Читать книгу Carlo Porta e la sua Milano - Raffaello Barbiera - Страница 8
V.
ОглавлениеSconce pubblicazioni volanti. — Carlo Salvador e il suo Termometro. — Vien bastonato e messo in prigione. — Sua tragica fine. — L'eteroclita figura del «terrorista» Ranza. — Sue geste, suoi opuscoli, suoi giornali, e il suo perfezionamento della ghigliottina. — E anche lui va in prigione. — L'economista Pietro Custodi: da demagogo a barone. — Melchiorre Gioja qual era. — Il giornale Senza titolo e i suoi carnevaleschi collaboratori. — Il giornale di Ugo Foscolo. — I due giornali di Napoleone.
Una delle prime libertà portate da Napoleone fu quella di stampa, senza alcun freno contro gli abusi. Tutti potevano scrivere e pubblicare tutto, infamie comprese. Si arrivò al punto che, per tre mesi continui, si vendettero per le strade di sant'Ambrogio e di san Carlo, da cenciosi strilloni, gl'indirizzi delle pubbliche meretrici «ad uso della gioventù cisalpina».
Gli amici della libertà fu il primo giornaletto apparso sull'Olona; e Il termometro di Carlo Salvador fu il secondo.
Costui l'abbiamo già incontrato; ma è necessario tornare ancora su codesta figura di rivoluzionario nefando e ridicolo.
Era nato a Milano. Per evitare i castighi meritati dalle sue ribalderie, fuggì a Parigi, dove si cacciò fra i terroristi della Senna al tempo delle esecuzioni furibonde e sommarie degli aristocratici. Quali atroci accuse pesassero sopra di lui abbiamo detto più addietro. Appena Napoleone ebbe l'ordine di conquistare la Lombardia si mosse da Parigi e, qualche giorno prima dell'ingresso dell'esercito francese, percorse le strade della sua città eccitando frenetico il popolo a rendersi libero da nobili, preti, frati, sovrani, e gettando a destra e a sinistra coccarde tricolori. La conoscenza del dialetto di Carlo Porta gli agevolava l'ufficio. Si vendette anima e corpo ai comandanti francesi, e per giustificarne le violente ruberie e iniquità d'ogni genere fondò Il termometro, che faceva spavento ai passeri. Ma era tale l'eccesso delle parole di quell'eroe della mannaia che, più di qualche volta, fu battuto come la lana. Gli stessi suoi protettori, che lo pagavano, furono costretti a strappargli di mano la penna maledetta e lo cacciarono in prigione.
Ridotto alla miseria più squallida, Carlo Salvador fu visto, più tardi, errare, come un mendicante reietto, per le vie di Parigi. Disperato, alla fine, si annegò nella Senna.
Peggiore persino del Salvador, parve un buffo omiciattolo dalla lunga zazzera rossigna svolazzante, scialbo e magro, mezzo sepolto sotto un enorme cappellone decorato d'una maiuscola coccarda sfacciata. Strascinava uno sciabolone più lungo di lui, e, declamando contro i principi d'Italia, ai quali minacciava coltellate in abbondanza, agitava le braccia come due fruste da carrettiere irritato. I buoni ambrosiani, vedendolo sulle piazze dove irruiva contro i «tiranni», lo stavano a osservare come un «fenomeno» da baracca.
Chi era? Donde veniva? Era il «cittadino» Antonio Ranza, professore e tipografo. Si chiamava modestamente da sè «capo dei rivoluzionari piemontesi».
Nato a Vercelli, nella cui agitazione popolare del 1790-91 era sorto quale «amico del popolo» e nemico dei nobili, avversava con altri rivoluzionari la Casa Savoia: voleva strapparle il Piemonte per gettarlo fra le braccia della Francia. Evitò il carcere con la fuga. A Lugano, in Corsica, a Nizza, continuò l'apostolato; finchè Napoleone gli aprì con le sue vittorie il varco alla massima scena delle sue geste clamorose: la Lombardia.
Negli orrendi giorni, quando Binasco e Pavia osarono ribellarsi all'invasione francese e furono perciò il primo, per cenno del Bonaparte, orribilmente incendiato, e Pavia abbandonata al saccheggio e alla strage, il Ranza, che a Pavia aveva piantato l'albero della libertà, eccitava alle vendette, alle carneficine, vantandosi d'aver trovato un perfezionamento alla ghigliottina che, secondo lui, doveva essere il tocca-e-sana dei ribelli lombardi.[13]
Il Ranza stampò giornali sterminatori e opuscoli analoghi; alcuni de' quali si possono leggere nella raccolta Custodi, nella Biblioteca Nazionale di Parigi.[14]
Col giornale Il rivoluzionario, che il Ranza pubblicò per isfamarsi, trascese a tali eccessi contro i nuovi magistrati, che non potè arrivare al terzo numero. E anche il Ranza fu cacciato nel Castello, in prigione. Morì nell'aprile del 1801.
