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IV.
ОглавлениеLa Gazzetta del Veladini. — Manifesti incendiarii. — Abbaglio del Bonaparte. — In casa di Carlo Porta. — Il Porta contro la democrazia francese. — Napoleone nella guerra d'Italia. — La battaglia di Lodi. — Un pranzo vescovile. — Chiese spogliate. — L'avanguardia dell'esercito francese entra in Milano. — Le coccarde d'un frate e il grido del general Massena. — Solenne ingresso di Napoleone in Milano. — Il comandante austriaco Lamy nel Castello. — Cede. — Istituzione della Repubblica cisalpina. — Ruberie e ruberie. — Estorsioni, imposte, generale malcontento. — Tentativo d'insurrezione. — È soffocato nel sangue. — Clamorose feste repubblicane. — Eccitamento delle donne. — Gli «alberi della Libertà». — Folli sfrenatezze. — La gentil mano di sposa della figlia d'un chimico. — Gli energumeni di via Rugabella. — Racconti di Alessandro Manzoni: la demagoga Sopransi. — Ire contro la guglia del Duomo. — Il buon senso d'un meneghino. — Ancora un racconto del Manzoni: Vincenzo Monti tremante alla tribuna. — Versi italiani di Carlo Porta sui cisalpini.
Il tipografo Veladini pubblicava a Lugano due volte la settimana La Gazzetta di Lugano, ch'era la portabandiera del liberalismo; e i contrabbandieri, numerosi anche allora, la introducevano a Milano, dov'era letta avidamente nei circoli impazienti di novità; mentre sulle cantonate s'incollavano dai rivoluzionari penetrati a Milano stupidi manifesti incendiari, come questo: «Milanesi, massacrate il Governo, il ministro, la nobiltà, se volete liberarvi dal dispotismo, dalla prepotenza, dalle crudeltà, e così godrete la libertà».
La ghigliottina francese aveva fatto dunque proseliti; ma gli ambrosiani non si sarebbero nemmeno mai sognati di servirsene. Napoleone credeva di trovare la Lombardia nelle condizioni della Francia? Ma qui i nobili non erano odiati dal popolo, se anche, come avveniva talora, in teatro sputavano dalle loggie in platea sulle teste; nè qui i contadini mangiavano l'erbe dei fossati e dei boschi per non morire di fame. Innovazioni civili erano cominciate da un pezzo, come abbiamo visto; il tentativo d'avvicinare le classi non era mancato da parte dei patrizi più liberali; e non si aveva bisogno dei Ranza, dei Salvador e degli altri fuorusciti e cialtroni per rialzare un popolo che aveva veduto un Cesare Beccaria, un Pietro Verri, un Parini!
Quel Carlo Salvador, amico del Marat e già, a quanto dicevano, falso testimonio di delitti addossati a innocenti durante le persecuzioni di Robespierre, e predestinati alla ghigliottina, fu uno dei sobillatori più perfidi. Lo ritroveremo più innanzi.
Intanto, a Milano, si tremava al minacciato irrompere dell'esercito rivoluzionario francese.
L'esercito del Bonaparte, passato il Po, s'avanzava. Per ordine del vicario di provvisione, conte Francesco Nava, è celebrato un triduo a San Celso per implorare la Divina assistenza. Solenne processione alla basilica di Sant'Ambrogio, con le più preziose reliquie e al canto dei salmi penitenziali: le monache cantano le litanie sfilando nei chiostri: loro terrori, loro pianti disperati, e risa dei giacobini introdottisi in Milano.
Nella casa di Giuseppe Porta, il disordine non poteva penetrare. Quell'uomo, circondato dal rispetto e dalla riverenza de' figli, serbava nel santuario domestico la calma, l'ordine. Il figlio Gaspare si dava alle operazioni bancarie; e avea quindi d'uopo di testa fredda. L'altro figlio, Baldassare, era anch'esso savio e serio. Carlo sentiva bene la necessità di bandire principii liberali, di fondare istituzioni novelle rovesciando le vecchie, ma odiava le pagliacciate e gli eccessi demagogici. In una poesia inedita, rimasta incompiuta, Paricc penser bislacch d'on Meneghin repubblican, domanda:
Santa Democrazia tant decantada
In stoo secol sapient filosofista,
Comprada, promettuda e regalada,
Dove set? Cosse fet? Non t'hoo mai vista.
Carlo Porta aveva ventun anno, quando entrò in Milano l'esercito francese rivoluzionario. Teniamone nota.
