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III.

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Indice

Morte di Maria Teresa. — Le violente tumultuarie innovazioni del figlio Giuseppe II. — Il caso pietoso del poeta Passeroni. — Colloqui del poeta affamato col suo gallo. — Curiose guardie di polizia. — Minacciosi malumori contro Giuseppe II. — La morte e il successore di Giuseppe II. — La vita nelle famiglie borghesi. — Religiosità singolari. — Il nobile Andreani e il suo pallone aereostatico. — Libri, idee, mode francesi. — Discorsi in case aristocratiche. — L'ode del Parini sul vestire alla ghigliottina. — In che cosa consisteva quella moda infame. — Strano difetto di quell'ode. — Sua popolarità. — Carlo Porta la traduce in milanese. — Fine della parrucca.

I tempi ingrossavano. Era tramontato il sogno di Pietro Verri e degli amici di lui che, un bel dì, volevano chiedere a Vienna una costituzione, non prevedendo, però, nè una rivoluzione, nè un possibile intervento di nuovi vincitori.

Nel 1780, l'imperatrice Maria Teresa, la guerriera, ricca di figli e d'amori, moriva quasi sessantatreenne, lasciando al figlio Giuseppe II lo scettro, e chiudendo una vita di lotte acerbe e di riforme civili e militari memorabili, che la collocarono in un posto eminente nella storia.

Giuseppe II può essere chiamato, per certi riflessi, il battistrada di Napoleone. Pareva che presentisse di non aver lunga vita: per questo affrettò, condensò innovazioni su innovazioni; e accumulò, anche, rovine su rovine. Colpi micidiali mena sulle abbazie, sui conventi, come farà ben presto Napoleone. La Società segreta dei Franco Muratori è proibita per decreto di Maria Teresa con bando e scomunica, ma Giuseppe II la riconosce, e vuole che sia ricostruita, perchè fautrice della filosofia (la gran parola d'allora) e benemerita delle scienze. Il decreto porta la data del 21 gennaio 1786. Ben presto, sotto la Repubblica cisalpina, Francesco Palfi, filosofo, giurista, letterato, uscito da un convento della Calabria, diffonderà i principii della massoneria e ne spiegherà i riti nel poema Ivan, oggi lettura dei topi.

Giuseppe II soppresse tutte le corporazioni religiose, non utili alla società. Abolì persino la Congregazione dei Bianchi, il cui ufficio pietoso era quello di assistere, confortare i giustiziati e seppellirne le salme. Pubblicò un nuovo sistema giudiziario, solennemente inaugurato il 1º maggio 1786; ma il codice non corrispondeva ai principii liberali vantati.

Il barbogio Senato fu soppresso. E quella fu soppressione santissima. Il Senato, s'era opposto all'abolizione della tortura, come Maria Teresa comandava da Vienna, per non offendere le vetuste tradizioni. Durante gli strazii della tortura, inflitti spesso a poveri innocenti, per istrappare ciò che si voleva, gl'illustri signori giudici bevevano le loro brave tazze di cioccolata, la quale faceva parte anch'essa delle auguste tradizioni. Il Senato di Milano a cui appartenne qual segretario il poeta Carlo Maria Maggi, un antecessore (e lo vedremo) di Carlo Porta, finiva dopo quasi tre secoli.... non di gloria.

Un ordine dell'imperatore vieta i giuochi d'azzardo. Si giuoca, infatti, dappertutto a Milano: nei teatri, nelle case, nelle botteghe, nelle sacristie..... Ma il governatore di Milano, arciduca Ferdinando, è preso anch'egli dalla fregola dei subiti guadagni: specula in granaglie come suo padre. Malattia di famiglia.