Ben altro cervello vantava Pietro Custodi, nato nel 1771 a Galliate Novarese, caro a Pietro Verri per l'amore che portava agli studii severi. Nella tormenta della Repubblica cisalpina, il Custodi si esaltò, e unitosi a un chirurgo Buzzi, demagogo da dozzina, fondò la settimanale Tribuna del popolo, dove non esitò a investire lo stesso Bonaparte. Immaginarsi se il vittorioso permetteva d'essere vilipeso dalla libera stampa, ch'egli stesso aveva elargita al popolo redento!... Ordinò che anche il Custodi fosse arrestato e gettato in un carcere, ma il giovane eroe sfuggì ai gendarmi nascondendosi in un solaio.
Chi mai gli avrebbe detto allora che, solo pochi anni dopo, sarebbe stato creato cavaliere della Corona ferrea e barone del Regno italico? Che sarebbe assunto qual segretario a lato del ministro delle finanze Prina? E avrebbe lasciato nome chiarissimo per la classica sua raccolta degli Economisti italiani?... Morì nel 1842.
Un altro dotto, celebre economista, Melchiorre Gioja, seguiva la manìa del giornalismo polemico e del pubblico oltraggio, egli che doveva comporre più tardi un Galateo delle belle creanze! I suoi giornali Il censore, La gazzetta nazionale e Le effemeridi politiche morivano anch'essi, strangolati dalle mani delle autorità offese. Il Gioja subì il carcere a Parma e a Milano, poi l'esilio. La sua opera Del merito e delle ricompense è una miniera di erudizione. Ma egli era un'anima ignobile. La rivela nella rivoltante scritturaccia contro Bianca Milesi, che, illusa e pietosa, lo aveva assistito in carcere.[15]
Sbocciò anche Il giornale rivoluzionario e Il conciliatore; il primo fu soppresso, il secondo morì d'inedia.
Ma anche un giornale a tratti briosi ebbe l'allegra repubblica: Il senza titolo; anch'esso ampio al pari degli altri.... come un fazzoletto da naso d'educande.
Un furbo libraio francese, Barelle, lo fondò, rimanendo prudentemente fra le quinte, nell'ombra, e cacciando, invece, innanzi quale direttore (estensore dicevasi allora) un suo commesso di negozio, certo Nova, che andava alla messa ogni mattina e che finì in prigione anche lui, per le ingiuriose escandescenze dei suoi anonimi collaboratori, fra i quali (una vera carnevalata!) frati sfratati, preti spretati e un Calderini di Gallarate, soprannominato il «granatiere teologo». Molta prosa v'inserì il Bernardoni, il grande amico di Carlo Porta, propugnandovi persino l'unità d'una Italia repubblicana.
Un avversario detto l'«ulano legislatore» scriveva amabilmente così: «Sapete in che modo discuto io le mie questioni personali? A cazzotti!». E lo chiamavano legislatore!
In un certo numero si legge che un tale comasco (e qui è spiattellato nome e cognome) fa l'incettatore di grano ed è l'amante della moglie del signor tal'altro pure di Como (e qui ancora nome e cognome: mancava soltanto il numero della porta). Come mai la faccia dell'ignoto rivelatore non veniva illustrata da un corteo di pugni? E i pugni fioccavano fra quei gentiluomini. Niente duelli: fior di cazzotti, come insegnava l'«ulano legislatore»!
Benchè svillaneggiato e messo in ridicolo dal Senza titolo, il Ranza vi fa allegramente i conti addosso al piacentino Poggi, estensore dell'Estensore cisalpino, sussidiato dal Direttorio; ma è tutta invidia di quei sussidii!...
Un arguto «associato» domanda al «caro Nova» perchè certo comandante di certa piazza, mentre qualche giorno fa si lamentava d'avere in tasca sole cinquanta miserabili lirette, ora esce con tanto di vestito nuovo e su un cavallo nuovo?
Questa l'alba radiosa della libera stampa sull'Olona, promulgata da Napoleone Bonaparte!
Ma pochi anni passeranno, e nella stessa Milano sorgerà Il conciliatore di Silvio Pellico, di Luigi Porro, di Federico Confalonieri, di Giovanni Berchet, a far dimenticare con le gloriose sue audacie liberali quella effimera, fracida, velenosa fungaia, spuntata sotto gli scrosci di pioggia delle innovazioni rivoluzionarie frettolose; e, più tardi ancora, sorgeranno la. Rivista europea del Battaglia, Il politecnico di Carlo Cattaneo, Il crepuscolo di Carlo Tenca.