Il Direttorio di Francia scagliava i suoi eserciti contro le vecchie, irritate monarchie d'Europa, che avean giurato di distruggere l'improvvisata repubblica sanguinaria di cui temevano il furore di propaganda e l'esempio sulle masse. Reno ed Alpi dovevano essere varcati dalle truppe repubblicane, che, lacere, affamate, avevano bisogno d'allori e di ristoro in terre di conquista, in cui avrebbero diffuso i proclamati diritti dell'uomo, e, tornando in patria, non dovevano essere apportatrici di malcontento per patite privazioni e delusioni. Tre eserciti si videro irrompere dalla Francia: due verso la Germania, il terzo verso l'Italia, assalendo, in tal modo, l'Austria da due lati; l'Austria, speciale nemica, una cui figlia regale, Maria Antonietta, aveva lasciata la vita altera e spensierata sotto la ghigliottina.
Il Bonaparte, capo dell'esercito francese, scese in Italia, da quella folgore di guerra ch'egli era. Le sue vittorie contro gli Austriaci a Montenotte, a Millesimo, a Diego, furono voli, quali Ugo Foscolo le enumerò nella dedica ardente dell'ode a Napoleone. Le truppe imperiali erano comandate dal settuagenario barone Beaulieu, supremo comandante austriaco in Italia, nato nel Brabante, che, dinanzi all'avanzata del ventisettenne Bonaparte, pensò di trincerarsi a Fombio, villaggio sulla strada maestra fra Piacenza e Lodi. I Francesi non perdono tempo: s'impadroniscono de' suoi cannoni e li rivoltano contro di lui, mentre altre divisioni francesi accorrono e compiono in un baleno la vittoria. In tal modo, la battaglia di Lodi si risolse in un non arduo, per quanto eroico, assalto. Napoleone disse: Non fu gran cosa. Era l'11 maggio dell'anno 1796.
Le porte di Milano erano così spalancate al pallido chiomato Côrso. Il vescovo di Lodi, monsignor Della Beretta, s'affrettò ad ossequiare fervidamente, coi maggiorenti del suo clero, il duce della Rivoluzione regicida, e lo invitò a pranzo; ma Napoleone non si accontentò d'andarvi egli solo con qualche suo aiutante: accompagnò con sè diciotto affamati ufficiali del suo Stato maggiore che non erano attesi; perciò fu necessario al cuoco vescovile, autentico eroe delle batterie di cucina, escogitare gastronomici espedienti per soddisfare tante bocche improvvise. Per ringraziamento, Napoleone mandò il giorno dopo il commissario generale di guerra Saliceti a spogliare la cattedrale degli oggetti preziosi, dopo d'aver ricevuto dal vescovo mille zecchini e tutta la sua argenteria in regalo grazioso.
A che valsero, o monsignore, i tuoi sorrisi e l'elegante tua conversazione francese? Ma non sapevi che il Bonaparte era stato inviato in Italia dalla Repubblica della Senna, col mandato supremo di diffondere i santi principii: la fraternità, la libertà, l'eguaglianza?
Mentre gli avidi saccheggiatori spogliavano la cattedrale di Lodi (le altre chiese della diocesi ebbero pure lo stesso fraterno trattamento), comparvero dignitosi davanti al Côrso i decurioni di Milano, Francesco Melzi e Giuseppe Resta, a rendere omaggio al giovane vincitore.
E il 14 maggio di quel fortunoso anno 1796 il nizzardo generale Massena, con l'avanguardia dell'esercito francese, entrò da Porta Romana in Milano, fra due ali di militi della Guardia civica appena istituita; dopo d'avere ricevute, alla cascina Colombara, le chiavi della città, dorate per l'occasione, e presentate su un cuscino di velluto rosso, dal vicario di provvisione, il nominato conte Francesco Nava. Il governatore austriaco di Milano, il venditore di granaglie arciduca Ferdinando, invece di battersi, se l'era battuta, riparando nel territorio veneto, a Bergamo, e di là, a Vienna.
Il Massena, nel prendere le chiavi dorate della città, disse: «Le prendo da buon repubblicano e desidero restituirle ad un popolo che abbia aperti gli occhi sopra i suoi veri interessi».
Un frate zoccolante si sbracciava a gettare qua e là, per le vie, coccarde francesi, gridando: «Viva la libertà!». Qualcuno gridò: «Morte agli aristocratici!». E il general Massena pronto: «Viva Bonaparte e il popolo di Milano!».
Il popolo scarsamente rispose.