Giuseppe II abolisce tutte le pensioni. Immaginarsi in quali miserie piombano poveri vecchi, che non hanno più la forza di lavorare per vivere.... alla vigilia di morire! Persino all'abate Gian Carlo Passeroni sono tolte le cinquecento misere lire milanesi annue, che il conte di Firmian, governatore illuminato e liberale, gli aveva assegnate sulle sostanze dei marchesi Lucini, antichi mecenati del povero nizzardo, autore del moralista ma buffoneggiante poema Il Cicerone, lungo centuno canti, nei quali il famoso arpinate è, per dire la verità,

Come l'araba fenice:

Che ci sia ciascun lo dice,

Dove sia nessun lo sa.

Il Parini, intimo amico del Passeroni, confessa d'avergli «grande obbligo», perchè lo ha «smagato dal vezzo d'ingemmare di frasi viete e dimesse i suoi versi».[4]

Il povero nizzardo, costretto a rifugiarsi affamato in una buia, angusta stamberga di legno, ha per unico compagno un gallo, al quale tiene lunghi discorsi filosofici sull'avversità dei tempi. E il consueto andamento di Milano viene sempre più turbato da riforme violente. V'ha chi pensa persino a una sommossa contro Giuseppe II, imitando i Paesi Bassi.

L'irritazione è acuita dal brutale contegno d'una nuova istituzione: della Police, squadra di soldati invalidi, che per mostrare autorità bastonano i cittadini. Qualche cosa di simile, anzi di peggio, vedremo fra poco, al tempo dell'occupazione demagogica francese, quando Carlo Porta scriverà uno de' suoi capolavori: Giovannin Bongee.

Ma, a placare il malcontento, ecco giunge a Milano la notizia della morte dell'imperatore. I Paesi Bassi, insorti, avevano già proclamato la propria indipendenza: l'Ungheria avea respinto minacciosa le riforme, e Giuseppe II dovette ritirarle, riportando un urto terribile alla propria autorità. I disagi, sofferti nella guerra contro i Turchi, contribuirono ad affievolire la fibra già scossa del sovrano. Tutto ciò affrettò la fine d'una fervida vita, che, assoggettata a maggior freno e riflessione, poteva essere tutta illustre. Giuseppe II spirò col nome di Dio sulle labbra, e rassegnato.

Era il 20 febbraio 1790. In quello stesso giorno, il fratello Leopoldo II saliva al trono.

Il nuovo principe ascoltò i reclami; chiamò a Vienna due deputati d'ogni città lombarda; ripristinò le istituzioni paesane abolite e rese gratuite a tutti le scuole pubbliche, dove i ricchi prima pagavano. Le famiglie patriarcali non temettero più morali rovine.

Nelle famiglie borghesi (si chiamavano cittadine) salite dal popolo, come quella di Carlo Porta, l'ordine e la quiete, il raccoglimento patriarcale dominavano. Il padre non era solo il semplice capo della famiglia; era, anche, un'autorità in tutto e per tutto, che i figli dovevano riconoscere e riverire in soggezione perenne. Ai genitori, i figliuoli davano del lei, mai del tu; nemmeno allora che diventavano genitori alla loro volta. Non potevano uscire di casa, senza spiegazioni e regolare permesso. A tavola, tutti dovevano essere radunati puntualmente all'ora prefissa, e aspettare, in raccolti silenzi, che il padre dividesse lui le pietanze numerate; ma tutto questo avveniva pure in altre contrade d'Italia. La madre, nella gerarchia familiare, occupava invariabilmente il secondo posto. Qualche volta (il cuore della mamma!) temperava i rigori di prammatica del genitore, e asciugava col bacio la lagrima del figlio, ma di nascosto. Alla sera, dopo il parco desinare, si doveva, secondo l'uso antico, recitare almeno una parte del rosario a suffragio delle anime dei defunti di famiglia. Talvolta, lo si recitava per liberare dalle fiamme del Purgatorio qualche anima ignota. Questa specie di suffragi anonimi era radicata a Milano. Il Purgatorio offriva (avrebbe detto un moderno), un bel margine per esercitare la pietà religiosa. Alle porte delle chiese (ce n'erano un dì a ogni passo come i conventi), si leggeva: «Oggi si libera un'anima dal Purgatorio». Un'anima sola fra tanti milioni e milioni d'anime purganti, non era gran cosa; ma ciò che doveva più impressionare i non devoti era l'assoluta certezza e precisione cronometrica di quelle promesse liberazioni dagli espiatorii tormenti, dei quali si parlava tanto, nei quaresimali e nelle omelie. D'inverno, durante i lunghi, tetri inverni di Milano, nelle famiglie borghesi, padri, madri, figliuoli si raccoglievano davanti ai focolari. I bambini ballavano a tondo, cantando in coro:

