasciato sul tavolo. Prese la chiave dalla tasca rovinata dei pantaloni di Giuseppe e se ne andò.

Lui si riaddormentò di nuovo ma si svegliò quando sentì aprirsi la porta. Era piuttosto buio ma lei entrò nell'appartamento in punta di piedi senza accendere la luce. Aveva portato una borsa della spesa che mise sul tavolo e cominciò a rovistarci dentro. Lui fece rumore. “Mi dispiace di averla svegliata, ho portato alcune cose per lei.”

“Va tutto bene, non ero veramente addormentato.” Cercò di alzarsi e la staffilata di dolore proveniente dalla sua costola incrinata gli ricordò prontamente le sue ferite. Si lamentò e lasciò che lei mettesse il suo braccio attorno alle sue spalle e lo rimettesse in una posizione comoda.

Lei divenne molto professionale, aprendogli il pigiama, pulendo e applicando un linimento giallo sulle sue ferite e le sue ammaccature. Poi si assicurò che stesse bene dandogli un'aspirina per calmare il dolore. “Ho della pasta, ce la fa ad alzarsi?”

Sembrò essersi presa automaticamente la responsabilità di lui. Cucinò la pasta e gliela servì a letto, poi, dopo essersi assicurata che Giuseppe stesse bene si alzò per andarsene.

“Se ne sta già andando?” chiese.

“Sì, certo” disse lei.

“Non può restare? Potrei aver bisogno di lei di notte. Posso dormire sul divano se vuole.”

“Non so. Non è proprio corretto. Ci conosciamo a malapena.”

“Io so che lei sale in autobus ogni mattina e scende ogni sera. L'ho osservata per settimane.”

Lei sembrò leggermente scioccata. “Cosa? Mi ha osservata? Perché?”

“Oh, non lo so. Lei è diversa, ecco tutto. Si nota.”

“Straniera, intende” si stava trattenendo e cominciò ad alzarsi per andarsene.

“No, per favore, non se ne vada. Sinceramente l'ho notata perché pensavo fosse bella. Differente. E lei lo è, no? Non intendo straniera – intendo solo, lo sa, attraente.” Ora era lui che stava arrossendo.

Lei però lo stava guardando con affetto. “Lei è un po' strano, vero? Quello che ha detto è stato molto dolce. Ne sono commossa. E fare quello che ha fatto per me è stato veramente eroico.” Si abbassò e gli diede un bacio gentile sulle labbra. Lui cercò di evitare di saltare quando il suo labbro ferito gli fece male al contatto. “Mi dispiace, mi dispiace. Non avrei dovuto farlo. Non stavo pensando. Ora vado ma passerò domani mattina a controllare che lei stia bene.”

Nel corso dei giorni successivi lei venne ogni giorno nel suo piccolo appartamento prima di andare a lezione e ritornò ogni sera per preparare la cena. Si occupò delle sue ferite mentre guarivano e, mentre preparava la cena, tenne l'appartamento pulito.

Quando la sua salute migliorò, Giuseppe fu in grado di fare più cose da solo. Durante il giorno zoppicava, andava nei negozi lì vicino a comprare il cibo e ritornava a casa a prepararlo in modo che quando lei arrivava di sera poteva sedersi e mangiare il pasto che aveva preparato per lei.

“Sembra che tu non abbia più bisogno di me,” gli disse una sera.

“Cosa? Certo che ho bisogno di te” disse lui. “Come posso farcela senza di te?”

“Ce la facevi prima, no? Stai molto meglio e credo sia tempo che tu torni ai tuoi corsi.”

“Sì, sto meglio ed è così. credo. Ma possiamo incontrarci più tardi?”

“Perché no? So dove abiti e tu sai dove prendo l'autobus.”

Quella sera andarono in un bar insieme e poi tornarono nel suo appartamento per mangiare insieme la cena che lei insistette di cucinare. “Domani tocca a me” disse lui.