Il giorno dopo (era una radiosa domenica, di Pentecoste) entrò in Milano Napoleone. Il sole risplendeva, l'aria era carezzevole, le campane suonavano a festa. I demagoghi gli andarono incontro gridando evviva. Il Côrso andò ad alloggiare al palazzo Serbelloni, poi passò col suo stato maggiore al palazzo di Corte, dove la banda (dice uno dei narratori del tempo, il Beccatini) suonava la Marsigliese e le altre arie patriottiche affatto nuove agli orecchi ambrosiani, in mezzo agli ufficiali superiori dalle divise turchine, dalle fascie rosse alla cintura, dagli elmi rilucenti, dalle lunghe criniere ondeggianti e dai cappelli con altissimi pennacchi, fra lo sventolio delle vivaci bandiere tricolori.
I francesi non erano in gran numero, secondo il Verri nella sua Storia dell'invasione. «Accampavano senza tende, marciavano senza alcuna compassata forma, erano vestiti di colori diversi e stracciati; alcuni non avevano armi; pochissima artiglieria; cavalli smunti e cattivi. Stavano in sentinella sedendo. Avevano, anzichè l'aspetto di un'armata, quello d'una popolazione arditamente uscita dal suo paese, per invadere le vicine contrade.»
Nel Castello, il comandante austriaco Lamy s'era asserragliato con tremila soldati. Aveva inoltre centocinquanta cannoni, seimila fucili, molto bestiame, gli approvvigionamenti, tutto il materiale da guerra. Se avesse osato la sortita, avrebbe potuto forse prendere tutti? Non osò. Cedette ogni cosa ai francesi. E la Lombardia, ricca di floridissimi pascoli, bella di laghi incantevoli, di verdi colli, di monti, di fiori, superba di monumenti, splendida per opere di pittura e scultura, illustre per ingegni altissimi, eccola, in seguito a uno scontro su un ponte, preda e provincia della Repubblica francese; trattata come terra di conquista. Napoleone volle battezzarla col nome di Repubblica cisalpina il 29 giugno là, nella villa di Mombello sulla pianura milanese, proprio dove errano ora raccolti i pazzi della provincia. E in quella villa lo stesso Bonaparte ordì l'infame trattato di Campoformio, che gettò la Venezia, l'Istria, la Dalmazia tra le braccia dell'Austria; quel trattato cagion di tante guerre nostre, di tanti lutti; lutti anche di ieri, anche d'oggi.
Pure a Milano, alla quale il generale Despinoy, comandante della città, ordina d'illuminarsi la sera del 18 maggio per la «festa della Vittoria» celebrata in quello stesso giorno in tutta la Repubblica francese; pure a Milano si richiedono aggravii di guerra. L'agenzia militare francese spoglia il Monte di Pietà di tutti i pegni preziosi al disopra delle cento lire. Ed ecco requisizione di cavalli; imposta straordinaria a titolo di prestito di 14 denari per ogni scudo d'estimo; imposta di venti milioni di Francia, da ripartirsi fra la provincia di Lombardia, da levarsi principalmente dai ricchi e dai Corpi ecclesiastici. Una sùbita, nera ondata di malcontento sorge, si diffonde. Il 23 maggio, si tenta di suonar campana a martello a due limiti opposti della città per farla insorgere: a Sant'Eustorgio e a San Gottardo; ma il parroco di quest'ultima chiesa presso il Duomo e altri cittadini lo impediscono, per evitare l'immancabile sanguinosa reazione militare. A porta Ticinese, in quel giorno stesso avviene una sommossa, ma effimera. Un giovane popolano, Domenico Pomi, accusato di avervi avuto parte e d'«aver voluto assassinare» un sergente francese, è condannato e fucilato il 26 maggio sulla piazza del Mercato fuori di porta Ticinese.
Ad alcuni cittadini si strappano le coccarde francesi dal petto, dal cappello; ma i soci del club repubblicano detto «Società popolare», che ha sede in via Rugabella, vogliono vendetta e irrompono, si spargono minacciosi per la città; fanno gridare da cenciosi prezzolati morte ai nobili, ai frati, ai re! Insultano tutti quelli che non sembrano dei loro. In piazza del Duomo è un pandemonio. Si viene alle percosse, alle ferite. La notizia del tafferuglio cruento si sparge rapidamente per la città ed eccita altrove gli animi e le voci. Il comandante Despinoy corre in piazza a cavallo, scortato da una squadra di dragoni; scorre al galoppo le strade, ne scaccia i passanti, fa arrestare e percuotere a piattonate di sciabola i renitenti. Il tafferuglio alla fine è sedato, ma i soldati francesi hanno bisogno di pipe!... Requisizione, adunque, di tutte le pipe. E sentono pure il bisogno di misure vendicative per salvare l'onore della bandiera.
