Читать книгу Solo Per Uno Schiavo - Svyatoslav Albireo - Страница 3

CAPITOLO DUE

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Un bellissimo ragazzo, poco più che adolescente, passò accanto ad Aletta. Lei lo vide, sorrise, allungò una gamba e gli fece lo sgambetto.

Lui bestemmiò che manco uno scaricatore di porto. Sollevò lo sguardo e la fissò. Quegli occhi color ciliegia, se avessero potuto, l’avrebbero uccisa. Aprì la bocca e le disse, “Scusate tanto,” col tono che nessuno mai assocerebbe a delle scuse.

Aletta rimase a bocca aperta. Non era proprio la reazione che si aspettava. Ma non si perse d’animo e gli offrì il suo sorriso più smagliante. Poi, senza guardarlo, si sistemò meglio sulla sua poltrona.

“Siediti, ti offro un caffè,” offrì, soave, sempre senza guardarlo. Di proposito.

La risposta non arrivò. Anche se quel silenzio fu molto eloquente.

Finalmente, si voltò a guardare il giovane. A quel punto, si aspettava di trovarlo in ginocchio. Terrorizzato per aver osato urtare una dei Padroni, gli occhioni belli pieni di lacrime. Semplicemente perfetto.

Ma lui non c’era.

Scomparso. Puf. Come se non fosse mai stato lì.

Si rese conto, in pratica, che aveva parlato da sola. Come un’idiota qualsiasi. La donna arrossì di umiliazione. Quello Schiavo presuntuoso aveva osato non implorare pietà. Le odiava, quelle puttane boriose. Se la facevano coi Corifei e non valevano assolutamente nulla, se non fosse stato per la loro bellezza. Si trovava sulla nave per incontrare Alsheh Mareh, la Lady Gaga di Firokami. Sicuro come la Morte che era quella la ragione. E se ne sarebbe pentito, eccome, per tutta la vita.

Aletta ghignò, pensando agli altri prima di lui. Tutti caduti tra le grinfie di Stine e mai più risollevatisi. Sarebbe successo anche a quel San Sebastiano. Sarebbe stata proprio lei a fare in modo che accadesse.

***

I Padroni adoravano sfondare culi. Non si curavano di prepararli prima. Era -quasi- voluto. E Stine non faceva differenza. Anzi, era maledettamente violento. Più degli altri. La sua era una missione. Doveva, per forza, dimostrare costantemente che lui era un Padrone e loro degli Schiavi. Nel caso di Al, una Bestia. Quindi, ancora più inferiore.

“Allora, troia, ti piace?” gli sussurrò all’orecchio.

“Sì, Padrone,” rispose, come d’abitudine, lo Schiavo. Mancava solo sbadigliasse.

Ma Stine non ci badò. Probabilmente, dato che non lo riguardava personalmente, nemmeno se ne accorse. Gli sborrò dentro, senza tante cerimonie. Poi, si sdraiò sul letto. Completamente rilassato, ignorò del tutto la presenza accanto a lui. Il poveraccio rimase col culo in aria, in attesa di ordini. Era ancora duro.

“Posso venire, Signore?” chiese, infine, quando divenne insopportabile. Di certo, un Padrone non l’avrebbe fatto di sua sponte.

“Apri la bocca. Poi, potrai venire.” E l’uomo lo fece inginocchiare. Dopo di che, iniziò a pisciargli tra le labbra.

Al sapeva che non se la sarebbe cavata solo con una chiavata a secco. E, senza alcuna emozione, cercò di non perdersi nemmeno una goccia. Nel frattempo, si toccava furiosamente.

Quel Padrone, tanto decantato nella sua depravazione, lo annoiava da morire.

Tutti loro lo annoiavano da morire.

Credevano di essere stocazzo, ma erano fotocopie gli uni degli altri.

Pensavano le stesse cose, agivano nella medesima maniera. E, da bravi narcisisti patologici, erano convinti di essere tutti particolari ed eccentrici.

Pisciargli in bocca. Wow, che originalità.

