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II. I Belgiojoso. Nozze, separazione e fuga della Principessa.

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Indice

Emilio Belgiojoso, il poeta Berchet e Gioachino Rossini. — Il supposto “giovin signore„ del Giorno. — Nozze fastose nella chiesa di San Fedele. — Mode. — La principessa sposa a Merate. — Gentildonne cospiratrici. — I principi Belgiojoso profughi in Svizzera. — Le spie. — Gherminelle contro il Governo austriaco. — Ricordi d'un ballo in costume in casa Batthyány a Milano. — Un “Pietro Aretino„; chi era?..

Passiamo un momento ad un borgo nella provincia di Pavia, fra l'Olona e il Po: a Belgiojoso. Fu là che, dopo la sconfitta di Pavia nel 24 febbrajo del 1525, lo spensierato, cavalleresco Francesco I re di Francia si ritrasse, prigioniero di Carlo V, per passare poi alla Cervara, nell'incantevole golfo ligure.

La famiglia Belgiojoso, che porta il nome di quel borgo, non ne è originaria. Essa era forte fin dal nono secolo nelle Romagne, dove possedeva, con titolo comitale, fra altri feudi imperiali quello di Barbiano; ed è Barbiano il nome originario dell'illustre famiglia.

Un Carlo Barbiano fu il primo che s'intitolò dal feudo di Belgiojoso; e i due nomi passarono da allora congiunti di secolo in secolo.

Quel Carlo Barbiano non risveglia certo gradito ricordo col nome suo. Fu egli che, inviato da Lodovico il Moro presso il mostruoso Carlo VIII di Francia, indusse costui a calare nel 1494 colle armi in Italia. La famiglia Belgiojoso divenne patrizia milanese sessantadue anni dopo quella ruinosa calata di barbari infetti. Più tardi, ottenne il grandato di Spagna: nel 1769, ottenne il principato: e i suoi principi si denominarono d'allora “principi del Sacro Romano Impero e di Belgiojoso„.

Nel 14 marzo del 1800, nacque da questa famiglia il principe Emilio Belgiojoso, figlio di Lodovico e d'Amalia Canziani, la quale non potea vantare stemmi patrizii.

Bellissimo come un Apollo era il principe Emilio. Affabile, squisito il suo tratto, caustico il suo brio, vaste le sue ricchezze, che profondeva con larghezza spensierata. Era schermitore insuperabile, cavalcatore elegantissimo; ballava con grazia. E la sua voce?... Un incanto. La prima volta che Gioachino Rossini lo ode a Milano, ne rimane rapito; la prima volta che s'avvicina a quel gentiluomo seducente, lo ama. “Ti dirò ciò che mille volte ti ho verbalmente detto e ripetuto: t'amo e t'amerò sempre!„ scriveva più tardi il Rossini al principe da Parigi.[5]

Tutta la famiglia Belgiojoso emergea pel raro talento della musica e per la generosa protezione che accordava a maestri, a cantanti; e costoro l'adulavano, formandole intorno una corte. Pompeo Belgiojoso, chiamato per celia da Gioachino Rossini il patriarca Pompadour, spiega così robusta voce di basso che quel grande maestro lo vuole a Bologna per cantare nel suo Stabat Mater. Antonio Belgiojoso compone notturni, oratorii, messe, e un'operetta, La figlia di Domenico. Suona il violoncello e scrive un breve trattato Sull'arte del canto, dove parla della “fioritura e del trillo„ — della “timidezza o peritanza„ del “canto di sorpresa ch'è proprio delle opere buffe (egli dice) e s'appoggia interamente sulla agilità.„

Un balsamo soave è l'armonia

Sul dolor della vita, e l'infelice

Mentre l'aura ne bee consolatrice

Tutti gli affanni oblia;

esclamava, nella Virtù del canto, il melodioso Andrea Maffei, che facea parte di quella società canora, ed era amico del principe.

