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IV. Un traditore.

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Un Argenti propone di uccidere il Metternich. — Il marchese Raimondo Doria e il Metternich. — Avventure del Doria. — Sue delazioni. — Il Doria e la Principessa. — Misteriose riunioni a Genova. — Una tragedia a Milano.

Era il marchese Raimondo Doria di San Colombano (così almeno egli si firmava); e per lui, nessuna pietà! Nessuna per lui che, trascinando nel fango un gran nome ligure, volle farsi delatore de' proprii fratelli di fede per isfogare contro gli uni vendette, rancori; e contro gli altri.... Non potea lanciare per loro neanche la scusa d'un'offesa o d'una provocazione; eppure fe' loro, con perfido gusto, tanto male....

Simile a una vipera, il nome del Doria s'intreccia con quello della Belgiojoso, e con quanti altri nomi di cospiratori e di martiri!

Era il 28 giugno del 1831. Un piccolo uomo, che avea l'aria sorridente d'un frequentatore di quinte e galante corteggiatore di ballerine, il nobile cavaliere Carlo Giusto de Torresani Lanzfeld, imperial regio consigliere aulico, direttore generale di polizia a Milano, inviava al presidente del tribunale di Milano una nota di gran rilievo contro due cospiratori lombardi: Giovanni Albinola e Felice Argenti.

L'Argenti (la cui vita avventurosa conosceremo nel seguente capitolo) avea tentato uno sbarco rivoluzionario sulle coste della Toscana; e dal Governo di Firenze era stato arrestato a Pietrasanta e consegnato alle autorità di Milano, felicissime d'aver alfine nelle mani un lombardo ribelle di prima linea, dopo tanti che eran loro sfuggiti. L'Argenti venne rinchiuso nelle carceri di Porta Nuova, dove venne pur custodito Giovanni Albinola: entrambi erano giovani, entrambi eran nativi di Viggiù presso Varese.

Il Torresani diceva, in quella nota, d'aver fatto rapporto sui due arrestati al conte Sedlnitzky, presidente del Supremo dicastero aulico di polizia e di censura a Vienna; il quale s'affrettò a comunicare il rapporto al cancelliere di Stato e di Corte, principe di Metternich.

E il Metternich affidò allora al conte Sedlnitzky una lettera segreta pervenutagli da Livorno nel dicembre dell'anno innanzi, firmata: Marchese di San Colombano. Questa lettera, stesa in scorretto italiano, con rozza scrittura, da quel marchese, racconta che, in una “Vendita di carbonari„ tenuta segretamente (come il consueto) nella metà d'agosto di quell'anno stesso a Genova, l'Argenti si era proposto di trucidare il principe di Metternich. La lettera soggiunge che la proposta non era stata accettata dall'assemblea dei cospiratori perchè egli, marchese di San Colombano, vi si era opposto.

La lettera comincia così:

“Felice Argenti, console generale del Brasile in Livorno, si offrì di troncare i giorni dell'Altezza Vostra, se ciò gli veniva permesso. I carbonari sono armati d'un fucile, d'uno stilo e di due mazzi di cartuccie, e devono avere con sè 16 franchi. I carbonari devono essere pronti ad agire al primo segnale dei loro superiori, agli ordini dei quali sono responsabili colla propria vita.„[23]

Questo marchese di San Colombano o Raimondo Doria, nella Carboneria aveva voluto assumere il nome simbolico di Morte; ed era stato promosso fino al sesto grado di dignitario nella Carboneria e di “gran maestro„ per tutta la Spagna.

Egli, infatti, conosceva la Spagna per avervi dimorato. Sua madre era una spagnuola. Anna Saavedre: suo padre (egli faceva credere) era uno Stefano Doria di Genova; sua moglie, dalla quale era separato, viveva colla nobile famiglia paterna a Caselle, presso Torino. Contava trentott'anni. Disgustato dei Carbonari, ne fu il Giuda.