Ara bell'ara,

Discesa Cornara,

Dell'or e del fin — del Cont Marin....

che pareva una filastrocca senza senso; tanto che Carlo Porta l'adoperò nelle sue frammentarie versioni o, meglio, parodie meneghine, dell'Inferno di Dante; e precisamente per rendere l'oscuro verso famoso:

Pape Satan, pape Satan, Aleppe.

Quella cantilena era eco d'una storia deformata dal volgo; il quale credeva che Ara, figlia d'un Cornaro, veneziano, fosse stata uccisa da un conte Marino. L'uccisa era, invece, una spagnuola.

Un avvenimento faceva discorrere Milano per mesi. Chi sa quanto discorrere si sarà fatto nella famiglia di Carlo Porta, quando il teatro di Corte, fatto già rinascere dalle ceneri d'un altro incendio, andò distrutto dalle fiamme verso l'alba del 25 febbraio 1774!

E si pensi quale stupore nella famiglia di Carlo Porta, come dappertutto, destò l'avvenimento del primo pallone aerostatico che s'innalzò al cielo portandosi un uomo! Il nobile Paolo Andreani, lo stesso che aveva introdotto a Milano i parafulmini, si fece costruire, nella sua principesca villa di Moncucco, un pallone alla Montgolfier, e vi salì imperterrito: il primo a Milano, il primo in tutta Italia.

I nuovi sbalorditivi trovati di quella Francia, che s'era levata contro il suo re, e della quale cominciavano a diffondersi nelle famiglie atterrite le raccapriccianti notizie; quei nuovi trovati non potevano esser altro che opera del demonio, come i preti predicavano nelle chiese e a domicilio.

Libri, idee, mode francesi erano già penetrate. Il Parini, in un mirabile sonetto milanese, che ha la parlata evidenza di quelli del Porta (e qual poeta vernacolo sarebbe anche divenuto!), coglie argutamente il discorso che una dama tiene a una signora tenera, a quanto pare, dei Francesi rivoluzionarii:

Madàm, gh'hala quaj nœuva de Lion?

Massacren anc'adess i pret e i fraa

Quij sœu birboni de' Franzes, ch'an traa

La lesg, la fed e tutt coss a monton?

Cossa n'è de colù, de quel Petton,

Ch'el pretènd cont sta bella libertaa

De mett insemma de nun nobiltaa

E de nun Damm, tutt quant i mascalzon?

A propòsit: che la lassa vedè

Quel capell là, che gh'a d'intorna on vell!

Èl staa inventaa dopo ch'han mazzaa el Re?

L'è el primm ch'è rivaa? Oh bell! oh bell!

Oh! i gran Franzès! Besogna dill: no gh'è

Popol, che sappia fa i coss mej de quell![5]

I bosin rozzi, poeti popolari in vernacolo, le cui canzonette si vendevano a un centesimo per le strade, inveivano intanto contro l'eccidio dello sventurato Luigi XVI, forse, e senza forse, eccitati dalle autorità imperanti; e contro la nuova moda che le signore più imprudenti adottarono nel crudo inverno del 1795, mentre intorno erano nevi continue e ghiacci. Si trattava

di mostrare nudi il collo, le spalle, il petto, com'erano costrette ad avere le gentildonne vittime della Rivoluzione francese, mentre venivano trascinate a soccombere sotto la lama della ghigliottina. Un nastro rosso, per raffigurare il sangue, girava intorno al collo ed era condotto sotto le braccia e incrociato sulla schiena, e poi ricondotto sul petto per formare un nodo. Questa moda, in Francia, si chiamava à la victime, e da noi «vestire alla ghigliottina».