Emilio Belgiojoso non voleva che si ripetesse quanto Ugo Foscolo avea detto e che mille pappagalli ripetevano: che il giovin signore, l'effeminato eroe del Giorno di Giuseppe Parini, fosse il principe Alberico di Belgiojoso, suo nonno. Non era vero, e neppur verosimile. Nelle vene del principe Alberico scorrea il sangue bellicoso degli avi. Non avea egli preso parte alla “guerra dei sette anni„? Non si trovò alla battaglia di Rosbach? E per il suo valore non venne promosso generale?... Era soldato, e amava i soldati; tanto che un decreto imperiale gli affidò il comando del presidio militare di Milano; comando che teneva ancora quando uscì la prima parte del Giorno: il Mattino.

Giuseppe Parini fece come gli artefici squisiti della bellezza, che scelgono le leggiadrie di più donne per una Venere sola: egli riunì più giovani signori in un giovine solo.... ed esagerò con arte poetica sovrana. La satira esagera sempre.

Poichè a Emilio Belgiojoso dava noja la sempiterna ripetizione della fola di Ugo Foscolo,[6] volle, quale errata-corrige (nel 1826), che la piccola casa attigua al palazzo Belgiojoso nella piazza dello stesso nome a Milano fosse con disegni dell'architetto Gioachino Crivelli consacrata al Parini: e v'appose, sulla facciata, tanto di busto del grande poeta da lui ammirato.

Il principe Emilio inclinava, veramente, in quel tempo, ai busti, alle lapidi. La bella e infelice marchesa Bellisomi di Pavia, sposata ad un imbecille, fu disperatamente amata da un Jacopo Ortis lombardo che, in un triste giorno, si fece saltar le cervella nel bosco della villa Belgiojoso presso Pavia. “Al principe Emilio Belgiojoso (racconta non senza malizia Tullio Dandolo nei Ricordi) il fatto romantico parve così buona ventura pel suo parco, che lo ha eternato con una lapide commemorativa in riva ad uno stagno pittoricamente circondato di salici piangenti. Questa tragedia, omai antica, stata clamorosissima, tinse in nero la vita della marchesa, n'esaltò la immaginazione, e la trasse ad un vivere segregato e a quel sentire originale che trapela dalle sue lettere.„

Ma nella vicina Pavia, in quella fremebonda università dalla quale erano usciti nel 1821 animosi giovani pronti ad ajutare le armi piemontesi per la vagheggiata liberazione della terra lombarda dalla signoria austriaca, si ripetevano intanto le strofe di Giovanni Berchet, sfuggito per miracolo con precipitosa fuga al processo dei Carbonari e forse allo Spielberg. Nessun poeta italiano, nessuno più del Berchet, versò fuoco nelle vene dei giovani; le sue strofe sono saette contro lo straniero. L'austriaco credeva che Milano, Pavia, Brescia, Mantova, Venezia, da esso occupate, fossero città; ed erano popoli: credeva che la tomba dello Spielberg soffocasse ogni aspirazione italiana; e non s'accorgeva dell'opposto; ma s'accorgeva del Berchet.

Giovanni Berchet era amico di Emilio Belgiojoso; e fu lui, quel fiero poeta delle Fantasie, che spronò il giovane principe a cospirare per la libertà della patria. Quando vede il principe immerso ne' piaceri, il Berchet gli manda lettere acerbe di rimprovero; ed è di rimprovero la lettera che gli lancia da Londra, dove il poeta s'è rifugiato. Questa lettera, intercettata dalla polizia austriaca, ora giace negli archivii segreti del Governo Lombardo a Milano.[7] Il Nicolini cantava:

Perchè tanto sorriso di cielo

Sulla terra del vile dolor?