Un pover'uomo, certo Giuseppe Pacciarini, l'anzian (addetto ai funerali) del Duomo, viene condannato, perchè reo convinto e confesso (così la sentenza) d'essere capo della rivoluzione che ha avuto luogo il 4 pratile (23 maggio).
Al disgraziato, avvezzo a guidare autorevolmente pomposi funerali della Metropolitana, toccano ben tristi funerali!... Vien fucilato, insieme con un assassino, assassino da molti anni!.... «Non pare (dice un cronista) che il Pacciarini fosse tanto colpevole; e non si sa con certezza chi abbia tramata e condotta quella rivolta.»[8]
Le feste intanto seguivano alle feste. Il 22 settembre, gran festa commemorativa per l'anniversario della «Repubblica madre», leggi Repubblica francese. La prima legione lombarda di truppe cisalpine poco dopo è passata in rassegna sulla piazza del Duomo; riceve la bandiera tricolore e muove al campo; cominciando quell'epopea militare italica, che ci temprò i polsi, è vero, ma seminò i campi di battaglia delle salme di giovani valorosi, che potevano spezzare le catene della madre, l'Italia!
E altra festa (il 9 luglio 1797) nel vecchio lazzaretto degli appestati, convertito in campo di Marte. S'inaugura con fastosa e clamorosa solennità la Repubblica cisalpina. Quattrocento mila persone vi si affollano. Nello stesso giorno Napoleone istituisce il Direttorio esecutivo; tutte cose copiate dalla «Repubblica madre».
La popolazione, sulle prime sbalordita del subitaneo fragoroso cambiamento, e diffidente, finì con l'accettare il mutamento. Parecchi ne erano, anzi, beati, esaltati; fra essi il duca Galeazzo Serbelloni, che diventò presidente della municipalità. Quel duca imbandiva lauti banchetti a ogni momento. Lo chiamavano il «duca-cuoco». Specialmente le donne, come avviene nei sùbiti mutamenti politici, si esaltarono. Si accendevano a quella fantasmagoria di colori, al chiasso dei soldati francesi, di quei
Quatter strascion senza camisa,
Senza sciopp, senza divisa,
Senza scarp, senza calzett,
ma pieni di vita, di brio indiavolato. Un'altra satira cantava con verità:
Esopo dì che, in sto pajes,
In staa prima i donn
A portà l'eguaglianza di Franzes.[9]
Le vie, prima tranquille, erano messe a rumore. In piazza del Duomo, e in altre piazze, al suono delle bande s'inaugurarono gli «alberi della Libertà», sormontati da un berretto frigio rosso. E allora si videro le scene più sfrenate, più sconce, che si potessero ideare. Fratacci e pretacci appesero all'albero le loro lunghe barbe tagliate e le loro tonache, e, intorno, uomini e donne discinte, in catena, si trascinavano ballando e urlando: Viva l'eguaglianza! Si videro signore di liberi costumi, mezzo denudate, ballare trascinate da demagoghi furibondi: sì, signore, anche belle, formose, che apparivano pure, mezzo nude, secondo l'ultimo figurino di moda, nelle loro loggie al teatro della Scala, dove la Marsigliese si suonava e cantava in coro. In piazza della Rosa si tenevano riunioni demagogiche clamorosissime, con urli di morte al papa, ai cardinali, ai vescovi e arcivescovi, preti, frati.... Una ragazza, Sangiorgio, figlia d'un chimico, offerse la propria mano a chi le avesse portato la testa del papa. «In quel club (narrava nei suoi tardi anni il Manzoni, nel crocchio della sera fra intimi amici, alludendo alla Società popolare di via Rugabella), in quel club se ne dicevano e proponevano delle belle! C'era, tra gli altri, la demagoga Sopransi, che era brutta e gobba, ma rivoluzionaria ardente e anzi pazza: e un giorno, in odio al re, propose che nel mazzo da tarocco la figura della regina non si chiamasse più la regina, ma.... «La gobba!» gridò, interrompendo, una maschia voce, in buon milanese e con molto buon senso. E la cosa finì in una risata universale.»[10]
«In uno di quei circoli (racconta alla sua volta Cesare Cantù) un gran patriotta, gran livellatore, che più tardi fu scudiere di Napoleone, poi delegato sotto gli Austriaci, poi intendente sotto i Piemontesi, propose si demolisse la guglia del Duomo. «L'eguaglianza è il primo diritto; non deve dunque soffrirsi che un edificio si elevi sopra gli altri della città». Così diceva in tono di puritano e colle dita tese; e gli ascoltanti ad applaudirlo e gridare: «Abbasso la guglia del Duomo!»
