Читать книгу Carlo Porta e la sua Milano - Raffaello Barbiera - Страница 9

VI.

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Carlo Porta a Venezia. — Suo impiego, sua miseria, sue spensieratezze. — Venezia dopo la caduta della Repubblica. — Società gioconde. — Quella di Carlo Porta con l'intervento della Polizia. — Carlo Porta e i grandi poeti dialettali veneziani. — Le voluttà di Antonio Lamberti. — Una coraggiosa satira civile del Buratti. — Degenerati e degenerate. — Carlo Porta è muto agl'incanti di Venezia. — Poesie veneziane del Porta? — Amori d'una patrizia veneziana col poeta. — Rivali. — L'abbandono. — Come amava Carlo Porta. — Sue drammatiche gelosie. — Sua vita di pubblico impiegato. — Un aneddoto.

Al padre di Carlo Porta doleva che questi consumasse i giorni nell'ozio, e lo consigliò d'andare a Venezia, a quell'archivio delle finanze, come impiegato.

Era il 1798 quando Carlo lasciava un'altra volta la famiglia per la città delle lagune dove, giovane e brioso com'era, liete accoglienze non gli potevano mancare, nè brigate allegre, nè passatempi. Eppure vi andò di malavoglia, e vi trasse giorni angustiati. Le lettere che manda da Venezia alla famiglia sono quasi tutte lamentevoli. Uno Zuccoli assumeva colla Repubblica cisalpina, a nome di certo Gaetano Borella, un contratto, impiantando a Milano una vasta amministrazione; e Carlo Porta desidera ottenervi un posto migliore di quello in cui il padre lo ha collocato a Venezia. È sempre corto a quattrini; e arriva a scrivere al fratello Gaspare: «Mando al Monte di Pietà il mio tabarro e mi lusingo che avrò da vivere così un'altra settimana».

La Serenissima Repubblica era caduta: al folle lusso di tante spensierate famiglie era successa la miseria: eppure il brio, el morbin, degli abitanti non era scomparso. Da una lettera, conservata alla Quiriniana,[18] veggo la triste pittura che della decaduta Venezia il poeta della Tunisiade e delle Perle dell'Antico Testamento, il patriarca Pyrker invia all'imperatore Francesco I. In quell'arsenale glorioso, che ferì un giorno la fantasia di Dante, l'anno stesso dell'ignominiosa caduta della Repubblica (1797), erano tremila e trecento gli operai: e in breve ne restarono soli settecento. I gondolieri presso le famiglie patrizie, in quello stesso anno, erano millesettecentonovantasette, e in breve ne rimasero dugento e novanta. La poveraglia tendeva le palme ai passanti. Eppure le sagre erano ancora numerose, allegre, colle bandiere svolazzanti dai mille colori, co' fieri ritratti di barcaiuoli vincitori nelle regate, con cembali e trombe squillanti, e scampanìo festoso. Si proibivano i giuochi d'azzardo, ma si apriva il teatro La Fenice alle voluttuose veglie carnevalesche. Le belle figliuole di Canaregio non portavano più attorno al collo roseo le fini collane d'oro, i manini, ma, sbattendo sdrucite pianelle, salivano i ponti di pietra con lo stesso sorriso, col medesimo regale incesso di ieri. Nei luminosi vesperi estivi, sulla laguna smagliante, si banchettava, si cantava nelle barche adorne di frasche e di pendule lanterne colorate.

Carlo Porta, in quel carnevale, si trovava nella necessità di partecipare alle baraonde giulive e sciupava in una sola sera lo stipendio d'un mese. Voleva mostrarsi generoso con amici e anche con gente sconosciuta cui pagava all'osteria pranzi e cene: voleva darsi l'aria d'un signore: confessava al fratello Gaspare che delle tante lettere raccomandatizie delle quali era fornito non volea servirsi, per non sembrare pitocco. Divenne persino capo d'una società di capi ameni, detta della Ganassa, perchè avea lo scopo di mettere in moto continuo le ganasce, a mense lautamente imbandite.

La polizia, sospettosa, come tutte le polizie che si rispettano, s'era fitta in capo che quei buontemponi si raccogliessero a congiurare contro lo Stato. E un giorno entrò d'improvviso nella sala del cenacolo della ganassa, e la perquisì per ogni buco. Restava da esaminare l'interno d'un antico armadio; ma era chiuso con doppia chiave. Ciò accrebbe i sospetti.

— Aprite! — intimò al domestico il capo della pattuglia.

No gavemo le ciave, sior! — gli rispose il servo.