Perchè obliarsi nelle voluttà sensuali, quando un'altra voluttà, quella delle cospirazioni e de' pericoli, mette brividi nuovi nelle fibre, nell'anima?... Poichè doveva essere ben acre voluttà il cospirare per un ideale sacro, contro una forza che si spiegava tutta contro, co' suoi rigori, co' suoi terrori!... I ritrovi segreti, i colloquii sommessi, i segni di riconoscimento, il linguaggio di convenzione, il carteggio occulto, le fughe, i travestimenti, le veglie, i nascondigli, tutte le audacie, larvate più o meno dall'astuzia, da accorgimenti raffinati, da dissimulazioni, e, nello stesso tempo, il desiderio inquieto, febbrile di propaganda, la smania d'operare, di rompere gl'indugi, di sfolgorare in un tentativo deciso e decisivo, pronti ad ogni pericolo, pronti al castigo, al patibolo.... qual vita, qual vita, che tanti italiani vissero e che furon lieti, superbi d'aver vissuta; soggiogati da quell'ideale, circonfusi, abbagliati da quella luce divina! Oggi quella luce sembra appena un barlume d'incendio remoto; ma allora?... In un popolo, occorre la vita morale. L'assenza della vita morale, l'indifferenza per ciò ch'eleva, è segno di morte.

Il principe Emilio Belgiojoso si gettò alle cospirazioni, e trovò una sorella di fede patriottica in una radiosa bellezza: Cristina Trivulzio. I due giovani, ammirati e invidiati, sembravan venuti al mondo (si diceva) l'uno per l'altro, tanto brillava fra loro l'accordo di pregi singolari. Perchè non dovevano fondere le loro giovinezze, le loro vite?...

Il 15 settembre 1824, nella chiesa di San Fedele a Milano, si celebra una solenne, festosa cerimonia. Il ventiquattrenne principe Emilio si sposa a Cristina Trivulzio, otto anni più giovane di lui. Tutta l'alta società lombarda, venuta dalle ville, vi assiste. Come dice enfatica una delle tante dedicatorie nuziali piovute allora per l'occasione, il sacerdote può ripetere dall'altare: “Ai nomi storici delle vostre illustri famiglie, o Sposi, si scorgono in Voi riunite le ricchezze, la gioventù, l'avvenenza, e due belle anime, con vivace ingegno, nelle più nobili discipline educato. Se la felicità non viene a posarsi in mezzo a Voi, in qual luogo della terra si potrà mai sperare ch'essa discenda?...„[8]

Eppure non discese. Quale errore il matrimonio contratto all'alba della giovinezza, quando la realtà dinanzi agli occhi, velati dall'inesperienza o dal sogno, appare sotto sembianze alterate!... Eppure, una volta, quante spose, sedicenni appena come Cristina Trivulzio, venivan condotte all'altare e avvinte a un destino!

Cristina Belgiojoso-Trivulzio affascinava per la sua bellezza originale. Di statura piuttosto alta, magra, d'un pallore marmoreo: nerissimi i capelli, e grandi gli occhi scuri, pieni di pensiero; quegli occhi che volean dominare; quegli occhi fatali, dove parea nereggiare un dramma misterioso, e che parlavano anche quando tacevan le labbra. Il collo lungo, e affilate le mani, che, stando seduta, ella giungeva in grembo, fra le pieghe della veste. Tale era allora Cristina Belgiojoso; tale fu dipinta dal pittore Vidal a Parigi, e da Francesco Hayez a Milano alcuni anni dopo. Ma ella non era ancora la grande dame; era la jolie femme, con un'espressione però diversa da tutte le altre: non era ancora la romantica visione del celebre quadro del Lehmann.

La madre, per sedare gl'impeti vivaci della meravigliosa figliuola, le avea scelti a maestri due uomini d'idee retrive: Francesco Ambrosoli, cuore umile e perciò umiliato, infaticabile lavoratore; e quel Robustiano Gironi, bibliotecario di Brera, che non può aspirare a un monumento patriottico. Entrambi nemici giurati del romanticismo e dei romantici, sostenevano la necessità delle imitazioni classiche. Con la passione che nutrivano delle frasi proprie, precise, tornarono non inutili certo all'ingegno di Cristina Trivulzio. L'ingegno di lei s'allontanava dal sogno poetico, che arride spesso alla giovinezza: era, invece, preciso: ingegno scientifico. Ma amava la musica.

