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Capitolo 2

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Jutland, Inghilterra e Francia 1916-1920

"Che modo veramente stupido di gestire una linea ferroviaria", disse Arnold.

La maggior parte delle corazzate e degli incrociatori da battaglia della flotta britannica erano state all'ancora a Scapa Flow per gran parte della guerra. Le navi della flotta si erano raramente avventurate in mare tranne quando la flotta tedesca aveva attaccato Scarborough, Hartlepool e Whitby nel 1914. Quella volta avevano acceso i motori e si erano dirette a sud troppo tardi per intercettare gli attaccanti tedeschi.

La sua nave, l'incrociatore da battaglia HMS Indefatigable, a quel tempo era ritornata dal Mediterraneo, dopo le operazioni nei Dardanelli e una riparazione a Malta. Ora stavano viaggiando velocemente per affrontare la minaccia della flotta tedesca che proveniva da sud. Avevano visto alcune delle navi nemiche, ma il loro comandante, l'ammiraglio Beatty, all'inizio non le aveva attaccate e neppure aveva fatto ridisporre la sua flotta in uno schieramento più aggressivo quando i tedeschi avevano aperto il fuoco

"In realtà non siamo su una linea ferroviaria", replicò piuttosto pedantemente Ernest, il suo luogotenente, "come sto continuando a dirti!"

"Già, ma perché non attacchiamo quei bastardi invece di girare intorno come anatre al tiro a segno? Mostriamo loro che non devono sfidare la marina britannica e schiacciamoli una volta per tutte!"

Questa era la lamentela costante di Arnold e anche se in gran parte erano d'accordo con lui, i suoi compagni non potevano spingersi ad ammetterlo. Giù nella loro zona degli ufficiali non si erano neppure resi conto che la battaglia era già iniziata.

Ernest si era unito alla nave solo recentemente, su distaccamento da un lavoro di ufficio nell'Ammiragliato, e non compariva ancora nell'organigramma dell'equipaggio. Era un esperto di tedesco, parlava fluentemente la lingua ed aveva avuto dei contatti con i marinai della loro flotta durante la visita dell'imperatore Guglielmo a Cowes nel 1913. Quando era scoppiata la guerra, era stato assegnato a un lavoro di intelligence, aiutare a decifrare i messaggi navali tedeschi, e gli era stato chiesto di unirsi a una delle navi da guerra della flotta per vedere come le informazioni di decodifica fossero usate nella pratica.

Suonò l'allarme. "Un'altra maledetta esercitazione" disse, mentre aspettavano che un segnalatore venisse a dare loro gli ordini. Si mise la giacca e si alzò quando un giovane marinaio entrò di corsa. "Ordini del capitano: sul ponte e alla svelta – questa non è un'esercitazione!"

"Cosa? Torna qui Higgins! Cosa vuoi dire? Che sta succedendo lassù?"

"Siamo sotto attacco. Navi da guerra tedesche, un sacco, che stanno venendo contro di noi" urlò, mentre si affrettava verso l'alloggio ufficiali successivo.

Arnold e i suoi compagni si affrettarono verso il ponte, indossando le giacche, sistemandosi le cravatte e mettendosi il cappello mentre correvano. Il ponte, sei piani sopra di loro, era pieno di ufficiali eccitati quando il comandante, all'apparenza calmo come sempre, diede un'occhiata dalla finestra.

Davanti a loro riuscivano solo a vedere il mare. Si vedevano degli occasionali sbuffi di fumo, ma il mare era calmo e immobile fino a quando udirono un ruggito sopra le loro teste. "Il tuo treno?" sussurrò Ernest. "Non è in orario, vero?" La granata atterrò con un grosso schizzo dall'altro lato seguita dal rumore dell'arma che l'aveva lanciata.

"Calmi, ragazzi, per cortesia" disse il capitano. "Signor Talbot, alla sua postazione, Signor Jenkins, per cortesia riferisca al Sottoufficiale capo per quanto riguarda le incombenze per lo spegnimento degli incendi. Signori, fatelo il più velocemente possibile."

Fu l'ultima volta che Ernest vide il suo amico. Quando lasciarono il ponte andarono in direzioni diverse, Arnold verso poppa, Ernest a prua.

Ernest scese i gradini di corsa e andò lungo coperta verso la prua. Dietro e davanti a lui poteva sentire le enormi torrette mitragliatrici della Indefatigable girarsi pesantemente verso le navi nemiche, a malapena visibili all'orizzonte, al sopra delle quali sbuffi di fumo bianco indicavano che le armi stavano sparando. Vide il sottoufficiale capo sul ponte davanti a lui. “Signor Jenkins, indossi il giubbotto di salvataggio per cortesia. Non serve a nulla tenerlo sul braccio, no?”

Infilò le braccia nello scomodo aggeggio, tirando le cinghie attorno a lui mentre raggiungeva il ponte dove c'era il sottufficiale capo. “Bene, signore. Ora, se non le dispiace.” Il sottufficiale smise improvvisamente di parlare, guardando con orrore alle spalle di Ernest.

Ci fu un improvviso rumore fastidioso, come un treno che uscisse da un tunnel a tutta velocità, un forte colpo e un bagliore di fuoco quando i proiettili colpirono la poppa della nave. L' ‘Indefatigable’ sbandò e perse il controllo. Ernest sentì un'ondata di aria calda che lo spinse indietro e lo fece girare. Rimase sconvolto nel vedere l'intera poppa coperta di fumo nero oleoso e di scure fiamme che non presagivano nulla di buono. “Mio Dio – Arnold.”

“Non si preoccupi di questo, ragazzo mio, estragga quella manica antincendio, subito.” Ordinò il sottufficiale al suo gruppo di vigili del fuoco mentre Ernest, scioccato dall'intensità delle fiamme provenienti dal retro cercava di decidere cosa fare. “Bene ragazzi, calmiamoci e usiamo quel manicotto antincendio, va bene?” suggerì il sottufficiale.