Nel corso delle settimane che seguirono si incontrarono quasi ogni giorno. Lui andava alla fermata dell'autobus per salutarla quando arrivava o, se le sue lezioni finivano tardi, lei lo aspettava in un bar vicino al suo appartamento. Lui le presentò alcuni dei suoi amici del suo corso ma continuarono a mantenere le loro vite separate.

Quando il suo corso stava per arrivare al termine, con l'avvicinarsi degli esami finali, gli ultimi ripassi e la preparazione impedì loro di incontrarsi così spesso. Tuttavia, colsero tutte le opportunità possibili per incontrarsi. Condividevano una passione per l’opera e comprarono i biglietti in piedi più economici a teatro per vedere una delle vecchie opere da loro preferite di Verdi, Bellini o Rossini, o una delle opere più moderne del maestro Puccini.

Il giorno del suo esame finale la portò fuori, mangiarono insieme per festeggiare bevendo champagne.

“C'è qualcosa che volevo chiederti” disse. Lei lo guardò in attesa. “Siamo buoni amici?”

“Certo che lo siamo! Che cosa te lo fa chiedere?”

“Beh, è che, sai, vorrei molto essere più di un semplice amico” arrossì violentemente. “Vedi, sono molto legato a te – sai? E spero che tu possa essere, sai, anche tu molto legata a me?”

“Sì, Giuseppe, ti sono molto affezionata. Mi hai salvato la vita, ricordi?”

“No, non in quel senso” fece una pausa, “voglio dire, credo che…”

“Cosa?” Lei lo guardò intensamente. “Cosa stai dicendo?”

Uscì tutto di getto: “Ora ho finito il mio corso di studi e può essere che debba andare lontano per trovare un lavoro – o chissà per quali altri motivi. Non riesco a sopportare il pensiero di non vederti più.” La guardò tristemente, in attesa di una risposta, ma lei restituì lo sguardo pensierosa.

“Cioè?” chiese. “Cosa vuoi che ti dica?”

“Solo, beh, ecco, credi che se io dovessi andare da qualche altra parte, saresti in grado, magari, sai – di venire con me?”

Lei sorrise gentilmente. “Perché lo vorresti? Non hai più bisogno di un'infermiera, giusto?”

“No, certo che no. Lo stai rendendo molto difficile. Quello che sto dicendo è” fece una pausa, “quello che sto chiedendo è; credi, sai, credi che potresti. Oh, maledizione, sto facendo un sacco di confusione. Quello che intendo è, io credo – no, io so – di amarti e voglio che tu stia con me, in futuro. Se capisci cosa voglio dire.”

“Beh, credo di sì. Non so come possa essere accaduto, ma neppure io riesco realmente a immaginare di stare senza di te. Perciò sì, voglio stare con te. Ma la mia famiglia…”

“La tua famiglia, cosa vuoi dire?”

“Sono piuttosto severi. I miei genitori sono morti. Sono stata allevata da mio zio. É molto rigido. Suo figlio, mio cugino Kurt, è appena tornato dalla guerra. Lo zio dice che devo tornare per prendermene cura.”

“Oh, è ferito, vero?”

“No, non credo. É molto depresso. Crede che lui e i suoi compagni siano stati traditi – che avrebbero potuto vincere.”

“Vuoi andare?”

“No, certo che no. Dovrebbe accettare quello che è successo e dimenticare la guerra. Abbiamo perso ed è tutto. Francamente è stato fortunato a tornare indietro vivo e senza ferite. Dovrebbe accettarlo e proseguire con la sua vita – è uno dei fortunati. Ma mio zio…”

“Bene, dipende da te. Tutto quello che posso dire è che sarò infelice se tu te ne andrai – e credo che anche tu lo sarai. Ti sto chiedendo” fece una pausa, “sì. in realtà ti sto chiedendo,” fece un'altra pausa “se tu saresti d'accordo nello sposarmi?”

Per Maria fu abbastanza. Si sporse sopra il tavolo e lo baciò. “Certo che lo sarei. Dovrò solo dire allo zio che dopo tutto non potrò venire.”