Benchè nato a Malaga, il Doria abitava a Genova, o dove piaceva meglio al Governo Piemontese, al cui servizio militava come capitano di cavalleria. Una volta, subì un processo a Madrid “per calunniosi sospetti d'alto tradimento fondati sulle mie relazioni col ministro della guerra Cruz (diceva egli) e l'esito della mia procedura si fu ch'egli perdette il portafogli di quel ministero, ed io venni esiliato dalla Spagna.„

Ma anche a Genova i tribunali gli erano saltati addosso. Il marchese avea rapita una donna; era perciò stato condannato a due anni di carcere, pena che per grazia reale gli fu mutata in due mesi d'esilio dagli Stati Sardi.

Al Torresani fu trasmessa la lettera dal Doria scritta al Metternich; ed egli, allora, deve avere esclamato: “Ecco, questo è il nostro uomo!„ Fatto sta che, col mezzo d'un atto dell'imperatore d'Austria, lo fece venire a Milano.

“La mia venuta qui in Milano (raccontava il Doria in un interrogatorio davanti al tribunale di Milano) fu motivata dalla comunicazione d'una risoluzione sovrana di Sua Maestà l'imperatore d'Austria. Sono stato scortato da due carabinieri sino al confine austro-sardo; e di là giunsi liberamente a Milano coll'intenzione di far conoscere ch'io sono un uomo d'onore e di cooperare per quanto sta in me a svelare le perfide trame che minacciano tutt'i Governi legittimi.„ Con decreto dell'imperatore, il Doria “veniva assicurato dell'impunità„. Nello stesso tempo, era esentato dal confronto colle persone che avrebbe denunciato al tribunale.

Da allora, in tutti gli atti numerosissimi della polizia e dei tribunali, il Doria apparisce coll'inseparabile predicato d'impune: l'impune Doria: il suo stigma.

Arrivando a Milano, quel tristo si cambia nome. Non è Doria che pei tribunali e per la polizia: per tutti gli altri, è Stefano De Gregorio. Va ad abitare in una casa, senza portinajo, sulla Corsia del Giardino, oggi via Alessandro Manzoni, in un piccolo appartamento dove penetra solo una servente trentenne, certa Maria De Bernardi, che verrà poi pugnalata. Il Doria le affida un bambino avuto da un'amante. Il povero figliuolo è malaticcio; eppure quel padre crudele lo fa dormire sulle sedie.

Quasi ogni mattina, alle nove, il Doria esce solo, sempre solo, e si reca nella vicina Casa di correzione a Porta Nuova; e là, dinanzi al consigliere d'appello, Paride Zajotti, letterato e inquisitore astutissimo di tanti nobili patrioti, e alla presenza degli assessori Pecchio, Càrcano e dell'attuaro Grabmayer, depone atroci denunce, che vengono diligentemente raccolte dall'attuaro in diffusi processi verbali; e durano dalle dieci della mattina alle quattro pomeridiane quelle sedute, quelle infami denuncie! Con lo scopo di evitare pericolose pubblicità, la polizia ha scelto appunto quel luogo: là, infatti, il consesso giudiziario è solito di trasferirsi per interrogare i detenuti di quelle carceri; così non può dare nell'occhio il convegno segreto col Doria.