“Giusto,” disse Ernest. “Più veloci che potete, srotolate il manicotto.” Un marinaio tirò fuori il manicotto, srotolandolo dalla ruota attorno alla quale era arrotolato, mentre un altro armeggiava con il tappo pesante. “Aspetta – non accenderla fino a quando è pronto il manicotto” disse Ernest. Un altro rumore di proiettili e altri tonfi risuonarono mentre i marinai tiravano il manicotto lungo il ponte verso il fuoco nella parte posteriore. Presto l'intensità del fuoco divenne così forte che non poterono avvicinarsi di più ed Ernest diede l'ordine di aprire il pesante tappo. L'acqua proruppe nel manicotto che divenne rigido per la pressione interna. Ernest aiutò il marinaio che reggeva la parte finale a tenerla ferma e a indirizzare il getto verso le fiamme. Sembrò che non facesse alcuna differenza. L'intensità delle fiamme, alimentata dal carburante e dal legno dei ponti stava crescendo. I proiettili nelle torrette al centro delle fiamme iniziarono a esplodere con colpi sordi e inquietanti, costringendo gli uomini con gli abiti in fiamme e la carne che friggeva per l'intenso calore a correre urlanti verso i vigili del fuoco.

Il fuoco, consumato tutto il combustibile, cominciò ad essere sotto controllo e sembrò che la nave potesse reggere, anche se malridotta. Ma poi un altro proiettile a lungo raggio sparato dall'aggressore tedesco, colpì casualmente la nave nel posto peggiore possibile – la torretta leggermente corazzata nella parte anteriore – e ci fu una forte esplosione che travolse il ponte. Una palla rotolante di fiamme incandescenti andò verso i vigili del fuoco travolgendo il sottufficiale e gli uomini con lui al manicotto. Ernest sentì il manicotto afflosciarsi quando lo scoppio lo colpì e si sentì trasportato in aria, poi colpì il parapetto e finì in mare. Terrorizzato ebbe il pensiero folle "che schifo di modo per morire".

Colpì l'acqua come un sasso, rimbalzò, facendo uscire tutta l'aria dai polmoni, e ricadde di nuovo sotto la superficie. Lottando con i suoi vestiti e l'ingombrante giubbotto di salvataggio, nuotò verso la superficie, scacciando il panico. Uscì dall'acqua e disperatamente prese una boccata d'aria a pieni polmoni. Il giubbotto di salvataggio era attorno al suo mento, ma lo aveva portato a galla e le istruzioni del sottufficiale lo avevano salvato. In qualche modo era riuscito a liberarsi delle scarpe e stava fluttuando libero.

Ernest si rese conto di essere finito parecchio distante dalla nave che ora era completamente avvolta da una infernale palla di fumo e fiamme. Disperatamente cominciò a nuotare per allontanarsi, rendendosi conto che la nave poteva esplodere di nuovo in qualsiasi istante. Ma la nave colpita non esplose. Lentamente, quasi con cautela si mosse in avanti e, come una enorme anatra, mostrò la parte posteriore al cielo e quindi scivolò, con i motori ancora accesi, verso il basso con un orribile suono lacerante di risucchio, lasciando dietro di sé un turbine di acqua fumante che provò a portarlo con sé nel gorgo lasciato dalla nave che affondava. Per due, tre volte fu tirato al di sotto della superficie e, in preda al panico, fu costretto a spingersi fuori e a respirare prima di essere di nuovo tirato sotto. Alla fine – sembravano fossero passate delle ore –la pressione verso il basso si calmò e fu in grado di galleggiare, sentendo ora il dolore intenso dell'acqua salata contro la sua schiena che, senza che se ne fosse reso conto, protetta solo dalla giacca e dalla camicia che stava indossando quando era uscito di corsa dall'alloggio degli ufficiali, era stata bruciata dalla forte palla di fuoco che l'aveva gettato in mare.

Si guardò attorno alla ricerca di segni di vita – qualcuno – qualcosa. Tutto quello che fu in grado vedere, però, furono dei detriti galleggianti e qualche cappello da marinaio. Un'enorme bolla esplose con un orribile suono nel punto in cui la nave era affondata, spruzzandolo d'acqua piena di petrolio, seguita da un'ondata che quasi lo fece andare a fondo di nuovo. Se non avesse notato una grossa tavola di legno galleggiante nelle vicinanze, non avrebbe mai avuto la forza di restare a galla nell'acqua che, come si rese conto solo in quel momento, era completamente gelida.

Notò un piccolo cacciatorpediniere che si dirigeva velocemente verso il luogo dove era affondata la grande nave. L’imbarcazione rallentò quando si avvicinò e i marinai si affollarono sul ponte alla ricerca di sopravvissuti. Riuscì a sollevare un braccio e ad agitarlo debolmente verso di loro. L'imbarcazione passò oltre, facendo quasi rovesciare la sua fragile zattera. I marinai stavano guardando verso di lui, ma si rese conto che sui loro volti non c'era alcuna traccia che lo avessero notato quando cercò di urlare per sovrastare il rumore del passaggio della nave. Riuscì a sollevarsi un po' e ad agitare di nuovo il braccio, le sue grida sempre più flebili per lo sforzo, ma, questa volta fu ricompensato da uno dei marinai che all'improvviso indicò verso di lui e urlò verso i suoi compagni. Il marinaio tenne la sua mano puntata nella direzione di Ernest secondo quanto insegnatogli dagli istruttori della Marina nel classico caso di “uomo in mare”, fino a quando la nave rallentò e si girò. L'ufficiale preposto si allontanò velocemente per dare le indicazioni a un altro gruppo affinché preparassero una delle scialuppe di salvataggio del cacciatorpediniere. La barca fu calata in mare e i marinai ai remi diedero il massimo, dirigendo la piccola barca verso Ernest. Quando cominciò a perdere la presa del pezzo di legno si sentì tirato a bordo dai marinai. Mani gentili e generose lo coprirono con delle coperte e lui perse conoscenza quando lo portarono sulla nave.

****

"Vorrebbe lasciare la coperta ora, tenente? Gliene daremo una pulita e asciutta."

Ernest, ancora semi incosciente si ritrovò aggrappato alla coperta che gli avevano dato quando lo avevano salvato, come se la sua vita dipendesse da essa.

"Cosa? Oh, sì, grazie, grazie mille" disse, ma non la lasciò ancora.