Ovviamente, si tenne tutto per sé e cercò di bere il più velocemente possibile. Ma il piscio gli finì comunque nel naso e sugli occhi. Quando finì, si ritrovò in una pozza dorata.

Stine, soddisfatto e tronfio, cominciò a rivestirsi. Molto lentamente. E osservava quella grande e terribile bellezza che si veniva addosso.

“Pulisci,” gli ordinò, poi.

Un’altra richiesta molto originale. Leccare il pavimento. Al stava lottando con se stesso per non cadere addormentato nei suoi stessi liquami.

Quindi, si chinò in avanti e cominciò a leccare. Stine lo guardava col sorrisino che tutti i siti di seduzione online, palesemente salvati tra i preferiti del Padrone, definivano da-stronzo. Al provava sempre qualcosa di molto simile alla pietà, per tale mancanza di consapevolezza di sé. Era palese quanto quel tipo stesse godendo nell’umiliare lo Schiavo. Era davvero convinto di essere il primo, il solo e l’unico ad averlo fatto. Faceva quasi tenerezza. Quasi.

Una volta terminato tale teatrino, il Padrone tirò il guinzaglio e si diressero -insieme- sul Ponte. Tutti si girarono a guardare la Bestia.

E i sorrisini da-stronzo si sprecarono.

***

Aletta, vedendo Stine e Al all’orizzonte, ridacchiò. Le piaceva, quella vista. Eccola, la differenza tra uno Schiavo e un Padrone. Si può essere più alti, più forti, più attraenti. Ma è la forza di volontà che gioca il ruolo di punta.

Quando la coppia si avvicinò, la donna mise su un’espressione contrariata.

“E dov’è che sei stato?” chiese.

Stine posò il guinzaglio, accese una sigaretta e si guardò attorno. Come se non avesse proprio nulla a che fare col ritardo dello Schiavo.

“Mi dispiace, Signora. Stavo aiutando Padron Stine a rilassarsi.”

“E io ti punirò per questo. L’hai fatto apposta? Ti piace essere castigato? L’avrai praticamente implorato di scoparti. Sai fare solo quello! Non sei nemmeno in grado di versarmi un bicchiere d’acqua!”

Si sentì subito meglio.

Prendersela con gli Schiavi aveva il potere di farla stare bene.

La vergogna provata poco prima, dimenticata. In quel momento, qualcun altro era più umiliato di lei. O così lei pensava. E ciò le bastava.

“Mia Signora, Voi siete la mia priorità. Ma non posso rifiutarmi, se un altro Padrone mi comanda. Sono uno Schiavo. No è una parola che non posso dire. Mai.”

Nemmeno una nota di colore trasparì da quella voce.

Ma un brivido dolce percorse la schiena della donna, a sentire quelle parole.

Il Dio Pagano era talmente umiliato da essere stato costretto a giustificarsi. Bene.

“Sdraiati sul fianco,” gli ordinò.

Quello obbedì, subito. Sapeva cosa la donna voleva. Sapeva tutto in anticipo. Perché gli faceva sempre le stesse pallosissime richieste.

“Toccati, puttana, lo so che ti piace,” gli sibilò.

Lo Schiavo cominciò a toccarsi. Veloce, ma senza la minima passione.

“Mettici più impegno! E non dimenticarti i coglioni,” aggiunse Aletta, mentre gli spingeva la base rigida del guinzaglio nel culo già martoriato.

La Bestia iniziò ad ansimare.

“Fa male, Padrona. Fa tanto male.” Ed era vero. Ma non voleva certo che si fermasse. Il dolore era una consolazione. Solo così sapeva di essere ancora vivo.

“Vi prego, Signora,” implorò, poi, falsissimo.

E Aletta sorrise. Ci credeva davvero, povera stella.

“Pensi, forse, che non lo sappia? Non distrarti! Più forte!”

Stine, nel mentre, continuava a guardarsi attorno.

“Hai mica visto un ragazzo? Giovane, bellissimo, occhi rossi, sfrontato da morire.”

“Sì, era qui. Se n’è andato,” rispose la donna, facendo dentro-fuori con la base del guinzaglio. Poi, aggiunse, “Hai già organizzato qualcosa?”