Poche settimane dopo, nel settembre del 1919, si sposarono con una cerimonia civile a cui parteciparono pochi vecchi amici della marina di Giuseppe oltre a sua madre e suo padre. Il suo testimone fu il tenente Gramatika. Non venne nessuno della famiglia di Maria, suo zio disse che erano troppo occupati. Le scrisse una lettera piuttosto dura augurandole il meglio ma criticandola per aver deluso la famiglia. Kurt, invece, fu più gentile. Nella sua lettera si congratulò con lei e le augurò il meglio. “Non preoccuparti di mio padre. Io starò bene. Devo solo abituarmi. Spero che riusciremo a restare in contatto e ti auguro ogni bene.”

Gramatika era stato di recente nominato governatore di Lero dopo l'acquisizione italiana. Alla festa dopo il matrimonio, parlò del suo nuovo lavoro, dicendo a Giuseppe degli interessanti sviluppi previsti per l'isola. “Lì stiamo costruendo una nuova base aeronautica e navale – non riusciresti a credere quanto sono cambiate le cose da quando siamo arrivati nel 1912. Vieni a trovarci – c'è un mucchio di lavoro da fare.”

“Ma non abbiamo raggiunto l'accordo di riconsegnare le isole ai Turchi – o ai Greci o a qualcuno?”

“Sono ai ferri corti. Sembra che i Greci vogliano cercare di ‘riprendere’ la Turchia ai turchi. I Turchi ci dicono che hanno vinto la loro parte di guerra – cacciando gli Alleati fuori dai Dardanelli. Sono addolorati perché la Germania ha perso,” qui fece una pausa e guardò Maria come per scusarsi, “e hanno un nuovo tizio, Mustafa Kemal – stanno cominciando a chiamarlo ‘Ataturk’ – che sta veramente cominciando a sembrare pericoloso. Se i Greci invaderanno rischieranno una sconfitta o anche di peggio. Insomma, questo significa che per ora resteremo nelle isole – forse anche per sempre. Dobbiamo ricavare qualcosa dal nostro investimento.”

Guardò Giuseppe. “Perché non vieni a lavorare per me? Ci servono bravi ingegneri. Ricordo come facevi andare quelle turbine sulla San Marco – potevano anche essere moderne, ma di sicuro si rompevano spesso!”

Maria intervenne, “e ora parla greco, lo sapeva?”

“No. Veramente? Sarebbe realmente utile. Stiamo usando i locali per i lavori di costruzione. Sono diligenti ma non abbiamo molti interpreti greci.”

“Beh, è un'esagerazione dire che parlo greco – sono molto arrugginito e la maggior parte delle cose che ho imparato erano di greco classico e non moderno. Alcune parole sono le stesse, ma la pronuncia e la grammatica sono cambiate e mi servirebbero molto esercizi e altre lezioni…”

A Gramatika era piaciuta subito Maria. Aveva sentito come si erano incontrati ed era rimasto impressionato da come si fosse presa cura del suo amico. Aveva già parlato con lei del fatto che fosse originaria della Germania sconfitta – i tedeschi non erano popolari nelle nazioni Alleate. “Una cosa posso garantire è che nel mio piccolo regno non c'è spazio o tempo per nessuno di questi pregiudizi. Stiamo costruendo una nazione nuova e non ho pazienza per guardarmi indietro. Sarete i benvenuti a Lero, ve lo assicuro.”

Giuseppe e Maria arrivarono a Lero nel 1920. Furono salutati con affetto dal vecchio amico di Giuseppe quando scesero dall'idrovolante atterrato a Porto Lago. Furono poi portati verso un nuovo complesso sviluppato dalla parte opposta alla nuova città costruita sulla baia. Tre enormi gru dipinte di bianco e rosso erano state erette per sollevare gli idrovolanti e portarli sulla riva e il molo era stato allargato per farli accomodare negli enormi hangar nuovi costruiti poco più in là.

Maria era già incinta e il loro figlio, Marco, nacque più tardi quell'anno nel piccolo ospedale che gli italiani avevano costruito sull'isola.

Quattro Destini

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