Il paziente infermiere gentilmente gli aprì le dita e tolse la coperta, "ora dobbiamo svestirla e pulirla, OK."

Ernest sentì l'infermiere tagliargli gentilmente i vestiti ed emettere un suono quando vide cosa c'era sotto. "Tanto brutto?" disse gemendo Ernest, all'aumentare del dolore quando l'infermiere tirò i pezzi di vestiti a brandelli attaccati alla sua carne massacrata.

"Un bel disastro, amico. Non si preoccupi, ho visto di peggio" – non gli era mai capitato – "lo sistemeremo, non si agiti."

Continuò gentilmente a tagliare via i vestiti di Ernest, emettendo dei versi di disapprovazione mentre lo faceva. Usando dell'ovatta imbevuta d'acqua fredda, bagnò e pulì con attenzione quanto poteva, cercando di ignorare i gemiti di dolore di Ernest. “Tenga duro, non manca molto. Ecco, fatto per ora” disse, distendendo finalmente un lenzuolo sopra Ernest.

Il medico di bordo entrò. "Come è messo?" chiese all'infermiere.

“Piuttosto male: ha gran parte del corpo bruciata, ha delle ferite aperte piene di petrolio. Ho fatto del mio meglio per pulirlo ma avrà bisogno di molto più aiuto di quello che possiamo fornirgli qui."

Il dottore andò verso Ernest e sollevò il lenzuolo. "Ho veramente freddo. Può accendere il fuoco?" disse Ernest.

"Sì, lo farò fare all'infermiere". Guardò le ferite e il volto di Ernest, ora diventato grigio e privo di colore a causa di tutte le ferite aperte sul suo corpo. Sussurrò all'infermiere "Temo che questo povero tizio probabilmente sia arrivato alla fine. Lo faccia stare solo il meglio che può – morfina ogni volta che ne ha bisogno e continui a lavare e pulire quelle ferite. É tutto quello che possiamo fare – farlo stare a suo agio. Dubito che supererà la notte."

Invece ce la fece. Quella notte e molte altre. Il mattino successivo il medico rimase sorpreso nello scoprire che Ernest respirava ancora e che anche un po' di colore gli era tornato sulle guance. L'infermiere, al contrario, sembrava pallido ed esausto. "Ha fatto un gran lavoro" disse il dottore. "Come è riuscito a pulirlo così bene?"

"Dottore, non posso lasciarlo morire, sembra essere l'unico sopravvissuto- poveraccio! Ho lavorato sulle ferite e pulito quanto più petrolio e fuliggine potevo. É ancora un disastro, ma credo che le ferite principali siano pulite e che nessuna di loro sia così profonda. Le bruciature sono brutte, ma le ho pulite e l'ho fatto stare il più a suo agio possibile. Fortunatamente è rimasto privo di sensi per la maggior parte del tempo a causa di tutta la morfina che gli ho iniettato."

"Bene, si prenda un po' di riposo, ora lo controllerò."

Ernest perse e riprese conoscenza più volte mentre il dottore lo esaminava ed esplorava attentamente, fischiettando un motivetto e borbottando tra sé "sì, brutta ustione, taglio netto, non rotto. Fortunato." Aiutato da un nuovo infermiere, mise della tintura di iodio sulle ferite peggiori, mettendo dei punti qui e là, e spalmando dell'unguento sulle ustioni.

Alla fine, ebbe terminato. “Riesce a sentirmi?" chiese. Ernest annuì. "Credo – spero – che lei sia un tipo molto fortunato. Ha dei tagli e delle ammaccature molto brutti, e qualche forte bruciatura, ma non sono così brutte come sembravano prima che la pulissimo. Dovrebbe ringraziare il nostro infermiere, ha fatto un gran lavoro di pulizia su di lei. Ora le copriremo. Stiamo tornando a Scapa Flow. Dovrebbe essere in ospedale prima di domani."

La nave attraccò più tardi quella notte. L'infermiere che si era preso cura di lui all'inizio era di nuovo di turno e lo svegliò. “Come si sente, amico? Abbiamo attraccato ora, fra poco la porteremo giù.”

“Sto bene,” disse Ernest – non sentendosi bene per nulla.

“Bravo. Tenga duro.”

Gli assistenti che arrivarono per trasportarlo portarono una barella. Fecero scivolare una coperta sotto di lui, sollevando con attenzione prima le sue gambe e poi il busto. Si trattenne dall’urlare quando toccarono le sue bruciature. Quando la coperta fu a posto, quattro uomini lo alzarono con attenzione e lo portarono sulla barella che sollevarono e portarono fuori dal reparto verso il ponte all'esterno. Dovettero piegare la barella per scendere lungo la passerella per arrivare al molo e salire sull'ambulanza in attesa e lui non poté fare a meno di strillare quando le bende sfregarono contro la sua pelle rovinata.

Dopo una corsa fortunatamente breve, Ernest fu tirato fuori, trasportato in ospedale e portato in un reparto con i sopravvissuti delle altre navi britanniche – troppo pochi se paragonati al numero di marinai che erano morti in azione. Le loro sofferenze trasparivano dai loro volti grigi e dalle loro smorfie di dolore. Fu trasportato su un letto. Di nuovo il movimento della coperta fu molto doloroso ma Ernest, guardando il pover’uomo nel letto vicino al suo, si rese conto che il suo dolore non era peggiore di quello di chiunque altro. Il marinaio aveva un telo che impediva di vederne le gambe ed entrambe le mani vistosamente bendate, come pure la testa. Era disteso lì, in silenzio, privo di conoscenza, bianco come le lenzuola sopra di lui, respirando a malapena. Più tardi quella notte, quando Ernest lo guardò, i suoi respiri si fecero ancora più superficiali e meno frequenti fino a quando Ernest si rese conto che aveva semplicemente smesso di respirare. Al mattino un'infermiera arrivò. Diede un'occhiata al poveretto, uscì e chiamò gli assistenti che arrivarono e senza tante cerimonie sollevarono il corpo su una barella e lo portarono via. Solo quando il telo fu rimosso Ernest si rese conto che non c’erano entrambe le gambe.