— Non avete le chiavi? Cercatele! —

Alcuni momenti dopo, ecco si presenta Carlo Porta. Cammina lento, con aria misteriosa. Adagio adagio apre l'armadio entro cui si sospettavano celati armi ed armati come nel cavallo di Troia; ed: — Esamini pure l'eccelsa polizia — dice con voce ferma — esamini pure ogni pezzo, diligentemente. —

Era una collezione di gusci d'ostrica, e un ammasso di ossa di pollo, tutti avanzi delle mense, ivi raccolti, come in museo. Scoppiò una risata; la Società della Ganassa festeggiò l'evento con un altro simposio; e, forse il giorno dopo, Carlo Porta scriveva al fratello quel biglietto rattristante: «Vessato intanto dalla fame e dalla paura di fare una trista comparsa col padrone della mia casa per l'impossibilità di corrispondergli l'altra pigione di fitto....»

Tommaso Grossi, il più intimo e caro amico di Carlo Porta, ci dice in alcuni cenni biografici che il Porta a Venezia, avendo conosciuto alcuni poeti dialettali veneziani, «per la prima volta sentissi bollire fortemente in seno il desiderio di far versi». E noi dobbiamo credergli. Ma dobbiamo anche ricordare che, prima ancora di ricevere quelle impressioni determinatrici del suo genio, Carlo Porta aveva verseggiato a Monza e a Milano; sappiamo che, a vent'anni, aveva cominciato a tradurre in milanese l'ode del Parini A Silvia.

Il Porta aveva conosciuti a Venezia gli almanacchi che Antonio Lamberti andava pubblicando, ingemmandoli delle sue vernacole Stagioni campestri e cittadinesche, pitture vivide e fedeli dei costumi veneziani, nelle quali si sente (chi lo crederebbe?) un anticipato lamento socialista. E, tornato a Milano, Carlo Porta volle pubblicarne qualcuno anche lui, in milanese.

Allora spirava vento propizio agli almanacchi. Ne uscivano a stormi, in vernacolo e in lingua, coi titoli più stravaganti, e il pubblico li comperava perchè conditi di satira. Un almanacco censura le mode di allora, le vesti muliebri così aderenti alle cosce che un professore d'anatomia potrebbe rilevare ogni muscolo, quasi ogni fibra; biasima le nudità dei seni: ride delle scarpe «piccole come un sospiro». Al teatro alla Scala, le dame calano le cortine misteriose de' loro palchetti colla scusa di ripararsi dal freddo?... È un almanacco a ricamarvi su storie maligne. L'Almanacco degli almanacchi li passa tutti in rassegna. Nella Biblioteca Ambrosiana n'è raccolto un cumulo; ma vi si trovano forse i due almanacchi che il Porta scrisse in milanese? Non esistono nemmeno nella libreria lasciata dal poeta; e nelle numerose sue carte, non ve n'è traccia. Tutte le ricerche mosse per averli nelle mani riuscirono vane. O rondinelle smarrite, come vi chiamavano almeno? Forse: Il Meneghino critico? Era, è vero, un almanacco in versi milanesi, ma lo scarabocchiava un Sommaruga, scempiato e stentato verseggiatore, che volea farla da moralista. El Lavapiatt de Meneghin ch'è mort era anch'esso del bel numero uno; ma reca la data del 1792, e il Porta non scriveva così male in milanese. La Gran Torr de Babilonia? Oppure El Verzee de Milan? Nemmeno. O Il borgo degli Ortolani? Quest'è del '94; e non è del Porta. L'ombra del Balestrieri in cerca de la veritaa, ch'è del 1800? El servitor de la bon'anema del pover poeta Balestrieri, del 1804? El Caffè de la Reson, del 1805? Oppure Meneghin Peccenna?

Rimane assodato che i primi tentativi del Porta nel patrio dialetto furono due almanacchi. «Ma (narra il Grossi) essendo stato fieramente e scurrilmente satirizzato in un altro almanacco scritto pure in dialetto, e credo da un parrucchiere — almanacco il quale, quantunque privo affatto d'ogni merito, godeva però a quei tempi qualche favore a motivo dello sfacciato e plateale ardimento con cui era scritto — il Porta s'indispettì talmente che depose il pensiero d'esser poeta, e stette molti anni fermo nel proponimento che aveva fatto di non prender mai più la penna per scrivere un verso; ed ecco come le goffe e petulanti contumelie d'un ciarlatano pervengano qualche volta a soffocare il genio e a stornarlo dalla sua via.»

Più tardi nell'ardore della battaglia a favore del Romanticismo, un almanacco d'un classicista dottor Paganini, lo attaccava, ma di ciò a suo luogo.

Nei brillanti bagordi di Venezia d'allora, al Caffè Florian, covo d'implacabili eleganti maldicenti, o alla trattoria del Salvàdego, a San Marco (vi pendeva per insegna un pelosissimo selvaggio dipinto), Carlo Porta avrà incontrato il maggiore dei poeti veneti dialettali, il terribile satirico Pietro Buratti, anch'egli giovane allora, elegante nella veste, mordace nella parola; tanto mordace che pose in satira persino il proprio padre, commerciante ricchissimo, il quale, irritato, lo diseredò, privandolo d'una rendita annua di tremila e più ducati e d'un palazzo a Bologna.