Eppure, dalla baraonda dei gazzettieri cisalpini, spuntava qualche cosa di lodevole. Il Monitore italiano va, infatti, citato, a titolo d'onore, a parte. Il manifesto steso da Ugo Foscolo, e la collaborazione del grande poeta, gl'imprimeva un carattere d'altera indipendenza. Il Foscolo vi pubblicava i processi verbali dell'Assemblea legislativa della Repubblica cisalpina; e vi aggiungeva con tono tribunizio (il tono allora comune) severi commenti.[16] Il cittadino Somaglia, nel Consiglio dei Seniori perora a favore dei poveri, dicendo che gli aggravi maggiori dovevano pesare sui ricchi. E Ugo Foscolo a tal proposito prorompe:
«Legislatori! badate che le tacite orme degli opulenti non vi sbalzino da quel seggio, ove rappresentate una nazione costretta a comperare colle proprie sostanze una libertà, che calò dalle Alpi accompagnata dalle desolazioni e dal terror della guerra e seguìta dall'orgogliosa avidità della conquista; una nazione, la quale, colpa forse de' tempi, non peranco ha partecipato dei beni della libertà. Legislatori! mentre voi ritardate il rimedio, il male va crescendo in ragione progressiva: l'onnipotenza dei sacerdoti, l'ambizione dei grandi, l'avarizia del ministero, l'attaccamento alle antiche abitudini, la miseria del popolo, tutto congiura al soqquadro d'una troppo nuova Costituzione.»
Immaginarsi se tali parole potevano piacere ai dominatori! Ma esse, meglio di tutte, compendiavano uno stato di cose infermo e malfermo.
Una sera, per le vie di Milano, un vecchio e un figlio giovinetto cadono travolti sotto una carrozza a due cavalli. Il Foscolo li trae dalle ruote in istato miserando, arresta il cocchiere che vuol fuggire coi cavalli spaventati, e pubblica sul Monitore italiano una fiera lettera al ministro della polizia, Sopransi, invocando provvedimenti e pene.
Ancora più bello è l'atto (oggi si dice gesto) del Foscolo, quando sul Monitore si offre spontaneo al Capitano di Giustizia, in luogo del cittadino Breganza, collaboratore del giornale, assente e inquisito, autore d'un articolo che feriva il Governo.
Il Monitore italiano fu fondato da giovani patriotti; vi convenivano verso un'unica meta e settentrionali e meridionali d'Italia; quasi preludio dell'unità della patria. Vi appartenevano scrittori del Veneto, di Napoli, del Piemonte, del Piacentino. Tre soli, alla fine, rimasero redattori: Foscolo, Gioja, Custodi. Al 42mo numero il giornale, costante censore del Governo, fu soppresso; e sulla sua tomba precoce, sorse il Monitore cisalpino, composto da rifugiati politici, a capo dei quali stava il romagnolo Giovanni Compagnoni, politico, giornalista, romanziere, poeta, scienziato, autobiografo, autore delle Veglie del Tasso, stese in italiano e in francese, che ottennero voga; negazione della verità e del buon gusto. Nel Monitore cisalpino, lavorò un conte, avventuroso giramondo: Bartolomeo Benincasa di Sassuolo, che servì da spione agli inquisitori di Stato negli ultimi anni della Repubblica di Venezia. Insieme con l'amica Giustina Winne, contessa di Rosenberg, il conte Benincasa compose, fra altro, un romanzo Les Morlaques; suonata a quattro mani, che deve aver divertito solamente i due innamorati suonatori.
Napoleone volle esser tutto; fu anche giornalista. Fondò e ispirò due giornali: Le Courrier de l'armée d'Italie e La France vue de l'armée d'Italie. Quest'ultimo per preparare l'opinione pubblica all'assassinio di Campoformio. Lo dirigeva un Jullien; laddove figurava quale direttore un ignoto presta-nome: Iacopo Rossi; e così il Courrier.
Il Jullien non potè tacere neppur lui davanti all'infamia perpetrata dal suo padrone col mercato di Campoformio; cagione di tante guerre, compresa l'ultima nostra. Non con l'asprezza spiegata dal Monitore italiano del Foscolo, ma non senza coraggio, il Jullien si mostrò contrario nel Courrier a quell'iniquità; e fu licenziato. Il giornale passò allora nelle mani dello stato maggiore francese. Si stampava a Milano, nella così detta patriottica tipografia di Via San Zeno «dietro al palazzo di giustizia» dove, più tardi, l'Austria alloggiò il boia.[17]