Sospinta da propria vigoria a larghi orizzonti, ai quali i due precettori non sarebbero arrivati, Cristina Trivulzio alternava le brillanti cavalcate pei viali suburbani con gravi studii; studii superiori alla sua età e al suo sesso gentile. Achille Mauri le fu pure maestro; il Mauri ch'era il rovescio di que' due; spirito aperto alle idee nuove; sognatore d'un'Italia libera e grande. Voleva Cristina invidiar forse gli allori della concittadina sua Maria Gaetana Agnesi, l'illustre matematica? o, almeno, l'altra dotta dama. Clelia del Grillo, moglie a un Borromeo, entrambe ornamento di Milano nel secolo XVIII?... Fatto sta, ch'ella si consacrò agli studii storici, alla filosofia, alle lingue: studiò l'algebra, e un bel giorno volle tentare persino il calcolo sublime.

Nel giorno delle nozze, qualcuno fece correre un infame epigramma contro la sposa. Era l'epigramma d'un adoratore respinto?... di qualcuno fra i compagni di libere cavalcate? Era l'epigramma di qualche bell'imbusto deriso? — deriso dalla pungente ironia onde le belle labbra di Cristina punivano la fatuità e l'insolenza?... Certo era lo sfogo d'un vile. Così, fin nella sua corbeille de noce, quella donna singolare trovava le vipere, che dovevano assalirla per tutta la vita, e sulle quali ella passeggiò, sempre altera, sempre impassibile dea.

La folla elegante, che assisteva alle nozze, recava nelle vesti il carattere del tempo. Abbigliamenti sdolcinati per l'uomo: scarpette lievissime che lascian vedere le calze bianche, pantaloni bianchi, panciotto bianco, cravatta bianca, solini a vela bianchi, guanti bianchi: il trionfo del candore. Sulla testa, un cappello a cono rovesciato, detto alla Bolìvar, in omaggio all'emancipatore delle colonie ispano-americane. E le dame doveano sembrar ben deliziose colle loro calze fine, trasparenti, che rivelavano il color roseo del piede nella breve scarpetta! Bianca è la gonna, a campana, tutta pieghe sottili nell'orlo, e stretta alla vita con un cordone. Il cappello è sormontato da piume bianche e legato da un nastro sotto il mento; e l'ala è così larga che un poeta romantico la direbbe l'ala d'un angelo.... L'ala d'alcuni cappellini di raso è tagliata a foggia di cuore. Siamo, infatti, nel tempo in cui il vocabolo “cuore„ è il comun denominatore. Tutte le romanze, sospirate alla spinetta, rimano cuore con amore. E si ama!... — Ma si amavano i due principi sposi?

Dopo la cerimonia nuziale, gli sposi andarono a Merate, nella villa dei Belgiojoso. Meglio i rifugii solitarii, in un angolo tranquillo del mondo, che i “viaggi di nozze„ profanatori vulgarissimi dei misteri più delicati e più sacri della vita. Ma quel recesso di Merate sembrava troppo melanconico alla giovane sposa; le pareva un recesso più adatto a recitare il carme dei Sepolcri che l'epitalamio di Catullo. Quella lunga, interminabile, doppia fila di cipressi, che nella villa Belgiojoso, a Merate, sembra il viale d'un sepolcreto di re, non è, infatti, la più amena per accogliere due sposi, appena reduci dall'altare. Mite s'inarca il cielo della Brianza; i colli circostanti si profilano con amabili curve; mandan limpidi riflessi d'oro le frondi all'autunno; ma quella dimora fra i cipressi non è il più ridente paradiso nuziale. Cristina legge lunghe ore sotto gli alberi; non legge, spero, l'epigramma.

La madre del principe accolse con amorevolezza la bellissima nuora, e, per farle sentire ch'ella è entrata ornai nel tempio dei liberi pensieri, le offre subito da leggere il Candide del Voltaire; ma la principessa dolcemente lo respinge.

— Perchè non lo vuoi?... le chiede la suocera.

— Perchè l'ho letto.

Il buon accordo conjugale visse la vita d'una rosa. Se non mentono le cronache mondane del tempo, nella stessa prima sera nuziale si palesò l'incompatibilità dei due caratteri.