Il Doria si esprime a stento, in un italiano misto di frasi e di parole spagnuole; e continua, continua imperterrito per giorni interi, per settimane, per mesi, a svelare i movimenti dei liberali di Spagna e dei liberali d'Italia, che chiama sempre carbonari anche quando sono federati mazziniani della Giovine Italia. Racconta che un Riva, massone, avea rivelato al Governo di Madrid la tramata congiura d'un'insurrezione, e che, essendo stato dannato a morte col pugnale da' confratelli traditi, aveva anticipata la propria fine, impiccandosi a' piedi d'una croce, dopo d'avere scritta la storia dei proprii infortunii. Il Doria denuncia la spagnuola Dolores Palafox, contessa di Villamonte, dama d'onore della Corte di Madrid, congiurata, anzi la prima delle giardiniere (Carbonare) della “vendita di Madrid„. Il Doria non risparmia i supposti proprii consanguinei, e tradisce e denuncia il marchese Montaldo Doria di Genova: lo qualifica “maestro in Carboneria, generoso verso di essa, come gli ebbero a confidare lo stesso marchese e gli altri carbonari„. Denuncia anche un Filippo Doria, al quale Giuseppe Mazzini scriveva (col finto nome di Strozzi) queste precise parole in un biglietto: “Abbiate fede di fratello in chi vi presenta questa linea.„ E chi gliela presentava era il suo infame delatore, egli, Raimondo Doria! E costui denuncia anche un Antonio Doria di Genova, librajo, designandolo “come il più pericoloso, perchè il più abile.„ E denuncia con cento altri un ammirabile patrizio milanese, il marchese Camillo d'Adda Salvaterra; il quale viene preso e arrestato a Napoli dal poliziotto Bolza, degno accolito del Torresani. Condotto a Milano e rinchiuso nelle carceri di Porta Nuova, Camillo d'Adda vien tormentato da interminabili astuti interrogatorii; ma egli, con abilità meravigliosa, con eroica costanza, sa eludere le mire degl'inquisitori, mai scoprendo gli altri, mai lasciandosi sfuggire la menoma rivelazione, mai debole fra le reti capziose, fra le tempeste d'innumerevoli domande, che, colle risposte sue, empiono grossi fascicoli e buste degli archivii segreti. Giusta la procedura austriaca, i tribunali non condannavano mai, se i rei politici non avessero confessato; ma gl'indizii di reità eran tanti per quel patriota, cuor di bronzo, eroe del silenzio! Onde se lo tolsero una buona volta dagli occhi e lo bandirono a Linz.

Il marchese Doria denuncia il marchese Francesco Maria Passano di Genova, gran mastro di Carboneria; ed ecco come narra il suo primo incontro con lui presso il parroco di San Francesco d'Alvaro vicino a Genova: “Furono portati dei vini e del caffè, e, mentre questi rinfreschi giravano, io vidi che il Passano (ch'io non conosceva se non di riputazione) prese un bicchiere e, tirandosi due passi indietro, mi fece i soliti segnali carbonici.„

Denuncia il marchese Damaso Pareto, il giudice istruttore Daccorsi, l'avvocato Elia Benza, l'ufficiale d'artiglieria piemontese Luigi Boccardi, e il commediografo, intendente di finanza, Alberto Nota. Denuncia un marchese Caracciolo di Napoli, che, a quel tempo, dimorava a Genova, un segretario governativo, Pelloux, il barone Carlo Poerio. E quanti altri!

Anche per le federazioni segrete, occorrono denari; e il Doria racconta di certi fondi impiegati a Parigi, per cura del fremebondo, popolare poeta delle Fantasie: Giovanni Berchet.

Non ostante il suo indomito amore per la poesia, il Berchet era versato assai bene nelle cose commerciali e per l'educazione avuta a Milano dal padre e perchè, appena esule a Londra, s'era impratichito nella casa di commercio del milanese Ambrogio Ubicini. Ricorrevano quindi a lui fiduciosi. Il Berchet possedeva inoltre l'altro senso (così raro) dell'uomo di Stato. Lo notò giustamente Giuseppe Massari, che, anch'esso profugo, conobbe il Berchet a Parigi. Ne' Ricordi biografici del generale Alfonso La Marmora, il Massari scrive: “Il poeta nazionale Giovanni Berchet alla vivacità dell'immaginazione congiungeva uno squisito senso politico, che le amarezze dell'esilio e la lunga esperienza delle cose umane rinforzarono ed acuirono. Il suo parere era tenuto in gran pregio dal D'Azeglio e dai principali uomini politici in Piemonte.„[24] Nato a Milano nel 1783, vigoreggiava a quel tempo nel meglio della virilità. Quei fondi vennero impiegati a Parigi sotto il nome del Berchet, ma appartenevano tutti a un altro milanese, a un altro esule, a un altro cospiratore: al Marliani. Questo Marco Aurelio Marliani era un giovane signore, entusiasta ammiratore della Belgiojoso, artista e ricco; ricco quanto prodigo; onde il Doria osservava come gli esuli a Parigi erano costretti a ricorrere al serio nome del Berchet, per evitare che il Marliani profondesse i denari secondo il suo costume. Il Marliani nutriva viva passione per la musica. Compose un'opera, Ildegonda, ispirata dalla patetica novella del Grossi, su libretto del patriota modenese Pietro Giannone, poeta dell'Esule, poeta dei Carbonari, amico anch'esso della Belgiojoso. Colle più facili speranze, ei fece rappresentare nel 1837 la sua Ildegonda, prima nel Teatro Italiano di Parigi, poi alla Scala di Milano colla De Giuli-Borsi e coll'Albani, interpreti eccellenti; ma l'opera non piacque, e cadde per sempre. Non avea sortito fortuna più lieta un'altra opera sua, Il Bravo, che il tenore Duprez, il Ronconi e la Persiani aveano cantato a Napoli nel '36. Il Marliani rimase a Parigi fino al '49, quando il suo sentimento patriottico lo trascinò a Bologna, e, nell'8 maggio di quell'anno, proprio a Bologna, si fe' uccidere.... Magnifico tipo di romantico, fra i mille somiglianti che popolavano le terre d'Italia, le terre d'esilio!... Era l'amante della celebre cantatrice Giulia Grisi.