Per molto giorni Ernest rimase nel letto d'ospedale, le sue ferite periodicamente pulite e disinfettate. In alcuni giorni il dolore era così forte che ebbe il desiderio di mollare – ma i ricordi dell'equipaggio che era morto lo fecero andare avanti. “Non morirò, non morirò – non avranno anche me” fu il suo mantra.

Più tardi fu trasferito in un ospedale a Londra specializzato nel trattare le ustioni come le sue. Il suo corpo era sfregiato ma stava guarendo. Il dolore stava diventando un ricordo sbiadito, anche se la rigidità delle cicatrici sulla sua pelle bruciata, che tiravano le ferite che stavano guarendo, continuava a fargli compagnia.

All'inizio del 1918 fu in grado di tornare dalla sua famiglia a Deal nel Kent, per completare la convalescenza. Anche se provava ancora dolore per le ustioni, che dovevano essere medicate ogni giorno, i tagli erano guariti e le sue ammaccature era tutte scomparse.

Come gli avevano detto i medici prima di dimetterlo, ogni giorno, per stare in forma e recuperare, camminava per un paio di chilometri da casa sua lungo il Church Path – un bel sentiero tranquillo che attraversava solo un paio di strade prima di arrivare al mare. All'inizio questa camminata gli richiese più di due ore faticose e dolorose. In ospedale gli erano stati dati dei bastoni da passeggio e vi si appoggiò con forza. Era completamente preso dallo sforzarsi nel fare un passo doloroso dopo l'altro. A poco a poco, però, la forza ritornò e fu in grado di godersi il tepore quando arrivò l’estate.

Aveva un controllo settimanale presso un medico, il dottor Field, di stazza presso la caserma della Marina a Walmer. All'inizio Field aveva dovuto controllare le bende e assicurarsi che le ferite stessero guarendo bene. In seguito, tolse i punti e disse a Ernest che non c'era più bisogno di vederlo ogni settimana. “Sta facendo buoni progressi, Tenente. Lei come si sente?”

“Piuttosto bene nel complesso, dottore. Ma continuo ad avere gli incubi.”

“Sì, me ne ha già parlato. Non è sorprendente visto quello che ha passato.”

“Sento che mi cedono completamente i nervi. Mi sveglio la maggior parte delle notti madido di sudore freddo e non riesco a tornare a dormire. Vedo i marinai che scompaiono in una palla di fuoco davanti a me e io sono come bloccato al suolo. Voglio aiutarli ma sono terrorizzato.”

“Come le ho detto, non è per nulla sorprendente. Sia paziente, sta andando veramente bene. Ha ancora bisogno dei bastoni?”

Ernest indicò l'unico bastone vicino alla sua sedia. “Come vede, ora sono passato a uno. Suppongo di non averne realmente bisogno ma è rassicurante averlo con me.”

“Credo che una volta che smetterà di usarlo, si sentirà molto meglio.”

All'inizio dell'estate, smise di usare i bastoni. Ogni giorno, arrivato al mare, camminava lungo il molo in mattoni dove le barche dei pescatori ondeggiavano sul mare attaccate a grosse funi collegate a grossi argani ancorati sulla spiaggia. Il rumore delle onde sulla spiaggia di ciottoli divenne il suo compagno e apprezzò molto la vista al di là dell'acqua grigia verso Goodwin Sands dove, in una giornata limpida, si potevano chiaramente vedere gli alberi delle navi affondate.

“Grazie a Dio anche io non sono lì” pensò.

I suoi appuntamenti con il dottor Field erano ora a cadenza mensile e nell'agosto del 1918, ebbe il suo controllo finale.

“Come si sente ora?” chiese il medico.

“Fisicamente bene. Ho camminato molto e anche fatto qualche breve corsetta sul bagnasciuga. Non sono riuscito a convincermi ad entrare in acqua – troppi brutti ricordi.”

“Bene, credo che lei sia pronto per tornare in servizio. Tuttavia, suggerirei che lei faccia un lavoro d'ufficio per alcuni mesi fino a quando saremo realmente sicuri che è fisicamente in forma. Non mi ha detto che una volta lavorava in Ammiragliato?”

“Sì, esatto. Parlo tedesco e traducevo documenti – codici, quel genere di cose.”

“Bene. Suggerirò che lei torni per ora a far quello. Se più avanti si sentirà forte a sufficienza forse potrà riprendere il servizio in mare. Ora però ci sono gli americani e dubito che durerà molto a lungo.”

Così, a settembre, fu richiamato a svolgere servizi leggeri presso l'Ammiragliato, giusto in tempo per vedere la sconfitta delle forze tedesche nel novembre di quell'anno. Venne a sapere poi di essere stato solo uno dei tre che erano stati così fortunati a sopravvivere al catastrofico affondamento della ‘Indefatigable’ nella battaglia dello Jutland. In realtà, visto che era stato assegnato a quell'incarico in una data così ravvicinata a quel terribile giorno, lui non compariva neppure nella lista degli uomini imbarcati sulla nave. Nonostante la sua terribile esperienza, almeno era sopravvissuto alla guerra, contrariamente a molti dei suoi compagni.

Non tornò mai più di nuovo in mare, fino all’ultima volta.

****

Il superiore di Ernest entrò nel suo ufficio poco dopo l'Armistizio. "Lei parla tedesco piuttosto bene, vero?" Non aspettandosi una risposta – la domanda era completamente retorica – proseguì "ci serve che vada in Francia. La commissione dell'Armistizio si sta riunendo per discutere i termini della resa. Dobbiamo decidere cosa fare per quanto riguarda la marina tedesca e dobbiamo trarne il massimo vantaggio. Si sente in grado di farlo? So che era nello Jutland, è in grado di reggere questa situazione?"

"Sì, credo di sì. Ormai l'ho superata."

Non era vero, stava ancora dormendo male e si svegliava spesso da un sogno in cui sentiva i terribili rumori della nave che scompariva sotto il mare. Le ustioni e le ferite erano guarite, ma le cicatrici tiravano dolorosamente la sua pelle per ricordargli la sua disavventura. Doveva andare avanti – e cosa c’era di meglio se non aiutare a costruire la pace?