«Era presente un buon meneghino, che aveva imparato da sua madre a voler bene, e da suo padre a non opporsi al male: e, chiesta la parola, lodò il civismo, il patriottismo del preopinante, ma chiese perdono se osava far un'altra mozione: ed era «di metter a quella guglia il berretto rosso, e così sarà visibile per estesissimo tratto quale simbolo della libertà che acquistammo dopo secoli di orribile tirannia»
«Sì, sì! bravo, bravo!» urlarono gli ascoltatori, e la guglia restò salva, aspettando livellatori più radicali.»[11]
Ma si voleva abbattere addirittura il Duomo! I più miti fra gli arruffoni, venuti dal di fuori, e che nulla sapevano del sacro amore degli ambrosiani per il loro tempio, sublime monumento di fede avìta e di storia, volevano trasformarlo in uffici pubblici; ma compresero che si andava contro sentimenti, dei quali era imprudente, per lo meno, non tener conto cauto e rispettoso. Si pensi che, nel Duomo, si affollavano attoniti ogni giorno densi gruppi di contadini; i quali scendevano dalla campagna per vedere anch'essi, almeno una volta nella loro misera vita, el Domm meraviglioso, del quale avevano udito parlare sin dall'infanzia come d'un portento più che umano. Lady Morgan, nella sua Italy, parla di quei contadini raggruppati in famiglie, seduti in estasi prolungate.
In piazza del Duomo era stata eretta, accanto all'albero della libertà, una tribuna con un enorme stendardo nero (roba allegra), nel quale leggevasi in lettere bianche l'annuncio sintetico di tutti i discorsi che si dovevano tenere alle turbe: Diritti dell'uomo. Ma nel club in via Rugabella c'era un'altra tribuna; e in quella salì tremando un grande poeta: Vincenzo Monti. Ma lasciamo narrare ad Alessandro Manzoni, le cui parole furono religiosamente raccolte anch'esse da uno dei suoi adoratori devoti:
«Il barone Ferdinando Porro, che fu prefetto sotto Napoleone, e del quale, non ostante la differenza dell'età, io fui amico (diceva il Manzoni), mi raccontava che, quando nel 1798 il Monti venne a Milano, dove prima per mano del boia era stata abbruciata in piazza del Duomo la sua Bassvilliana, si presentò a lui, che era allora uno dei capi del club repubblicano, pregandolo d'introdurlo in quel club per leggervi un suo sonetto: e il Porro acconsentì. Io salii sulla tribuna, egli mi raccontava, e dissi: Cittadini, al piede di questa tribuna vi è il più gran poeta d'Italia che chiede di recitarvi un suo sonetto: volete sentirlo? — Sì, sì, si gridò da ogni parte. Allora io scesi dalla tribuna, e andai a prendere il Monti: la sua mano tremava come una foglia. Lo trascinai su per la tribuna, ed egli recitò il famoso sonetto, in cui dice che la Repubblica cisalpina aveva
Di Sparta il senno col valor di Roma.
Applausi frenetici; e da quel giorno il Monti divenne il poeta della Rivoluzione.»[12]
Pochi anni dopo, Carlo Porta mandava alla suocera, Camilla Prevosti, alcune sue sestine italiane non eleganti, — tutt'altro, — ma riflessi di quella baraonda demagogica:
E chi lo sa che un giorno non diventi
Qualche signore anch'io d'importanza?
A buon conto sto bene assai di denti,
Ho bastante presenza ed arroganza;
Malcreato, mendace, sprezzatore
Mi farò poi col diventar signore.
Ah! con doti sì belle, egli è un peccato
Che quel tempo prezioso sia trascorso,
In cui bastava ad essere ammirato
Crin mozzo, gran berretto e voce d'orso;
In cui quanto più eri manigoldo
Ne ritraevi onor, rispetto e soldo.
Ah se fosse quel tempo! per Milano
Mi vederebbe correre severo
Con tanto d'occhi e la sciabola in mano,
Gran flagello dei nobili e del clero;
Ma quel tempo felice oggi è passato,
E sol oggi il mio spirto è sviluppato.
Nè oggi mancherebbonmi i talenti
Di volger per rovescio la medaglia,
Massime cogli esempi ognor presenti
D'una quantità simil di canaglia,
Ch'oggi Gracchi corcârsi, e all'indomani
Tigellini si alzâr, Planzj, Sejani.
Specchio fedele di quei figuri e di quel tempo rimangono i giornali; funghi velenosi spuntati da un terreno fracido. Parliamone.