I due giovani sposi, tornando a Milano, andarono ad abitare nel palazzo di proprietà della famiglia Belgiojoso, nella piazza tranquilla dello stesso nome. Ma la divisione, una divisione pacifica, senza tribunali, senza avvocati, senza carta bollata, doveva succedere dopo qualche tempo fra i due conjugi, le cui personalità eran troppo spiccate e troppo imperiose per fondersi in armonia durevole per tutta la vita.

Una Cristina Belgiojoso non avrebbe mai abdicato al proprio titolo, ai proprii diritti di principessa; d'altra parte, quelle due anime, così diverse in tutto, avevano un punto di contatto: si accordavano in un alto sentimento, il sentimento patriottico: per cui, anche lontani, Cristina ed Emilio conservarono, per la forza di quel sentimento nobilissimo, relazione continua e cordiale. Non erano più due sposi: erano due congiurati. Caso ben raro nella storia delle separazioni conjugali.

Durante le cospirazioni del 1821, a Milano, alcune animose signore si erano votate alla causa liberale accanto ai cospiratori, con quella prontezza, con quell'ardore ch'è proprio della donna nel sostenere nuove idee, nell'amare nuovi ideali anche pericolosi. Fra quelle signore, si notavano l'angelica Teresa Casati, moglie al Confalonieri; un'amica soavissima d'Ugo Foscolo, Matilde Viscontini, maritata al general napoleonico barone Dembowski; e vi primeggiava la sdegnosa Bianca Milesi. Nel gergo dei Carbonari, esse assunsero il nome di giardiniere.

Bianca Milesi, filosofessa, con le scarpe da soldato, camminava risoluta per le vie di Milano portando a tracolla una giberna dove teneva, a portata di mano, l'Essay del Locke. Era anche pittrice ritrattista. Coraggiosissima contro i tranelli della polizia e contro i terrori del codice austriaco, ne rideva: fœmina vir.[9] Essa strinse presto amicizia colla principessa Belgiojoso, che alla filosofia, al patriottismo, univa impavida l'odio delle convenzioni sociali e sprezzava l'altrui prepotenza. Le due concittadine, l'una plebea, l'altra patrizia, s'intesero. La Milesi (sposatasi al medico Mojon di Genova) era d'età matura, e bene esperta nel congiurare; ella fece, perciò, da maestra (e qual maestra!) alla giovane principessa.

Fra gli atti segreti del Governo Lombardo-Veneto, custoditi negli Archivii di Stato a Milano, trovo una lunga lettera da Ginevra, diretta alla polizia di Milano. È la lettera d'una spia. Essa parla d'un primo viaggio furtivo della principessa Belgiojoso; la quale, contro le prescrizioni del Governo austriaco, s'era allontanata liberamente da Milano, senza chiedere il permesso voluto; così pure avea fatto in quel torno di tempo l'ex suo marito, il principe Emilio. La lettera della spia parla apertamente d'un compagno che la marchesa Gherardini avea dato alla propria figlia Cristina nel viaggio elvetico.

Quel compagno era l'amico della Gherardini; ed era stato precettore del fratellastro della Belgiojoso, il marchese Alberto Visconti d'Aragona, che abbiamo nominato nel precedente capitolo. Quel signore, un bergamasco, si chiamava Giovanni Beltrame, già capitano napoleonico del Genio, comandante una compagnia d'artiglieria, decorato della Legion d'onore. Rovinato per il fallimento d'un fratello, negoziante di seta, avea dovuto darsi attorno per vivere; e fu allora che gli amici gli procurarono l'impiego d'istitutore di quel giovane patrizio.

Il Beltrame non riuscì peraltro a dominar l'altiero alunno; onde ei lo fece affidare al collegio di Desenzano, dove s'educavano i nobili. E qui l'anonimo “confidente„ (così chiamavano anche allora le spie.) continua, non senza ironia maligna, nei particolari sulla principessa Cristina e su quell'avvenente cavalier Beltrame, il quale “non poteva simpatizzare cogli Austriaci„.