Il suo viaggio a Parigi da Cricklewood, in un giorno tetro, nuvoloso e umido, fu la prima volta che salì in aereo. Il bombardiere Handley Page riconvertito non era molto confortevole – freddo e rumoroso. Il suo sedile era un pezzo di tela sopra a una montatura di metallo, che scavava nelle sue cosce e di cui poteva sentire il freddo del metallo anche attraverso il suo caldo pastrano della marina. I motori andarono su di giri, e sentì l'aereo rilasciare i freni. Poi sbandò lungo la pista in erba e sentì la coda alzarsi mentre accelerava. Si aggrappò al sedile quando l'aereo si mosse pesantemente lungo il terreno, temendo che potesse proseguire fino a colpire gli edifici che aveva visto alla fine della pista. Con i motori che rombavano, l'aereo si sollevò, inizialmente in modo piuttosto riluttante, e vide gli edifici dell'aeroporto passare sotto di loro mentre a poco a poco salivano. Passarono sopra la parte occidentale di Londra e si diressero verso sud. Dopo poco meno di un'ora, superarono le scogliere e una spiaggia e attraversarono le torbide acque. Sotto di loro navi da carico passavano la Manica in entrambe le direzioni, portando merci a e dai porti indaffarati di Olanda e Gran Bretagna. Il mare era marrone e punteggiato dalla spuma delle onde. Rabbrividì ricordando l'ultima volta che aveva visto il mare dall'alto mentre era sul ponte della ‘Indefatigable’ destinata ad affondare. Si sentì sollevato quando raggiunsero la costa francese e cominciarono ad abbassarsi verso terra all'aeroporto di Le Bourget. L'aereo discese verso una pista in erba che sembrò scorrere sempre più velocemente sotto di loro mentre si avvicinavano. Con un brusco sbandamento, colpì il terreno e sentì azionare i freni e rallentare i motori.

L'aereo si diresse verso una tenda sull'erba e gli si fermò vicino. Un uomo era in piedi proprio vicino all'entrata della tenda, elegante e ben vestito in un cappotto scuro alla moda con una sciarpa di seta attorno al collo, guanti in pelle e un cappello di feltro in testa. Ernest notò che, nonostante il tempo umido, le sue scarpe luccicavano. L'uomo aspettò che i motori dell'aereo smettessero di girare e si fermassero e poi andò verso lo sportello per salutare Ernest. Non porse la mano ma fece un leggero inchino e disse, "Comandante Jenkins? Lieto di conoscerla. Il mio nome è John Smith – non è uno pseudonimo, glielo assicuro."

John Smith aveva un aspetto aperto e amichevole e a Ernest piacque subito quel giovane. In auto verso Parigi, Smith lo ragguagliò sul piano di ridurre la marina tedesca a una forza puramente difensiva. "Il problema sono i francesi. Vogliono la loro parte e molto di più. La Germania andrà completamente in bancarotta se faranno come vogliono loro."

"Non posso dire che mi importi particolarmente" disse Ernest, "hanno cominciato questo disastro e si meritano la punizione adeguata se vuole sapere il mio parere."

"Forse. Mi han detto che lei era nello Jutland?"

"Sì e anche nel bagno di sangue che c'è stato."

"Spero non le dispiaccia quello che sto per dire, ma vorrei che cercasse di metterlo da parte, se può. Siamo stati tutti colpiti in modo piuttosto sanguinoso – da entrambe le parti. Quello che vogliamo fare ora è di andare avanti in modo che questa guerra che abbiamo combattuto sia l'ultima, OK?"

"Sì, sì, certo". Ernest si sentì a disagio per quello che aveva detto Smith. “Lei dove era?”

“La Marna, Ypres, la Somme; maledettamente fortunato, lo posso dire. Devo avere qualcuno che mi protegge, sono stato ferito un paio di volte, non troppo seriamente, grazie a Dio, e alla fine mi hanno lasciato tornare a casa quando si sono resi conto che non sarei stato di molto aiuto – difficile premere un grilletto, capisce.”

Alzò la sua mano destra e Ernest si rese conto che dentro al suo guanto elegante c'era solo un pugno di legno.

"Ho capito che lei parla tedesco. Fluentemente?" disse Smith.

"Piuttosto bene, sì."

"Come mai?"

"Beh, ho avuto molti contatti con i tedeschi prima della guerra. Vivevamo a Deal, e andavo in barca, quindi li incontravo alle regate. Ho studiato un po' di tedesco a scuola così ho potuto rinfrescarlo quando ci siamo trovati tutti assieme."

"Veramente? É stato a Cowes?"

"E in altri posto, ma, sì, ero lì quando il ‘Meteor’ ci ha battuti di nuovo."

"Lo yacht del Kaiser Bill? Ho sentito che era decisamente buono."

Iniziarono a parlare di yacht – un argomento che si rivelò di reciproco interesse – e proseguirono fino a Parigi. L'auto li portò a uno dei grandi riccamente ornati di Quai D’Orsay, dove c'erano alcuni degli uffici della Commissione per la Pace. Smith lo guidò in una grande stanza piena di dattilografe e impiegati e poi in un piccolo ufficio.

“Questo è il suo ufficio. Mi dispiace, è piuttosto piccolo – siamo in molti a lavorare qui.”

La scrivania era piena di fogli e cartelline e Smith le indicò con aria di scusa. “Il suo lavoro, temo – letture arretrate” disse. “Le abbiamo destinato una segretaria – la farò venire e si presenterà da sola. Le mostrerà dove sono le cose. Forse potremo cenare assieme una di queste sere, una volta che si sarà sistemato.”

Pochi minuti dopo che Smith se ne fu andato, una ragazza dall'aspetto piuttosto stressato entrò e si presentò come la sua segretaria, Jane, e gli mostrò dove erano tutte le cose. “Le hanno procurato alcune stanze in un appartamento in ‘Boule Miche’. Le darò una mappa – è proprio qui vicino.”

Ernest iniziò a lavorare alla pila di documenti. Il loro contenuto piuttosto arido e noioso riguardava le discussioni tra gli Alleati e i rappresentanti tedeschi e alcune note sulle posizioni di negoziazione delle parti. Era chiaro che i francesi non avevano alcuna volontà di essere flessibili, che gli inglesi e gli americani erano più preparati a un compromesso e che i tedeschi, alcuni di loro almeno, non volevano ammettere che la responsabilità della guerra spettava interamente a loro o che in realtà l'avevano persa.