Oltre il parroco, presso il quale Raimondo Doria s'incontrò col marchese Passano, altri sacerdoti facevan parte di sètte liberali. Il sacerdote poeta Tommaso Bianchi, giovane nativo di Torno sul lago di Como, stretto fra le spire degl'interrogatorii del Bolza, nel castello di Milano, fu côlto da delirio e morì d'improvviso in carcere; forse suicida.... Il Doria denunciò che pure il vescovo d'Oporto apparteneva alle sètte liberali; così il nipote di lui, Meschita, allora ministro della polizia presso il maresciallo Soult, duca di Dalmazia. Un poliziotto cospiratore per la libertà universale! Qual prodigio!

Le denuncie dell'impune Doria (il quale poteva raccontare ciò che voleva dal momento che gli erano risparmiati i confronti cogli accusati) mettevano in moto molte penne d'impiegati, molte gambe di gendarmi; e non solo nel Regno Lombardo-Veneto; bensì anche negli altri Stati concordi coll'Austria nella caccia accanita dei liberali; stati e statarelli che alla grande vigile alleata portavano riconoscenza per gli utili avvertimenti e per le denuncie riguardo ai proprii sudditi ribelli; e la fonte principale delle denuncie e degli avvertimenti era sempre quella: il Doria.

Il Doria denunciò anche la principessa Belgiojoso.

Per due intere giornate, il miserabile parlò della principessa Belgiojoso dinanzi al consesso giudiziario di Paride Zajotti e compagni. Qui, riassumo il suo lungo racconto, ricordando ancora ch'egli, nella sua rozzezza, spesso confonde la Giovine Italia colla vecchia Carboneria.

Il Doria conobbe la principessa nel focolare dei ribelli: a Genova. Il marchese Passano di Genova, gran mastro della Carboneria, gli disse che la giovane dama lombarda era una distinta giardiniera, e che, se egli avesse bramato di conoscerla, andasse una sera al passeggio all'Acquasola.

Le giardiniere erano divise in due gradi speciali: apprendenti e maestre. La setta si serviva delle giardiniere “per sedurre (parole del delatore) impiegati e personaggi„. Usavano gli stessi toccamenti dei cospiratori; le stesse parole e segnali per riconoscersi. Costanza e Perseveranza eran le parole delle giardiniere di primo grado: Onore, Virtù, Probità eran le parole del secondo, che la principessa Belgiojoso doveva pronunciare sovente: ell'era giardiniera maestra.

Le giardiniere eseguivano fra loro e coi federati un segnale per riconoscersi: passavano la mano destra dalla spalla sinistra alla destra, descrivendo un semicerchio: poi portavano la mano stessa al cuore, e vi battevano tre volte.

Una sera d'estate, al passeggio dell'Acquasola, la bellissima principessa camminava a braccio del marchese Passano, che le presentò subito il Doria; e da allora il Doria e la principessa divennero amici. Ella credeva d'aver trovato un fratello di fede per la redenzione d'Italia....