Carlo Porta deve avere conosciuto a Venezia un altro poeta, Camillo Nalin, ch'era impiegato computista in un ufficio governativo. E vi conobbe, forse, il patrizio democratico Iacopo Vincenzo Foscarini, che si firmava el barcariol. Il Nalin sereno, scherzoso; il Foscarini ardente d'affetto per la sua Venezia. E il Porta si sarà incontrato nell'autore della famosissima Biondina in gondoleta che, musicata dal maestro Mayr, si cantava al chiaro di luna sotto il ponte di Rialto, lungo il Canal grande e nelle sale più aristocratiche delle capitali d'Europa, tanto piacque quella maliziosa, voluttuosa cantilena, scritta per la briosa corrottissima Marina Querini-Benzon; laddove Antonio Lamberti compose poesie, se non più graziose, ben più rilevanti di quella barcarola, che lo rese celebre.

Pietro Buratti, come poi Carlo Porta, compose poesie oscene; ma egli si servì dell'oscenità per frustare vizi ridicoli, brutture morali. Egli le recitava in una allegra società detta Corte busonica, nella quale sedette, per qualche tempo acclamatissimo, Gioachino Rossini, vero re dei buontemponi giocondi. La Corte busonica era sorella maggiore della portiana Società della ganassa; banchetti, e celie sboccate, e risa, e scherzi pepati la rallegravano. Le studiate, raffinate corruzioni, i sapienti e complicati piaceri, le aberrazioni, proprie di questo nostro tempo avido di sensazioni artificiali e perverse, non solo non erano compiute da quei gaudenti del giorno per giorno e dell'occasione grossolana e chiassosa; ma il Buratti, che non avea peli sulla lingua, lanciava le sue impetuose satire atroci contro coloro che imbestialivansi in immonde aberrazioni. Le sue strofe contro una ebrea pervertita, contro una cantante degna di lei, contro rammolliti patrizi degenerati, giravano pei caffè, suscitavano risate, scandali; e intanto i rei erano inchiodati alla gogna.[19]

Quelle poesie devono essere piaciute, per affinità di gusti, a Carlo Porta, come piacevano al Rossini, come andavano a sangue allo Stendhal che loda il Buratti nel volume Rome, Naples et Florence.

Ma Pietro Buratti ebbe momenti grandiosi. Spiegò un civile e non immune coraggio, come poeta satirico, che Carlo Porta, prudente, non ebbe mai; e in un'ode per la morte d'un suo bambino, tentò nell'angoscia paterna di scrutare il perchè degli strazi inflitti da un destino crudele a poveri bambini infermi e morenti: ardita filosofia, alla quale non arrivò mai Carlo Porta; che tuttavia superava il Buratti nella vivezza dei profili comici, nell'espressione del linguaggio pittoresco, nell'arte, soprattutto: arte, che nel poeta milanese sembra la stessa natura che parla, che agisce.

Il 3 novembre 1813, le lagune erano bloccate dagli Austriaci e dagl'Inglesi alleati, che prendevano la rivincita su Napoleone, contro il quale ormai tutta la Germania allora si sollevava. Il principe Eugenio Beauharnais era respinto dagli Austriaci vittoriosi sino alle rive dell'Adige. E, intanto, a Venezia, il generale Serras, successogli al governo, imponeva, con un tratto di penna, ai cittadini un prestito di due milioni, da pagarsi entro ventiquattro ore. I commerci, già consunti, precipitavano a rovina, famiglie già agiate erano ridotte a elemosinare all'ombra, sui ponti; miseria, fame, sete; mancava l'acqua nei pozzi; il tifo mieteva le vittime a centinaia. Discordie tra il prefetto di Venezia, barone Francesco Galvagna, col Serras, baruffe da piazza; per cui le condizioni della città diventavano, se pur era possibile, più penose. E Pietro Buratti, buon veneziano, ne fremeva. A un pranzo, dato dal prefetto Galvagna, egli lesse e recitò una sua ode fulminea contro gli stranieri invasori e ladri, contro la feccia democratica francese e contro gl'inganni di Napoleone. Il Buratti si buscò tre mesi d'arresto per quella satira, che rimane la più possente, la più alta nella letteratura civile dei dialetti d'Italia.

E quel poeta civile e filosofico, e satirico implacabile, componeva anche canzonette veneziane, piccoli capolavori di malizia sorridente e di grazia; e riempiva quaderni e quaderni di versi fluenti, sgorgati da un estro ridanciano inesauribile, saettando contro questo e contro quello. Il suo crudo poemetto L'omo ha parti mirabili.

Tale il poeta maggiore che il Porta deve avere conosciuto a Venezia e che, a quanto pare, gli servì d'esempio, come vedremo nei confronti parziali; eppure nè di lui, nè d'altri poeti veneti nessuna traccia, nessun ricordo resta nelle carte del poeta milanese.