Esausto alla fine della prima giornata, Ernest lasciò l'edificio dopo essersi assicurato di avere un pass per tornare il mattino successivo. Jane gli aveva data una mappa per mostrargli la strada per arrivare al suo appartamento e lui la seguì, camminando lungo la strada vicino alla Senna verso la Isle de la Cité e girando poi a destra quando arrivò al Pont Saint Michel, lungo Boulevard Saint Michel.

L'appartamento era in un edificio alto, proprio vicino alla Sorbona. Era in un quartiere carino anche nel periodo successivo alla tremenda guerra che aveva quasi distrutto la città. La via, costeggiata da tigli, era immacolata e la sua strada acciottolata ospitava studenti che andavano e venivano dalle lezioni e c’erano bar aperti giorno e notte. La musica – soprattutto jazz, una nuova moda importata dagli Stati Uniti – usciva nelle strade mentre passava. La porta di ingresso dava su un cortile dove la tipica portinaia francese sedeva alla sua finestra guardando con sospetto chiunque passasse. Ernest andò verso la sua porta. “Il mio nome è Smith” disse, in francese, “Credo che qui ci sia un appartamento riservato per me”.

La portinaia bofonchiò un sì e gli porse un portachiavi con una chiave grande e una piccola. “Quella grande è per la porta esterna, che di notte è chiusa. La più piccola è per il suo appartamento, terzo piano, numero due. Non dia le sue chiavi a nessuno – i visitatori non sono i benvenuti a meno che non siano accompagnati dai miei inquilini.” Lo guardò severamente, “non voglio nessuno di notte. Se vuole fare una festa, la faccia da qualche altra parte.” Detto questo, tornò nella sua stanza e chiuse la porta prima che Ernest potesse rispondere.

Ernest fu molto occupato al Quai d’Orsay. Prese l’abitudine di fermarsi in uno dei bar studenteschi tornando verso casa dopo il lavoro per vivere l'eccitante atmosfera del dopo guerra. Nel frattempo, Smith stava diventando un buon amico e gli fece vedere la città nei loro giorni liberi. Quando la primavera lasciò posto all'estate, camminarono lungo le rive del fiume, scrutando le bancarelle dei libri in svendita. Si sedevano nei caffè lungo il marciapiede e confrontavano le loro esperienze di guerra. Smith era rimasto mutilato durante la seconda battaglia della Somme quando un proiettile di mitragliatrice gli aveva fatto a pezzi il polso. La ferita si era infettata e alla fine i chirurghi avevano dovuto amputargli la mano. “Brutto inconveniente – ho dovuto imparare a scrivere con la sinistra, se capisci cosa intendo. Comunque, poteva andare peggio – almeno ho avuto una scusa quando i miei di sono lamentati che non davo notizie.”

Il lavoro di Ernest consisteva soprattutto nel tradurre testi tedeschi per la Commissione. Mentre lavorava divenne sempre più convinto che, come aveva detto Smith, stessero facendo un grosso errore nel punire i tedeschi così duramente. Fino a quando fosse stato raggiunto effettivamente un accordo, i paesi erano ancora tecnicamente in guerra, ma sotto un Armistizio. Questo significava che, se i tedeschi non avessero accettato i termini della resa, la guerra poteva riprendere, ma con i tedeschi in una situazione indifendibile. Questo rendeva molto nervosi Ernest e i suoi colleghi. “Non possiamo veramente andare di nuovo in guerra, vero?” chiese a Smith.

“No, è solo un bluff. I francesi stanno giocando al gatto col topo con i tedeschi, per avere quanto vogliono.”

“Giocando? Stai scherzando!”

“No, purtroppo no. I francesi – e noi e, in misura minore, gli americani – vogliono la loro vendetta. Ma non preoccuparti, non ci sarà un'altra guerra. Ora hanno concordato con le nostre condizioni.”

“Sì, ma sembra che questo li manderà in una completa bancarotta. Conosco i tedeschi molto bene e temo che se andremo avanti con tutti questi risarcimenti di guerra, creeremo solamente un altro mostro.”

“Spero che tu abbia torto, Ernest. Questa non era la ‘guerra per terminare tutte le guerre’?”

Ernest gli lanciò un'occhiata torva. “Spero sia veramente così. Vedremo.”

La sua prima assistente, Jane, riuscì a farsi rimandare in Inghilterra e fu sostituita da una ex Wren piuttosto carina di nome Margaret. Era stata nelle Wren durante la guerra ed era rimasta a libro paga del governo dopo che il loro corpo era stato dismesso. Era stata assegnata alla Commissione per l'Armistizio perché parlava francese.

Smith gliela presentò e lui ne fu immediatamente impressionato. Aveva un'aria intelligente e comprensiva al contrario di Jane, che aveva passato la maggior parte del tempo a lamentarsi di essere intrappolata in città. Interrogò il suo amico su di lei. “É un bel tipo – in realtà non il mio genere, ma piuttosto carina. Ma dico, non ti starai mica innamorando?”

“Certo che no!” disse Ernest imbarazzato. “Ma in realtà non so nulla di lei.”

“Oh, è tutto molto semplice. Suo padre è un parroco da qualche parte sulla costa meridionale. Aveva un fratello, credo, ma è stato ucciso sulla Marna all'inizio della guerra. Si è unita alle Wren per dare una mano durante lo sforzo bellico – credo lavorasse come autista. Sembra abbia studiato da segretaria e a causa del suo lavoro con le Wren, aveva un buon grado di nulla osta nella sicurezza ed è stata assegnata alla Commissione per l'Armistizio quando è finita la guerra. Credo che sua madre sia mezza francese e per questo è stata un contatto utile qui.”

“Sai che ti dico: la mia ragazza è una sua buona amica. Perché non organizziamo una serata insieme?”

“Sì, perché no? Sarebbe divertente.”

Un paio di giorni dopo Smith lo invitò ad andare a un varietà alle Folies-Bergère: “un po' spinto, mi sa” disse Smith “donne nude, così sembra.”