Correva allora l'anno 1830; l'anno appunto della pacifica divisione conjugale de' principi l'anno della fuga della principessa Cristina da Milano. — Sentiamo la spia:

“.... Non andò guari che seguì la divisione dei principi conjugi Belgiojoso; e siccome la giovane principessa avea fatto divisamento d'espatriare per qualche anno, la tenera di lei madre, per darle una specie di compagno, di mentore e di economo, gettò gli occhi sopra l'ex-capitano Beltrame; lo richiamò premurosamente da Bergamo, lo propose, fu accettato; e da quel momento ha seguìto la principessa nelle di lei peregrinazioni. Costretta dal cattivo stato di sua salute, questa giovane Dama ha preso a pigione un casino di campagna poco discosto da Ginevra, ove, abitando alcuni mesi, si è alquanto ricuperata. Ultimamente, ha voluto che il capitano facesse un giro nei diversi Cantoni della Svizzera; indi lo ha mandato ultimamente in Italia colla sua grande berlina da viaggio, carica della maggior parte del suo bagaglio, con ordine d'andarla poi a raggiungere a Lugano, ove ella contava di rendersi prendendo la via di Berna.„[10]

È in questo tempo che comincia il regno delle spie. L'Austria governò per tanti anni le terre soggette colla polizia; ma questa s'appoggiava sull'opera continua, implacabile delle spie, che essa sceglieva fra persone colte, bene accette nella società; e lautamente le pagava, inviandole sotto falsi nomi nella Svizzera, in Francia, dovunque gli esuli italiani si raccoglievano a cospirare. Gli Archivii segreti di Stato a Milano conservano numerose lettere di quegl'italiani rinnegati; lettere che pervenivano al Governatore o alla direzione della polizia con indirizzi (previamente combinati) d'immaginarii commercianti e coll'indicazione: Milano, ferma in posta. Il Governatore e il direttore della polizia segnavano con un lapis rosso tutt'i punti di quelle lettere, che potevano dar motivo a processi, a persecuzioni, a vigilanze speciali; e, se i rei appartenevano ad altri Stati congiunti all'Austria nella repressione delle idee liberali, tosto quegli Stati ne erano avvertiti; così, una fitta rete d'informazioni segrete, di reciproci soccorsi s'intesseva fra le burocrazie. Nello spionaggio, nessuna donna: le donne erano escluse.

Lo spione della Belgiojoso si mostrava ben informato. Diceva giusto sulla cattiva salute della principessa. La Belgiojoso, al pari d'altri ingegni singolari, andava soggetta, pur troppo, ad attacchi d'una malattia terribile che desta in ogni cuore bennato profonda compassione: l'epilessia.

Quanto filo da torcere ella dava però alla polizia e allo stesso governatore del Regno Lombardo-Veneto, conte Hartig, il quale, gentiluomo nell'anima, non avrebbe mai voluto importunare, meno perseguitare una dama! E il principe di Metternich abbassava, intanto, acerbi rimproveri al conte Hartig, perchè lasciava passar facilmente il confine a sudditi tutt'altro che devoti all'aquila imperiale.

Ma c'era di mezzo la Repubblica Elvetica, la quale facilmente accoglieva i profughi, e facilmente li proclamava proprii cittadini; bastava che comperassero un palmo di terra entro i suoi confini. E così fecero alcuni esuli. Un bel giorno, quattro o cinque profughi lombardi si riunirono formando una ditta, e comperarono un'isoletta di qualche metro di ghiaja in un fiume, collo scopo di diventarne possidenti, quindi intangibili nella libera Repubblica Elvetica....

La principessa Cristina Belgiojoso non avea bisogno di ricorrere all'acquisto di banchi di ghiaja per essere proclamata concittadina di Guglielmo Tell. Ella si ricordò che, per un decreto dell'11 luglio 1808, i Trivulzio tutti avevano diritto alla cittadinanza svizzera; ed ella dimostrò ben facilmente ch'era figlia d'un Trivulzio....