Nel carteggio colla famiglia, nemmeno una parola sulle singolarità, sulla magìa di Venezia. Neppur una! E nessun cenno altrove. Come mai un giovane poeta poteva rimanere insensibile a tanta bellezza? Egli si abbandonava alla gastronomica società della «ganassa» e mostra di non accorgersi degl'incanti dell'arte e della natura che lo avvolgeva? Sono eclissi estetiche, che, nei temperamenti portati alla satira, possono avvenire. Ma il peggio è che il giovanotto mostra di non accorgersi delle splendide formosità e delle caratteristiche grazie femminili di Venezia!

Carlo Porta, giovane, libero, non ebbe per amante a Venezia una giovane bella; ma una donna matura.

Il Grossi dopo aver detto che l'amico suo fece a Venezia «la conoscenza di alcuni coltivatori di quel dialetto, ed ebbe occasione frequente di ascoltare poesie vernacole», soggiunge: «Ivi fu che per la prima volta sentissi bollire fortemente in seno il desiderio di far versi: ne scrisse di fatto alcuni in veneziano sopra argomenti festevoli, ma non furono da lui conservati; egli solea dire che non valevano la pena di esserlo».

Nei manoscritti di lui non trovo, infatti, traccia di poesie veneziane. Nemmeno nella raccolta del Cicogna, conservata al Museo Correr di Venezia, dove quel diligentissimo radunava tutto ciò che di notevole gli cadeva sotto gli occhi, ho trovato ombra di ricordi portiani. Venezia non conserva memoria del soggiorno ivi tenuto dal Porta. Le ricerche, per sapere dove abitasse il poeta lombardo riuscirono vane. Il registro d'anagrafe non poteva, in quel tempo, che essere irregolarissimo per i continui mutamenti di governo, per il tumultuario irrompere e scomparire di gente nuova. D'altra parte, il poeta milanese, allora giovane oscuro, non attirava la speciale attenzione de' concittadini del Goldoni.

O povera Andriana Diedo-Corner! Che amore fu il tuo per il bel giovanotto milanese fiorente nella freschezza de' suoi giovani anni! Egli aveva aspetto simpatico: i capelli nerissimi, ricciuti, e gli occhi neri, vivi, sormontati da sopracciglia lunghe e vellutate, e denti come perle. Al modo dell'Alfieri, del Foscolo e del Manzoni (il quale, a diciotto anni, per dirla di volo, s'innamorava egli pure d'una signora veneziana), il Porta cominciò in un sonetto a ritrarre sè stesso: è un frammento nel quale egli si dipinge qual era, nè troppo breve di statura, nè tanto sottile, di tinta pallida e delicata:

Sont on omm nè tropp nan, nè tropp gugella,[20]

Sto per dì più ben faa, che nò malfaa,

Sont magher, senza vess ona sardella,[21]

Sont palid de color, e delicaa.

Ghoo la faccia bislonga e gho i zij negher,[22]

E ghoo negher i cavij, la barba negra,

Negher i œugg anca lor....[23]

La Diedo, vedova d'un patrizio Corner, apparteneva ad una delle undici nobili famiglie Corner che, al cadere della Repubblica, erano disseminate in diverse parrocchie di Venezia. Abitava a San Paterniano, presso la casa che fu poi del glorioso dittatore Daniele Manin nel 1848. Non ricchissima, viveva peraltro con agiatezza. Non era più giovane, ma si lasciava corteggiare, e i cavalieri non le mancavano. Dell'insigne cultura della sua contemporanea Cecilia Corner non possedeva briciolo: aveva in compenso cuore capace di buoni e durevoli sentimenti. Ella amava il bel Porta con quella tenace e pur troppo spesso funesta passione con cui le donne mature, appassionate, s'avvincono come edere ai giovani.

Ignorasi quale soprannome gli oziosi maldicenti del Caffè Florian le appioppassero. Un codice della Marciana[24] reca i soprannomi inflitti a parecchie dame d'allora. Una Romilde Bon era chiamata addirittura «la fiera di Sinigaglia». Una Fontana Vendramin era detta «lo scheletro di santa Maria Maddalena». E una Teresa Corner-Duodo «le affumicate immagini de' suoi maggiori», e via via. La Diedo-Corner è risparmiata.

Questa buona dama veneziana incontrò il Porta in casa dell'amico conte G. Pozzi, marito d'una contessa Secchi. Al Pozzi cui si doveva, a Venezia, l'impianto degli uffici delle finanze, fu raccomandato Carlo Porta, e non invano, poichè questi non tardò a ottenere impiego in quegli uffici e a frequentare la casa del protettore.

Fu il Pozzi stesso che si affrettò a presentare il simpatico giovane milanese alla Corner; la quale lo invitò a visitarla, e lo avvolse ben presto nella sua fiamma amorosa.