Lo spettacolo fu, in effetti, audace rappresentando le “piccole donne nude” di Paul Derval che divenne il segno distintivo del varietà. Sebbene mostrassero tutto, fu piuttosto tranquillo – fondamentalmente quadri statici dove il sesso era del tutto soppresso. Fu audace ma poco solleticante. Ernest all'inizio fu imbarazzato per la sua accompagnatrice, ma Margaret sembrò essere di larghe vedute e lei e l'amica di Smith, Pauline, risero per alcuni degli effetti e parlarono in modo entusiastico degli elaborati costumi succinti.

Dopo lo show, Ernest accompagnò Margaret agli alloggi che lei e Pauline condividevano, lasciando Smith e la sua ragazza per conto loro. “Un po' scandaloso, no?” disse Ernest.

“Suppongo di sì. Ma era anche piuttosto coraggioso, no?”

“Non l'ha sconvolta, quindi?”

“No, certo che no. Ho pensato che le donne nude fossero piuttosto divertenti, no?”

“Sì, ora che me lo dice, lo erano” disse Ernest, poi scoppiò a ridere, “Che strana conversazione! ‘Divertenti’ – ‘Pruriginose’ sarebbe una parola migliore.”

“Ne è rimasto solleticato quindi?”

Ernest arrossì e balbettò ma Margaret gli mise una mano sul braccio “non si senta imbarazzato, sto solo scherzando. Ho trascorso una piacevole serata, grazie.”

Nel corso delle settimane successive, cenarono assieme alcune volte, talvolta con Smith e Pauline, altre solo loro due. Andarono a qualche spettacolo o in qualche bar ad ascoltare del jazz dal vivo, una musica che entrambi amavano. Una di quelle sere, dopo un concerto jazz a particolarmente buono, Ernest propose che andassero nel suo appartamento a bere un caffè.

“E la tua portinaia?” chiese Margaret.

“Dovremo solo intrufolarci silenziosamente.”

Camminarono lungo la strada verso l'appartamento. Ernest lentamente prese la mano di Margaret e sentì lei stringergli le dita e appoggiare la sua testa sulla sua spalla. Arrivati al condominio, Ernest silenziosamente estrasse la chiave, la mise nella serratura e la girò per aprire la porta. Lentamente la spinse e, con un cigolio, si aprì. Entrarono e salirono le scale fino al suo appartamento. Aprì la porta e fece entrare Margaret.

Lei si sedette su una piccola sedia vicino a un tavolino mentre Ernest si mise a preparare il caffè. Le offrì un brandy, ma lei rifiutò. Lui portò il caffè sul tavolo e si sedette sull'unica altra sedia presente nella piccola stanza.

“Piuttosto piccolo, no?” disse Margaret.

“Sì, fortunatamente non passo molto tempo qui e perciò non ha molta importanza. É grande abbastanza per me.”

Margaret guardò il piccolo scaffale pieno di libri vicino al letto. “Oh, ti piace Flaubert?” disse.

“In realtà no – sto solo provando a interessarmi. Il mio francese non è in realtà così buono, temo.”

“Mi piace Madame Bovary – molto romantico.”

“È tragico – questo in realtà mi scoraggia, troppo cupo.”

“Perché?”

“C'è stata anche troppa sofferenza recentemente, senza dover leggere della povera Madame B che si avvelena.”

“Hai avuto una guerra così terribile?”

Raccontò a Margaret dello Jutland, e di come a poco a poco si era rimesso dalle ferite, “ma ancora mi sveglio di notte sudando freddo e vedendo quei poveri marinai avvolti dalle fiamme.” Sussultò.

Margaret si alzò e andò dietro alla sedia di Ernest. Dopo avergli messo gentilmente le braccia attorno al collo, gli sussurrò “povero caro. Che orrore. Vorrei poterti aiutare.” Poi sussurrando dolcemente come se fosse un bimbo piccolo lo fece dondolare lentamente.

Ernest sentì la sua tensione sciogliersi e le lacrime inondare i suoi occhi. Improvvisamente non fu più in grado di trattenerle e cominciò a piangere. Piegandosi sulle braccia di Margaret si lasciò andare. Il suo dolore e la sua sofferenza emersero e si arrese alle sue carezze gentili e comprensive mentre lei gli sussurrava, “qui, qui, amore mio, sono qui, mi prenderò cura di te.”

Dopo pochi minuti, ritornò in sé. Mise le sue mani sulle braccia di Margaret e gentilmente le spostò. Girandosi, prese il suo viso tra le mani e si baciarono dolcemente.

Lei si allontanò e guardò l'orologio vicino al letto. “Oh, è già quest'ora? Devo andare – chiudono la porta dopo mezzanotte.”

“Ti accompagno.”

“No, tesoro, va bene. Ti vedrò domani. Ma faremo meglio a vederci fuori di qui, non vogliamo che la tua portinaia si faccia un'idea sbagliata!”

La aiutò a mettersi la giacca e scesero le scale in punta di piedi. Ernest aprì la porta e lei uscì dietro di lui. Quando fu per strada si girò e gli diede un bacio molto dolce sulla fronte. Lui fece per tirarla verso di sé ma lei gli mise un dito sulle labbra e dolcemente lo allontanò. “Buona notte, amore mio” disse prima di girarsi e andare verso casa.

Il mattino successivo si incontrarono, sentendosi un po' come degli scolari disubbidienti. Esternamente lavoravano come prima, ma il loro segreto era chiaro per gli amici e per i colleghi nonostante tentassero di nasconderlo.

A Ernest e Smith venne detto di andare a Londra per parlare del lavoro fatto a Scapa Flow per smantellare la flotta tedesca. Smith organizzò affinché prendessero un ferry da Dieppe, poi un treno per Londra, ma Ernest lo convinse che avrebbero dovuto volare di nuovo. Il pensiero di andare per mare lo terrorizzava ancora. Fecero lo stesso itinerario che Ernest aveva già fatto e si registrarono in un hotel a Westminster.

A cena quella sera, Smith era ansioso di scoprire di più su Ernest e Margaret. “Tu e Maggie sembrate essere diventati piuttosto amici” osservò.

Ernest si ritrovò ad arrossire. “Sì, è una gran brava ragazza.”