Era appunto all'Acquasola il luogo di riunione dei cospiratori. Finito il passeggio della sera, essi si recavano là, in fondo, divisi in piccoli gruppi per non destare sospetti. Colui che dovea fare una comunicazione stringeva in pugno un bastone collo stocco, e, passando dinanzi a tutt'i confratelli, faceva loro, col bastone stesso, un segno d'intesa. Quindi saliva su un'altura dell'Acquasola; e, a poco a poco, i piccoli gruppi vi salivano anch'essi. Egli, allora, andava incontro all'uno e all'altro, comunicando con poche parole quanto dovea dire. Oggi era l'arrivo di qualche persona sospetta; domani, era l'avvertimento di qualche pericolo; e via via.

Nei colloquii che la principessa Belgiojoso teneva col marchese Doria, gli disse di conoscere Giuseppe Mazzini e di conoscere Bianca Milesi sua concittadina. L'ardente Milesi, che abbiamo veduta in uno dei precedenti capitoli, ispiratrice, amica della Belgiojoso, s'era trasferita, difatti, a Genova, dove avea sposato il medico Carlo Mojon, anch'esso acceso di patriotici ideali, anch'esso cospiratore. La principessa abitava con loro; e sappiamo come, e quando, ella sia fuggita da quella casa per riparare a Marsiglia e ad Hyères.

Il marchese Passano e Giuseppe Mazzini additarono al Doria la Milesi come maestra giardiniera. Fidandosi del Doria, la principessa non gli nascose che per la causa italiana ella avea sostenuto pecuniarii sacrificii, aggiungendo che “anche sotto questo rapporto, lo spirito dei buoni e cari cugini milanesi era eccellente„ concorrendo volentieri con forti somme alla causa comune. La principessa aggiunse (sempre secondo quanto narrava il Doria) che nella Lombardia la rete della cospirazione si estendeva sempre più e che molte in Lombardia eran le giardiniere e molti i giardini formali. Nove giardiniere costituivano un giardino formale, e tutt'i giardini formali costituivano l'avanguardia dell'occulto esercito femminile.

I lettori sanno come il Doria rivelasse, con lettera, al principe di Metternich che Felice Argenti volea trucidare Sua Altezza. Ebbene, il Doria nelle sue delazioni al consesso giudiziario di Milano, presieduto da Paride Zajotti, tendeva a far sospettare che la principessa fosse complice dell'Argenti, narrando che gli pareva avessero fatto un viaggio insieme da Genova a Livorno! E narrò anche questo:

“La principessa fu varie volte a pranzo e a colazione con me, in compagnia del Passano; e ciò nella mia stessa casa. Così, ella, partendo da Genova, affine di conservare una reciproca grata memoria, diede a me un cordone di margheritine guernite in oro e una posata d'argento dorata; ed io le diedi, in un medaglione d'oro, il mio ritratto.„

E ancora, alludendo a un ufficiale superiore austriaco, il marchese Doria ebbe il coraggio di aggiungere quest'altro racconto:

“Nei lunghi famigliari rapporti colla principessa Belgiojoso, ho potuto riconoscere che la medesima era giardiniera maestra e aveva in Milano molte amiche giardiniere anch'esse, e tutte esaltate come lei per la causa della libertà italiana. La Belgiojoso parlava bene anche di molti suoi amici egualmente settarii, fra i quali lasciava scorgere che alcuno avvicinasse la persona di Sua Altezza imperiale l'Arciduca-Vicerè. Sebbene la salute di lei fosse molto gracile (giacchè essa mi diceva d'esser soggetta a parecchi incomodi) devo giudicarla capace d'intraprendere qualunque ardita azione, perchè i suoi sentimenti sono risolutissimi.„

Quell'uomo dicea d'avere scambiati doni d'amicizia con una signora, e ne tradiva così la buona fede!... E quali menzogne racconta il basso delatore! Dice che la principessa andava a pranzo da lui col marchese Passano, e, in un altro punto, narra ch'ella andava da lui “tutta sola„! Ma nè la principessa, nè altra donna, poteva metter piede in quella casa, perchè il Doria, allora, aveva seco un'amante, la quale non tollerava rivali nè illustri nè oscure. Quell'amante terribile arrivò al punto di versargli per più giorni un veleno nelle bevande, sperando ch'egli morisse.