Ma questa passione, mentre deliziava i due amanti, irritò al sommo il povero conte, il quale accampava diritti nel cuore della Corner, e non soffriva rivali. Ecco ciò che Carlo Porta confidava al fratello Gaspare in una lettera:

«Pozzi si è avveduto della mia amicizia colla nota dama, ad onta di tutti i riguardi usati per celargliela; ed è diventato una vera bestia. Buono per me ch'egli non fu lusingato d'altro dalla medesima che d'una pura amicizia, e che siamo perciò in grado di riderci delle di lui insolentissime stravaganze. Egli mi ha scritto una lettera impertinente con cui, rinfacciandomi le obbligazioni che avevo verso di lui, mi tacciava d'ineducato sovvertitore della di lui amicizia e m'imponeva di guardarmi d'ora innanzi dal porre più piede nella di lui casa. L'eguale intimazione l'ebbe pure la mia compagna; e noi siamo entrambi decaduti dalla sua grazia per il delitto d'averlo tollerato con mille riguardi e sacrifizi durante il tempo ch'egli si studiava d'inspirare amore all'una, col tentare di scacciarne l'altro, che godeva sopra di lui una simpatica preminenza ed una anteriore amicizia. Martedì vi compiegherò un plico di lettere dal medesimo dirette alla dama, e viceversa; dal quale rileverete a chiare note quale animo cattivo egli copra col velo d'una insinuante bonomia. Io gli ho risposto per le rime.»

Il Pozzi, pover'uomo, avrà capito che compariva ridicolo colle sue furie da Otello arrivato in ritardo. Deluso, non gli restava che mostrare indifferenza. Ma andò più in là: si mostrò pentito delle feroci gelosie, e continuò a invitare a pranzo la Corner e il proprio rivale, a farli padroni della sua casa e della sua tavola. Non poteva mostrarsi più celestiale.

Per il Porta, ogni nube non era dissipata. Egli ebbe la debolezza di confidare i propri amori a un falso amico, a certo F. Busto, il quale lo rese ridicolo nelle brigate: peggio ancora, arrivò al punto di calunniarlo, forse per invidia. Sentiamo lo stesso poeta in un'altra lettera espansiva a Gaspare; lettera che rivela quanto era ingenuo e poco corretto allora.... anche nello scrivere l'italiano:

«Carissimo fratello,

Tutti li guai col C. P. (conte Pozzi) sono ottimamente terminati. La sua condotta presente è quella dell'uomo ravveduto, e per conseguenza la più consolante tanto per me quanto per la nota dama. Noi siamo entrambi padroni della sua casa, della sua tavola: ci visita spesso con la più grande cordialità ed amicizia, ed io vi scriverei forse da casa sua, se un preventivo impegno non mi avesse fatte rifiutare oggi le di lui grazie. Credevo insomma il tutto a buon porto, quando invece mi trovo in faccia a tutto il paese un nemico più feroce nel F. B. (Busto). Una sincera confessione dell'avvenuto fra me e la dama, che la mia soverchia delicatezza ha voluto fargli, e che era stata da lui accolta con una superiorità ed indifferenza estrema, m'aveva lusingato che non avrei incontrato più alcun ostacolo ne' miei amori, ma mi sono ingannato: invece che all'uomo di mondo io ho fatte le mie confidenze al primo minchione, ed alla prima bestia che si possa conoscere. Sono tre giorni ch'egli parla di me, e della dama in una maniera che non si parlerebbe di una prostituta a prezzo, e del più vile ruffiano di questo mondo, ed ha l'impudenza di fare con chiunque li capita un trionfo del di lui ineducato e mal onesto procedere. Tutte le accuse che mi fa sono un impasto di menzogne, di contraddizioni e frivolezze. Fortuna mia che quanto è superiore ad ogni eccezione in paese la dama, altrettanto è desso conosciuto e distinto in stravaganza di cervello e di operato; per il resto, guardimi il Cielo, io sarei l'uomo più infame del mondo, se si badasse alle sue dicerìe. Che volete dippiù? Protesta e giura che mai più mi vedrà di buon occhio, e che mai mi sarà amico se campassi cent'anni: diffatti, mi fugge da per tutto, mi guarda con occhio fiero, e mi fa accorgere che al finire dell'attuale locazione di questa nostra casa, si determinerà a viver solo. Che il Cielo lo faccia! Io vi giuro che non mi sento reo di nessun delitto verso il medesimo, fuorchè di aver avvicinata una dama che merita tutti i riguardi per tutti i rapporti, e da esso vilmente e fuor di ragione maltrattata. Se questo è il titolo della nostra dissensione, io ne sono tranquillissimo, perchè assai vantaggiosamente compensato dalla amicizia della medesima. Io allora farò più a lungo con essa la mia vita, e più da vicino, postochè nella di lei casa ho aperta da un momento all'altro la mia. Questa è tutta la dolorosa istoria mia, e della dama: esaminatela a fondo; datemi voi quei pareri di cui non è capace in questo momento la mia testa riscaldata; e vi assicuro che ne approfitterò con l'istesso trasporto col quale bramo ognora giustificarmi presso di voi nelle mie vicende.»

