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I.

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Fervore di nuova vita a Milano al tempo di Carlo Porta. — Due grandi satirici: Giuseppe Parini e Carlo Porta. — La fortuna di Carlo Porta. — Maria Teresa.

Carlo Porta, il grande ironista meneghino, nasceva quando nella sua Milano, pur nella semi-barbarie di tante cose, agitavansi forti spiriti innovatori. Il Beccaria scriveva ardito contro la tortura e il patibolo; il Verri suggeriva le case di correzione in luogo delle prigioni pervertitrici; il Parini scherniva l'aristocrazia fatua e viziosa; a dispetto di sfringuellanti accademie arcadiche, sorgevano due associazioni possenti: la Patriottica e la Palatina; la prima per infondere aliti nuovi alle industrie, la seconda per rifare la storia italiana cui un dottore dell'Ambrosiana, Antonio Muratori, consacrò energie più che umane. Le sale del palazzo principesco di Antonio Tolomeo Trivulzio echeggiavano ancora di scipite pastorellerie d'Arcadia; ma, per volontà riparatrice dello stesso principe, quelle sale si aprirono ai vecchi che per le vie fangose trascinavano la canizie limosinando o venivano gettati a languire in un carcere. Alessandro Volta medita e prova: fioriscono gli studii matematici alle cui cime salgono persino menti muliebri, come l'Agnesi la buona e Clelia Borromeo la bella. La terra si solca di nuove strade e di nuovi canali: il cielo svela nuovi misteri alle acute pupille degli astronomi di Brera.

Il Porta, questo sincero poeta, formidabile nemico delle albagie aristocratiche, del mercimonio pretino, degli ozi frateschi; questo schernitore della letteratura arcadica, delle decrepite convenzioni poetiche, implacabile nel perseguitare l'ipocrisia e l'affettazione, nasce, adunque, quando già intorno a lui fervono idee liberali, principii fecondi, speranze ardite; arriva a tempo per vibrare il suo colpo di martello al vecchio edificio che si sfascia e a rallegrare di celie immortali il popolo suo, che da' rapidi avvenimenti è qua e là sbattuto, come nave in tempesta.

Nel breve periodo che corre dagli ultimi anni del Settecento, durante la dominazione austriaca e il ritorno, nel 1814, di quello stesso dominio, infesto ai liberali, la Lombardia vantò due forti poeti satirici: Giuseppe Parini e Carlo Porta. La loro poesia, acre fiore delle rovine, nacque dalle rovine d'una società destinata a scomparire. Ma il Parini è anche legislatore morale, addita nuove vie di progresso umano, di civiltà. La sua parola non si arresta nella cerchia della sua Milano; passa a tutta Italia, a tutto il suo secolo, con le odi, nelle quali, come in quella terribile del Bisogno, vedi la mente illuminata, senti lo spirito libero talora accorato e intimatore del filantropo, dell'uomo nuovo. Democratico nel sentimento, il Parini è aristocratico al sommo nella forma poetica. Egli, cristiano nel sentire, più di certi scrittori cattolici, è pagano nelle supreme eleganze oraziane. Nutrito fino al midollo dei classici più eletti, rimane classicista sovrano. Il Porta, partecipando, con la sua avversione alle truccature, a quello spirito moderno che vibrava anche in letteratura al suo tempo, partecipò all'ardente lotta dei Romantici contro i vecchiumi convenzionali dei classicisti, egli verista persino spietato, persino scurrile, antecessore d'Emilio Zola e della scuola zoliana, sommersa poi da altre scuole di moda, ma forte di un fondo razionale, come quello che rampollò dall'opera sterminata, titanica, rivelatrice di verità psicologiche umane d'un Balzac.

Al Parini, la lingua aulica; al Porta, il dialetto pittoresco, ch'egli, pur milanese, anzi meneghino, andava a imparare alla scœura de lengua del Verzee, com'egli stesso dice nel memorando suo Miserere, là, fra le pescivendole, gli ortolani, i carrettieri, penetrando nell'anima del popolo, e rendendola in guisa che Milano non ha altro poeta suo, tutto suo, al pari di Carlo Porta.

Milano fu sempre gelosa del suo poeta e, sino a pochi anni addietro, quasi si doleva se qualche volenteroso, non nato e cresciuto all'ombra del Domm (che, come scriveva nell'Italy lady Morgan, è il suo Campidoglio), mostrasse d'ammirarlo, d'amarlo, e cercasse d'interpretarne il pensiero con omaggio fervente. Così certe madri, gelose dei loro figliuoli adorati, patiscono se altri li bacia.

Oggi, Milano è diversa. La vasta, tumultuosa metropoli apre le braccia a tutt'i forestee che tanto irritavano il Porta; e i forestee, anch'essi, onorano il Porta nel centenario della sua morte, ch'è centenario di vita.

Milano eresse al Porta due monumenti, l'uno fra i dotti di Brera, l'altro in mezzo agli alberi e alle anatre dei giardini pubblici; gli dedicò una via e, più tardi, un teatro, persino un caffè; ma, in una biografia compiuta del suo poeta, deve rivederlo figlio ed amante, sposo affettuosissimo, amico a tutta prova, benefattore e uomo di società, attore comico e poeta, e, nello stesso tempo, fiero contro i nemici, inquieto e ammalato, malinconico e piangente per pentimenti profondi, per amarezze ineffabili.

Fa d'uopo soprattutto interrogare le sue opere, le sue Memorie, gli eredi suoi: fa d'uopo frugare nelle sue lettere, violarne persino i segreti, perchè egli si palesi intiero. Non ne sarà offesa la sua memoria, poichè egli fu sempre amante della verità. Non ne uscirà una figura di Plutarco, un eroe: non una figura da altare; ma un uomo comune, con debolezze e virtù; soprattutto, un meneghino di genio, e il più grande poeta, dopo il Manzoni, nato a Milano.

Quando nacque il Porta, l'imperatrice d'Austria Maria Teresa regnava sulla Lombardia, di cui formò alla fine una specie di vice-regno, ponendovi a capo il proprio figlio arciduca Ferdinando; e, prima, al governatore conte di Firmian conferì il titolo di ministro plenipotenziario. Tutte cose che mostrano come ella volesse rialzare il livello politico del suo dominio lombardo.

Carlo Porta e la sua Milano

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