“Gran brava ragazza? Tutto qui? Sembra che tu sia piuttosto preso da lei.”

“Oh, non so. Siamo usciti alcune volte, è una buona compagnia.”

“Dai Ernest, è al tuo amico che stai parlando.”

“Va bene. É stata un vero toccasana. Avevo questi incubi orribili e sembra che mi abbia aiutato a scacciarli.”

“Ragazza notevole. Perciò avete dei progetti, no?”

“Progetti? Non direi – non abbiamo parlato di quello.”

“Quello?”

Ernest rimase in silenzio.

“Ernest, tu hai bisogno di un consiglio da un amico e io te lo darò. Spero che dopo saremo ancora amici” Smith fece una pausa. “Maggie è una ragazza meravigliosa, lo so io e lo sai anche tu. É anche follemente innamorata di te” Ernest fece per interromperlo ma Smith lo bloccò. “Non interrompermi: innamorata” sottolineò, “e credo che tu provi lo stesso per lei. Ora potresti andare a caccia per anni e non trovare nessuno di più adatto per te. Perciò il mio consiglio è, solleva la questione. Non te ne pentirai, te lo prometto.”

“Innamorata, veramente?” Ernest non fu grado di trattenere un sorriso di piacere a sentirlo. “Come lo sai?”

“Ernest Jenkins, Tenente comandante Jenkins, devi pensare che siano tutti ciechi. Il modo in cui vi guardate, è chiaro come il sole.”

“Ma se hai torto e glielo chiedo, sarebbe troppo imbarazzante.”

“Segnati le mie parole, giovane Ernest, non andrà male.”

Dopo il loro incontro presso l'ammiragliato ritornarono a Parigi. Ernest andò nel suo ufficio il giorno successivo e, quando vide Margaret arrivare, il suo cuore sobbalzò. Arrossì e guardò da un'altra parte. “Ciao straniero” disse, “bel tempo a Londra?”

Lui parlò di un incontro produttivo, di molte informazioni da apprendere, di relazioni da scrivere e di lavoro da fare.

Lei sembrò un po' mortificata. La stava trattando come una segretaria più che come quell'amica che pensava fosse diventata. Scoraggiata dai suoi improvvisi modi freddi, divenne brusca e professionale, porgendogli la posta che era arrivata mentre era stato via e chiedendogli se c'era qualcosa di particolare che voleva che lei facesse.

“No, nulla per il momento. Ho lasciato alcune lettere in uscita, forse potresti batterle a macchina?”

Lei lasciò la stanza confusa e un po' arrabbiata. Si sedette alla sua scrivania e provò a lavorare, ma il suo tono sbrigativo l'aveva realmente turbata e decise di mettere le cose in chiaro con lui. Arrivò un messaggero con un appunto per lui e lei lo portò nel suo ufficio chiudendo la porta dietro di sé.

“Ernest, cosa è successo? Cosa c'è che non va? Sembri così freddo. Ho fatto qualcosa che ti ha turbato?”

“Turbato? No, certo che no.” Sembrava completamente a disagio. “É solo che,” fece una pausa, goffamente, “É solo che devo dirti qualcosa.”

“Dirmi qualcosa? Cosa? Cosa diavolo stai dicendo? Non mi dirai che sei sposato o qualcosa del genere, vero?”

“Sposato? No!”

“Bene, allora, vuoi dirmelo? Cosa è successo?”

“Solo che, sai, solo che… Beh, sai.”

“Non lo so, Ernest” stava cominciando a diventare rossa, irritata.

“Beh, va bene. Ho pensato. Ci piacciamo, no?” Lei annuì con cautela. “Beh, bene. Sì. La cosa è, mi sono domandato se, forse, potresti considerare…”

Fece di nuovo una pausa, arrossendo. Lei iniziò a picchiettare con il piede piuttosto irritata. “Considerare cosa? Un trasferimento, il prezzo delle prugne, la situazione mondiale – cosa?”

“In un certo senso, sai” vide la sua espressione e si affrettò “beh, in realtà, di sposarmi.” Le parole uscirono di getto, “So che non sono un granché, mezzo storpio, un po' svitato, piuttosto timido e realmente goffo ma credo veramente che potremmo stare bene insieme, se capisci cosa voglio dire.” Mentre lo diceva aveva rivolto lo sguardo verso il pavimento completamente a disagio. Sentì lei venire verso di lui e sollevargli il mento per guardarlo negli occhi. Fu sorpreso di vedere le lacrime nei suoi occhi e, allo stesso tempo, una grande sorriso sul suo volto.

“Stupido, certo che lo voglio. Lo aspetto da una vita. Se tu non me l'avessi chiesto ho pensato che avrei dovuto chiedertelo io il 29 febbraio del prossimo anno!”

"Veramente? Sul serio? Accidenti, grazie… voglio dire, caspita, non posso crederci!" i suoi modi cambiarono completamente e la prese tra le braccia proprio quando entrò il suo superiore.

“Oh, mi dispiace interromperla, ma potrebbe mettere giù la sua segretaria per un attimo, vorrei parlare del suo viaggio. Se riesce a trovare il tempo, va bene?”

Si separarono e Margaret uscì dalla porta. Ernest sembrava imbarazzato quando il comandante la guardò uscire. “Forse le congratulazioni sono all'ordine del giorno?”

Il sorriso di Ernest diceva tutto, “beh, sì, in realtà, si. É che…”

“Amico non serve dire altro. Quando sarà sceso dalla sua nuvola venga nel mio ufficio, va bene?”

Pochi mesi dopo che fu firmato il trattato di Versailles, all'inizio del 1920, in una fredda giornata di febbraio dopo essere tornati a Londra, Ernest e Margaret si sposarono nella chiesa del padre di lei con una tranquilla cerimonia. John Smith fu il suo testimone e Pauline la sua damigella d'onore. Si trasferirono nella casa dei genitori di Ernest a Deal dopo una breve luna di miele in Galles ed Ernest fu in grado di organizzare un trasferimento presso la base navale di Dover dove proseguì il suo lavoro.

Alla fine dell'anno nacque il loro primo figlio, Godfrey, seguito, diciotto mesi dopo, da una bambina, Elizabeth.

Quattro Destini

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