La passione, come si vede, accecava il giovanotto; lo traviava, senza ch'egli in quella calda febbre se n'accorgesse neppure. La Corner lo invita nella vicina Padova in un'altra sua casa; ed egli vi accorre, mentre pensa a rompere ogni laccio e a tornarsene a Milano. A Gaspare, il quale era già entrato in corrispondenza colla Corner avendola conosciuta in una gita fatta a Venezia, scrive premuroso:

«Favorito dalla dama Corner, mi trovo con essa in Padova da due giorni.... La dama vi contraccambia i più cordiali saluti. Se le scrivete, non ditele per carità ch'io bramo di ripatriare!»

A Venezia non celebravasi festa alla quale egli non accompagnasse l'amica sua. Nella sera dell'8 febbraio 1799, le sale della Società degli Orfei risonavano di musiche e di canti: qualche giorno dopo, baldorie a Santa Maria Mater Domini per festeggiare la nomina del vecchio cavalier Pesaro, commissario straordinario dell'imperatore austriaco; il re dei coreografi e ballerini, Salvatore Viganò, deliziava al teatro della Fenice tutti quanti.... Per codesti spassi, occorrevano quattrini, e il Porta, al verde, si trovava costretto a ripetere la solita malinconica cantilena:

«Caro Gasparino, nello scorso mese io ho provato la miseria più grande, e se non avessi fatta la faccia franca coll'approfittare degli amici, io sarei stato al duro caso di mangiare pane e acqua. Oggi ho scosso il mio salario, ridotto già alla metà dai debiti pagati e da qualche effetto disimpegnato. Insomma, credetemi che, anche colla più esatta economia non mi è assolutamente possibile di vivere col solo mio soldo.»

E più tardi, collo slancio esclamativo d'un futuro bohème del Murger: «Oh beati dodici zecchini! con quanta impazienza gli aspetto».

Ma i denari non venivano, la guerra degli Austro-Russi contro i Francesi (ne parleremo presto) impediva le comunicazioni fra Milano e Venezia. Le lettere erano violate, i corrieri saccheggiati.

Nel 31 luglio, dopo un lugubre cannoneggiamento che sentivasi in più parti della vicina terraferma, il giulivo suono delle campane di tutte le chiese di Venezia annunciava che Mantova «il baluardo d'Italia (così esprimevasi il servile Nuovo Postiglione, giornale di allora) aveva ormai ceduto all'immortale Kray». E, in quella sera, illuminazione del teatro a S. Luca; dappertutto luminarie, dappertutto musiche e cene. Al canto del Te Deum, sotto le cupole d'oro di San Marco, assistevano per ringraziare il Dio degli eserciti austriaci gli ufficiali dell'ex-esercito veneto! E a tali feste Carlo Porta partecipava colla Corner a braccetto. «Sabato (scriveva al fratello) vi scriverò per rapporto a B. Oggi, la festa pubblica per la resa di Mantova non mi permette estendermi di più, dovendo accompagnare la nota dama a godere della comune esultanza.»

Avvicinavasi il giorno che Carlo avea fissato di abbandonare Venezia per Milano, dove lo richiamavano il desiderio di vita più agiata e gli affetti domestici, e nel cuore della gentildonna tempestano vere angosce, deliri. Fa pietà.

Ella non può distaccarsi dall'amico, il quale le porta affetto, ma non così serio che a lei debba sacrificare tutta la propria gioventù e il proprio avvenire. Nel 10 settembre di quell'anno egli lo confessa candidamente, a Gaspare, con questa lettera punto sentimentale:

«La Corner, che vi scrive, vi farà abbastanza capire, senza che io parli, le novità del giorno. Essa ha saputo ch'io devo partire, ed è nella massima desolazione. Io, per verità, le voglio bene; ma l'amore anche per questa volta cede al mio interesse. Vorrei tranquillizzarla, e non posso, e forse voi ne avrete sentita la di lei disperazione.... Io ho finito col prometterle, giurarle e stragiurarle che al morire di mio padre ritornerò a Venezia per convivere con lei, e che lo farò poi anche prima.... Voi, nel risponderle, potreste lusingarla sull'effettuazione del progetto. Così essa non perderebbe la premura per noi, che ci può essere utile, e non mi darebbe di quei disturbi che cavano l'anima. Basta, tocca a voi, e mi raccomando. Vi abbraccio. Addio.»

Ma, al momento del distacco, l'affetto in lui si ravviva; e lo fa gemere.

«Vi confesso, caro Gasparino, che non mi sarei mai immaginato che il distacco da Venezia mi dovesse costar tanto. Ogni dì che passo, mi accorgo sempre più dell'attaccamento non equivoco della dama, per cui non posso essere indifferente. Essa mi esibisce mantenermi a di lei spese; vuol fare un testamento a mio favore se mi trattengo; promette trovarmi impiego, piange, strilla, si dispera, ed io qualche volta, per dirvi la verità, la imito perfettamente. Nullameno, sono duro nella mia risoluzione come un marmo, e pretesto doveri imprescindibili per partire. Infine, per acquietarla, ho dovuto giurarle e prometterle quello che il tempo le farà dimenticare, ch'io le ho giurato e promesso. Le ho detto che col diventare io padrone di me ritornerò senza alcun dubbio da lei; che farò delle scappate di tanto in tanto a Venezia, e che, in somma non vivrò che per lei. Succederà poi quello che dovrà succedere.»