Un'altra menzogna (smascherata poi dallo stesso Torresani) era quella dell'ufficiale austriaco, amico della principessa, e settario.

L'idea che nell'esercito vi fosse un settario e che questo avvicinasse il vicerè Ranieri, fece prender fuoco alla polizia. Le indagini non mancarono (immaginarsi!); ma condussero a smentire il Doria. Nessun ufficiale austriaco poteva essere amico della Belgiojoso; nessun ufficiale cospirava; meno poi quello che, di tratto in tratto, avvicinava il vicerè, e ch'era un povero invalido pensionato, il colonnello degli ulani Woyma.

Il tradimento e la scelleraggine del sedicente Raimondo Doria di San Colombano furono noti ben presto ai cospiratori di Genova; i quali decisero di punirlo colla morte. Nella primavera del 1833, pochi mesi dopo le denuncie contro la Belgiojoso, uno sconosciuto, di bell'aspetto, cominciò ad avvicinare Maria De Bernardi, servente del Doria, o del signor Stefano De Gregorio, come il ribaldo si faceva chiamare a Milano. Una mattina, passando essa per lo stradone di Sant'Angelo col povero bambino del Doria al collo, incontrò quel signore e rispose ai discorsi ch'egli cominciò a tenerle con modi gentili. E, per più mattine, l'incognito (che si limitò a dichiarare chiamarsi Luigi) aspettò sulla via la domestica, offrendole la propria amicizia.... Una volta, nella tranquilla via Borgonuovo, pochi passi discosto dalla casa della bella e capricciosa contessa Giulia Samoyloff, il signor Luigi e la domestica, che andavano amichevolmente insieme, incontrarono un uomo di signorile apparenza; e il signor Luigi lo fermò subito dicendogli: “Questa è quella donna, che tiene in custodia il ragazzo del signor Stefano De Gregorio!„ Il sopraggiunto nulla disse; accarezzò il bambino, e se n'andò.

Alle cinque della mattina del 1º maggio di quell'anno 1833, il signor Luigi e la Maria si trovano soli, solissimi, nel più intimo colloquio.... fuori di Milano, alla Cascina dei Pomi; quand'ecco l'uomo afferra furente per il collo la disgraziata, e le intìma, se vuole aver salva la vita, d'avvelenare il De Gregorio, con una boccetta che leva di tasca e le porge. La donna rimane allibita; ma recisamente rifiuta di macchiarsi d'un delitto. L'altro l'atterra, colpendola forte coi pugni sullo stomaco e al capo; ma ella rifiuta ancora, rifiuta sempre, risolutissima. E il sicario le mena due coltellate al collo, e fugge.

La De Bernardi con sforzi sovrumani si leva dal suolo, e, fermando con un fazzoletto il sangue che le sgorga dalla gola, si trascina penosamente in città e batte alla porta d'una propria sorella maritata al fabbro ferrajo in via San Spirito, poco lungi, adunque, dalla casa nella quale il Doria alloggiava sulla Corsia del Giardino. Il primo pensiero della sventurata, prima ancora di porsi a letto, è di scrivere al suo padrone. Ecco la sua lettera con tutti i suoi errori:

All sig. Stefano,

“Scrivo a lei in questo momento che mi è permesso già che sonno stata mortalmente asasinata per salvare a lei la vita il resto solo comunicherò a viva voce però credo bene a prevenirlo si guarda bene già che lo vogliono a se sinare, non si sgomenti e venga da me il più presto possibile.