Detto, fatto: si fece rilasciare dal Gran Consiglio del Canton Ticino una dichiarazione solenne ch'ell'era cittadina elvetica, e precisamente del Canton Ticino, e che, come tale, ognuno doveva riconoscerla. Il decreto, rilasciato il 5 ottobre del 1830, munito del “gran suggello dello Stato„, passò a Milano; e ora dorme il sonno dei giusti negli Archivii lombardi. Ma allora?... Fu un bel gesto, direbbero i moderni, della principessa; fu una bella sorpresa per le autorità dell'Olona!...[11]

Intanto, la Giovine Italia sorgeva per l'opera ispirata di un grande poeta della politica: Giuseppe Mazzini. La principessa Cristina e il principe Emilio Belgiojoso furon tra i primi a seguire gl'ideali dell'agitatore ligure ch'esclamava: “Io adoro Dio e un'idea che mi viene da Dio: un'unica Italia.„ Ed essi furon tra i primi ad ajutarne gli sforzi con ricchi doni di denaro.

Il principe e la principessa gareggiavano anche nel render gradito l'esilio ai profughi in Svizzera, invitandoli a veglie, e nel soccorrere largamente i poverelli delle città che li ospitavano. Ma non eran le veglie, le feste di Milano; non v'era neppur l'ombra di quel memorando ballo in costume dato nella notte del 30 gennajo del 1829 nel suo palazzo di Porta Orientale (ora Corso Venezia) a Milano, dal conte Antonio Giuseppe Batthyány, gran magnate ungherese, ciambellano di Sua Maestà l'imperatore d'Austria. Quel ballo rimase memorando per la folla smagliante dei cavalieri patrizii e delle dame, pei costumi storici ricchissimi che i pittori Francesco Hayez e Migliara disegnarono, e che le sartorie di Milano, di Parigi, di Vienna approntarono con lusso regale. Erano ancora uniti, allora, i principi Belgiojoso; ed entrambi in quella festa facevan parte della spettacolosa quadriglia di Francesco I re di Francia; il principe in candide maglie; la principessa, dama d'onore, nel suo abito di velluto color della viola. Il padron di casa, conte Batthyány, vestiva l'azzurro costume d'un principe montenegrino, ravvolto in un largo, rosso mantello, come un diavolo: le contesse Filippina e Eleonora Batthyány s'aggiravano vestite da persiane fra le quadriglie dell'Otello, dei cosacchi, degli scozzesi. Era un parente della principessa Belgiojoso il gentiluomo vestito da Lusignano re di Gerusalemme: era, infatti, il marchese Giorgio Trivulzio, che dovea morire per le ferite gloriose ricevute combattendo col popolo alle barricate delle Cinque Giornate. E v'era la madre di lei nel costume di Diana di Poitiers, la stella d'Enrico II di Francia; e il cognato conte Antonio Belgiojoso, paggio, e il conte Rinaldo Belgiojoso montanaro scozzese, e la bella, voluttuosa moscovita contessa Giulia Samoyloff sotto i panni di contadina russa. La duchessa Visconti di Modrone e la contessa Cristina Archinto splendevano nel costume, l'una di regina Berengaria, l'altra, d'antica italiana. V'era anche l'Hayez. Il celebre capo del romanticismo pittorico, pompeggiava nei velluti di Giulio Romano.... Un centinajo di tipi, di costumi scintillanti, di tutte le epoche, di tutte le Corti! Quali ricordi di buon gusto, di riproduzioni storiche esatte, quali visioni di luce e di dolcezze!

Ah, ma non tutte vere dolcezze!... Vicino alla principessa Belgiojoso, strisciava un Pietro Aretino.... L'uomo, che indossava le vesti del più infame libellista, recitava allora sorridente, alla folla aristocratica, alcune sue terzine galanti, che dicevano come la satira nulla trovasse da pungere fra tanti splendori. Egli si chiamava Gaetano Barbieri, un mantovano, letterato men che mediocre, e creduto dai più una perla di galantuomo. Oh, sì, un bel galantuomo! Egli era, invece, una spia, protetto e pagato (coi denari del Governo) dal direttore della polizia austriaca, nobile Torresani. Era la stessa spia che seguiva nella Svizzera i passi di Cristina Belgiojoso; la stessa spia che scriveva le lettere da Ginevra?... Non possiamo affermarlo con sicurezza, neppure dal confronto delle scritture dei rapporti segreti, ora sbiadite dal tempo.

La Principessa Belgiojoso

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