Egli illudevasi che «come donna e come veneziana» essa lo pregasse presto di non mantenerle la promessa. Come si ingannava! Carlo lasciava sul finire di quell'anno 1799 Venezia, e la infelice nel 17 maggio scriveva irritata a Gaspare Porta:

«Signor Gasparo stim.mo,

Padova, 17 maggio 1800.

Rispondo all'istante alla stimatissima sua: s'intende della politica di lei riposta, come il signor Carlo non vuol farmi tenere il mio ritratto, e che ricerca le sue lettere. Ella, come organo esatto e fedele, accetti di risponderle: che le sue lettere sono e saranno sempre nelle mie mani: che non capisco come si voglia violentarmi di tal maniera circa il mio ritratto, quando io esattamente le mandai ogni cosa: che lo suppongo in pezzi, e per questo piglia il mezzo termine di voler le sue lettere. Io però me ne burlo. Lo tenga, lo fracassi, ma le sue lettere stanno nelle mani di me, unica vendetta e difesa al caso di nuove sopraffazioni e vituperi. Mi ha tradito sulla fede in onore, amicizia e amore. Io sono l'offesa, l'abbandonata, e quella che à saputo amarlo e che l'amo, benchè meriti il mio odio. Le sue penultime lettere lo confermano. S'immagini!... troppe cose contengono queste, perch'io debba privarmene. Piccata di amore, di delicatezza, d'amor proprio, non ho che il suffragio di queste. E sono certe volte così romanzesca che non curo nulla che le mie soddisfazioni; e, se ne farò cattivo uso, sarà sempre minor male di quello che lui fece a me. Venga lui, parli con me, e le avrà.... Per ora, intanto, mi do il piacere di rassegnarmi. Di lei sin.

Andriana Diedo-Corner».

Più tardi, scrivendo allo stesso, si mostra rappacificata. Gli parla di alcuni indumenti, e nel chiudere la lettera — proprio come sogliono certe povere donne innamorate, le quali si struggono d'impazienza per conoscere ciò che loro preme e si sforzano, nello stesso tempo di non lasciarlo scorgere, chiedendolo, talchè lo celano quasi, lo soffocano fra parole di pura convenzione, magari in un poscritto, alla sfuggita — la povera abbandonata chiede notizie del suo «Carlino». Non poteva dimenticarlo!

Carlo Porta non frenava, nelle questioni d'amore, certi impeti. S'indispettiva alle finzioni; non sapeva fingere, benchè talora, come abbiamo visto, se lo proponesse ingenuamente.

Piuttosto di sottomettersi al capriccio femminile, frangeva con violenza i legami e per sempre. Volea regnare solo e padrone assoluto ne' cuori; non tollerava amori in partita doppia. Nella Biblioteca Ambrosiana, in un volume manoscritto, sta un suo sonetto italiano, inedito, a una donna, cui dice: «O amate me solo, signora; o addio». E un'altra delle sue aperte confessioni è diretta a Giuseppina N..., la stessa del sonetto a una Sura Peppina:

Amo chi m'ama, e chi non m'ama io sprezzo;

Nè pretendo che alcun m'ami per forza.

.......................................

La fedeltade nell'amore apprezzo,

Anzi con questa più il mio amor s'afforza;

Non tollero rivali, e i lacci io spezzo

Con chi più amanti di tener si sforza.

Ecco come esprimevasi quest'uomo, che la rompe risoluto colle amanti e si studia di mostrarsene indifferente. Eppure si lascia dominare da strane gelosie. Paolo Mantegazza, in un articolo sul nervosismo degli uomini grandi, pubblicato in un numero del Fanfulla della domenica del 1880, dopo aver toccato del temperamento del Porta, uomo «appassionato, convulsivo, pieno di nervosismi», racconta questo curioso aneddoto: «So dalle labbra della mia mamma un aneddoto del poeta, che per via femminile è anche un po' mio parente. Una notte egli si sveglia ad un tratto tormentato dalla gelosia per una donna adorata, e che villeggiava in Brianza. Di certo egli è tradito, di certo in quella notte istessa la donna del suo cuore dorme con un rivale. Balza dal letto, corre alla porta; domanda con lauta promessa di danaro i due migliori cavalli delle scuderie pubbliche e via di volo per Brianza. Era d'autunno inoltrato.... I cavalli volano e il postiglione interpreta fedelmente la furia del Porta. Si arriva alla villa fra le tenebre, e il poeta, lasciata la vettura a piccola distanza, a piedi, come ladro notturno, prende d'assalto muri e cancelli, appoggia una scala al balcone del primo piano; risveglia i dormienti mette a rumore cani, servi e ogni cosa. Poi si nasconde non so dove, spaventato egli stesso per lo spavento di tutti e forse vergognoso della sua pazza impresa. Riesce però a trovarsi colla donna amata che dorme il sonno dell'innocenza.... Il resto della scena mi è ignoto, ma sarà tutto finito, come se non si fosse trattato di uomini di genio o di nevrosici.»