“di lei sua fedele serva

“Maria De-Bernardi.„

In quella stessa sera, uno dei capi più volpini della polizia, il noto Bolza, va a interrogare la servente ferita, la quale geme sul letto della sorella, ed è in preda a delirio, a vomiti, sputa sangue. Al chiarore d'un piccolo lume, il Bolza scrive un processo verbale, strappando a mala pena qualche parola dall'inferma. Quelle pagine, vergate, sulla ruvida carta dei protocolli, dalla scrittura pesante, nera dell'accanito poliziotto, rivelano tutta la scena tetra, miseranda del momento: par di sentire le risposte trarotte della donna ferita, quasi le sue parole gorgoglianti nel sangue, là in quella squallida camera di poveri operaj semibuia. La preoccupazione della servente, che per salvare il proprio padrone giacea vittima per lui, — la preoccupazione che la tormentava più delle ferite era quella d'aver mancato di fede.... come dirlo?... di fede amorosa verso il padrone. Era l'idea del tradimento d'amore commesso verso di lui che la facea smaniare; non la coscienza del tradimento del marito, povero operajo della Zecca, il quale, forse, in quel momento, chi sa? coniava le monete destinate al Doria. Tale si manifesta, qualche volta, il cuore della donna nelle modeste classi sociali, come nelle alte. Più tardi, la donna ferita viene interrogata da Paride Zajotti, per istrapparle altri dati affine di costruire un edificio d'accusa; ma quella disgraziata, sempre più affranta, non può che ripetere le dichiarazioni già fatte prima al Bolza. Il medico giudiziario dottor Caimi, visitandola cinque giorni dopo, trova che le due ferite purulente ai lati della laringe non sono pericolose di morte; pericoloso gli sembra, invece, un colpo preso sullo stomaco; e per salvare l'infelice, le cava sangue!...

Tale il fatto. Mai si seppe chi fosse il feritore e il suo misterioso compagno di via Borgonuovo; e ignoriamo se la povera servente sia vissuta dopo la tragedia; ma abbiamo motivo di credere che ne sia morta. Infatti, quando la polizia cadde nel sospetto che il feritore della De Bernardi fosse un giovane straniero, il quale viveva meschinamente a Milano dando lezioni d'inglese, certo Gregorio Codeville, denunciato qual carbonaro dal Doria, non fu possibile che il Codeville venisse fatto vedere alla domestica ferita: della disgraziata non si fa più parola!... E il Tribunal criminale, con sua nota del 22 maggio 1833, scrive alla polizia che lasci stare il Codeville, nulla risultando di criminoso contro di lui. Neppure i due arrestati Felice Argenti e Giovanni Albinola, nelle loro aperte confessioni davanti al tribunale, accusarono il maestro d'inglese. Bensì l'Argenti narrò che Raimondo Doria voleva uccidere il proprio fratello servendosi del pugnale dell'Albinola, per punire, diceva il Doria, in quel fratello uno spergiuro della Carboneria; in realtà, diceva l'Argenti, per impadronirsi degli averi di lui.

Ma come finì quello scellerato?... — Chi può saperne la fine?...

Cesare Correnti, che, liberata la Lombardia, prese qual proprio intimo segretario un Sandrini, già applicato alla cancelleria segreta del Governo austriaco prima delle Cinque Giornate, e poscia convertito al liberalismo, tentò pur egli ricerche sulla fine di quel tristo; ma invano. Non la conosceva neppure il Sandrini, il quale avea copiato, un tempo, con la sua bella scrittura, più di qualche nota sul caro marchese Doria, e che essendo “dentro alle segrete cose„, molto, troppo sapeva di cospiratori e di spie, tornando utile anche in questo al Correnti per la valutazione di certi uomini vecchi inverniciatisi a nuovo....

In alcuni Ricordi di Giuseppe Mazzini, affidati alla Biblioteca Nazionale di Firenze, e che non recano la scrittura dell'agitatore (scrittura simile un po' all'ebraica) nè lo stile suo corrusco, si legge che il Mazzini fu ascritto all'ordine della Carboneria da Raimondo Doria; ma sappiamo che il Mazzini non seguì a lungo la Carboneria, bensì, spirito originale e indipendente, le eresse un contro-altare: appunto la Giovine Italia. Non conosciamo quali relazioni dirette passarono poi fra il Mazzini e il Doria: conosciamo bensì il processo che, in seguito alle propalazioni del Doria, i tribunali di Milano ordirono contro la principessa Belgiojoso. — Vediamolo tosto.

La Principessa Belgiojoso

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