On vestii che tutt l'han ditt

Brutt de sangu e de delitt,

Infamaa per man del boja;

cantava una bosinada:

Sur la moda malandrina

Del vestir alla ghigliottina.[6]

Ma la tapina musa bosina non bastava. Giuseppe Parini, lo stesso autore del sonetto vernacolo citato e intitolato ironicamente da lui El magon dij damm de Milan per i baronad de Franza («magon» vuol dire dolore che fa nodo alla gola: e si è visto quale angoscia pativano, poverine!); il grande Parini levò quell'ode meravigliosa A Silvia contro il vestire alla ghigliottina, che si diffuse subito manoscritta per Milano e fu tradotta da diversi poeti in dialetto milanese. «Carlo Porta (narrò il Bernardoni, amico del poeta), Carlo Porta, che aveva cominciato a preludere alla poetica carriera che percorse in seguito tanto luminosamente.... colpito dalla inarrivabile bellezza di quell'ode, la stava traducendo egli pure in ottonarii, e già delle strofe, ch'egli mi aveva mostrate e che la facevano giungere poco meno che alla metà, poteva giudicarsi bellissimo lavoro; quando si vide comparire stampata e distribuirsi in gran copia di esemplari e leggersi pubblicamente quella di Francesco Bellati col titolo: Ode a Silvia molto bella d'un autor di conclusion, ecc., ch'era stata ordinata dall'arciduca Ferdinando d'Austria, allora governatore di questa provincia, con l'idea di rendere intelligibili anche alle basse classi della popolazione i sublimi concetti pariniani. E il Porta lacerò tutto quello ch'egli aveva fatto e non ne rimase più alcuna traccia.»[7]

Codesto Bellati non era un poeta volgare. Possedeva un particolare talento nelle traduzioni, o meglio, parodie dei classici latini e italiani in vernacolo milanese, con spirito schiettamente ambrosiano. Il Cherubini lo accolse nella sua Raccolta dei poeti milanesi. Il Porta lo ammirava, e lo seguì nella parodia dell'Inferno di Dante.

Giuseppe Parini si levò fiero e morale anche in quell'ode; ma doveva mostrarsi ancor più severo su quella moda che rappresentava una cinica infamia: la moda più scellerata che siasi mai vista.

A «Silvia ingenua» il poeta poteva toccare il cuore, ricordandole tante giovani vite fiorenti al pari della sua, che erano trascinate a piegare il collo sotto la lama assassina. Manca la commozione, l'elemento più vivo, che meglio dei citati Tereo, Atreo e della signora maga Colchica, doveva vincere la giusta causa. Ma mettiamo pegno che nè i versi del Parini, nè la versione del Bellati, nè le divulgazioni dei due componimenti e le bosinade distolsero le belle vanitose dalla moda-carnefice.

Intanto si cominciava a muover guerra alle parrucche, e i parrucchieri si schieravano, naturalmente, fra i nemici più acerrimi della rivoluzione. Quanti prevedevano di rimanere sul lastrico! La parrucca era un'istituzione che richiedeva molte cure, molto tempo, ogni giorno. Gli uomini portavano coda, ricci, tupè: i più ricchi e i più eleganti sfoggiavano capelli finti, che scendevano in «artificiose anella». Le teste rappresentavano un lavorio architettonico rispettabile, nel quale apparivano la perizia e il vanto del parrucchiere. Nè minor bravura d'artefice richiedeva la diffusione della cipria sulle parrucche. La candidissima polvere di Cipro vi era sparsa con una «volandola». Ma si faceva scendere anche, come una nevicata, dall'alto d'un gabinetto, dove la dama o il gentiluomo sedevano ravvolti in un accappatoio protettore. La morte della parrucca fu la morte di tutto un mondo.

Era nata nel 1629 sulla testa di Luigi XIII, re di Francia.

Carlo Porta e la sua Milano

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