Dopo l'avventura amorosa con la patrizia veneziana, nulla sappiamo di quella poveretta, che trovava nel suo cuore ferito accenti di dignità e di sdegno. Carlo Porta era ancora un ragazzo, non ostante il suo ingegno naturale e certa penetrazione; era ancora un inesperto, un egoista, soprattutto. Non comprendeva il male che aveva fatto con l'accondiscendere a una passione, che sin dalle prime si capiva doveva finire presto e male. Mai le donne amino uomini più giovani di loro: non ne ricaveranno che lagrime. Paolo Heyse, il novelliere tedesco che amò tanto l'Italia, ha una novella su questo soggetto. La sua protagonista, una signora matura innamorata, scopre il tradimento del proprio adorato: lo sorprende mentre egli contempla amoroso, estatico, una giovane bella, di casa, che giace seminuda, addormentata. Ella, nel vedere la scena, ne riceve tal colpo, che cade ammalata; e poi, guarita alla meglio, esclama: Come fui sciocca!

Qui dobbiamo un po' considerare la vita di Carlo Porta quale pubblico impiegato: vita un po' agitata a motivo dei rapidi mutamenti politici: vera fantasmagoria, lanterna magica tumultuosa.

In una domanda autografa indirizzata, negli anni maturi, a' superiori d'ufficio e che si conserva nell'Archivio di Milano, il Porta compila il proprio «stato di servizio» come impiegato pubblico. Trasferito da Venezia a Milano nel 1799, egli venne conservato nel medesimo impiego presso la «Intendenza generale delle finanze della Lombardia». Il suo stipendio limitavasi ad annue milleseicentotrentasette lire milanesi, e bastavano alla sua vita, considerato come allora, non ostante i balzelli, tutto costava poco in confronto di adesso, dal vino squisito col quale si brindava a' nuovi padroni, alle camere dove si dormivano sonni interrotti da risse di nottambuli e da canzonacce straniere. Ma, ben presto, impiego e stipendio gli sono tolti. Difatto, non era egli impiegato per decreto del Governo austriaco? L'arruffata Repubblica cisalpina crollò al ritorno vittorioso dell'esercito austriaco fiancheggiato dai russi condotti dal feroce Suvaroff; una reazione austro-russa imperversante per tredici mesi desolò la Lombardia fino al 14 giugno 1800, giorno della battaglia di Marengo, vinta gloriosamente da Napoleone che ritornò padrone di Milano e rialzò la Repubblica cisalpina; e Carlo Porta non avea egli forse continuato nell'impiego di nomina austriaca durante quella reazione? Ciò formava un'imperdonabile colpa agli occhi di que' signori della ripristinata Repubblica, ignari che il Porta avesse maledetto i ladroni che, guidati dal Suvaroff, s'erano rovesciati sull'infelice Lombardia. L'arcivescovo Filippo Visconti, patrizio milanese, deturpando la propria canizie venerabile, incensava il Suvaroff: e il Porta ne scattava di sdegno:

Con la mitria e 'l puvïaa

L'è andaa in Domm, el l'ha incensaa;

Dandegh finna la soa dritta

A on eretegh moscovitta!...

Ciò non valse a salvarlo. Un decreto di reciso licenziamento dall'impiego, firmato Soldini, diceva: «il cittadino Carlo Porta è ringraziato».

Ma il Porta non s'abbandona all'ozio. Diviene per tredici mesi «capo di corrispondenze» presso quel Gaetano Borella fornitore generale delle «sussistenze militari» nella Repubblica cisalpina, impiego cui già aveva aspirato. Più tardi, nel 1804, è riammesso nell'impiego primitivo, quale sottocassiere presso l'ufficio di liquidazione del Debito pubblico.

Egli fu impiegato diligentissimo; nè mai s'accapigliò co' superiori. Una volta, uno di costoro gli negò un favore; egli scagliò contro di lui un paio di sonetti, ma ne tenne il nome segreto.

Durante l'orario d'ufficio, quale cassiere (come poi divenne al Monte Napoleone), non conversava coi colleghi: se ne stava taciturno; ma la facezia usciva talvolta brillante dal suo labbro. Un aneddoto: chi riscoteva le pensioni doveva presentare, come adesso, l'attestato di vita. Un pensionato non si poteva capacitare di tale formalità:

— Ma lei non mi vede che son vivo? — dice al Porta.

— Sì, — risponde il poeta, aprendo un cassetto; — ma non basta: venga qui dentro, che la presenterò ai miei superiori. —

Salì poi al posto di cassiere; e, come succede ai burocratici nati, ci teneva quasi al pari d'un regno.

Carlo Porta e la sua Milano

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