“L’ho invitato al Tavolo, per cena.”

“Awww, ma quanto sei premuroso!”

E scoppiò a ridere, lo stesso suono di mille vetri in frantumi. Ossia, fastidioso.

Al stava tentando di venire, in fretta, ma quel rumore lo mise a dura prova. Voleva ascoltare i discorsi dei due Padroni, ma prima doveva portare a termine l’ordine ricevuto.

Quindi, si dedicò alle sue personali fantasie.

Un prato verde, tanti fiori bianchi, una scogliera stagliata sul cielo azzurro, una casetta dal tetto verde, un orticello, un amante grazioso, risate sulla spiaggia, tenersi per mano, ascoltare il Mare cristallino e i suoi misteriosi sussurri. Il sesso sarebbe stato piacevole. Niente forzature, niente manipolazioni. Nessuno dei due avrebbe provato dolore. L’amore avrebbe reso tutto fantastico, nient’altro. Avrebbe guardato il suo innamorato negli occhi, con rispetto, sempre. Gli avrebbe sorriso e goduto della sua felicità. L’avrebbe fatto stendere sull’erba, lo avrebbe baciato ovunque e poi-

Al diede un ultimo strattone e si venne in mano. Aletta buttò il guinzaglio per terra, mentre la Bestia riprendeva fiato.

“Vorresti guardare l'acqua?” gli chiese, soddisfatta.

“Sissignora,” sospirò lo Schiavo.

E Aletta recuperò il guinzaglio, legandolo al tavolo.

“Torno a prenderti prima di cena.”

“Grazie, Signora.”

La Padrona sentiva gli sguardi invidiosi delle altre donne su di sé. E quanto le piaceva! Poi, gli accarezzò la spalla e si allontanò.

Finalmente solo, lo Schiavo si guardò attorno.

Niente sedie.

Ovvio.

Ma anche se ci fossero state, non le avrebbe usate. Da seduto, non avrebbe potuto vedere l’Oceano. E se Aletta si fosse accorta che non stava obbedendo, avrebbe potuto decidere di inventarsi qualche altro passatempo.

Le sue interiora si contrassero. Il dolore, stranamente, non era ancora scemato. Sussultò, quando si mosse troppo bruscamente. Fortuna che non c’era nessuno, a vedere che stava effettivamente soffrendo. Perché avrebbero voluto farlo soffrire un po’ di più, quei pezzi di merda.

Era diventato Schiavo all’età di otto anni. Prima, aveva vissuto in un orfanotrofio gestito dalla Chiesa. La stessa Chiesa che, poi, lo aveva introdotto al Mondo della Schiavitù della Contea di Dora. Firokami autorizzava le peggiori perversioni. Avere più di una confessione religiosa non era nulla di speciale. Nessuna era più importante di un’altra. I rappresentanti di ciascuna avevano gli stessi diritti e doveri. E le stesse depravazioni. Forse, erano pure più sregolati dei comuni mortali.

Quella era la sua vita, il suo stato sociale.

Talmente prezioso che non gli era nemmeno permesso di andarsene in giro da solo. Sempre legato, spesso rinchiuso. Non si poteva correre il rischio che venisse rubato. O, peggio, che scappasse. Perché lui, di fuggire, ci pensava continuamente.

Ma dove sarebbe andato? Cosa avrebbe fatto? Completamente nudo, senza denaro, senza la minima conoscenza. Forse, avrebbe potuto sopravvivere nella foresta. Ma come ci sarebbe arrivato? Fino a che punto sarebbe sopravvissuto? E quando l’avrebbero catturato? Non voleva pensarci.

Fantasticava su indipendenza ed emancipazione, ma non gli sembrava il caso di agire.

Da quando era bambino, gli era stato inculcato che fosse solo un giocattolo, nato per quel motivo ed esclusivamente quello. Era stato nutrito a pane e umiliazioni.

La verità era che aveva paura della Libertà. Non la conosceva. Come poteva mantenersi, da solo? Certo, sapeva cucinare e tenere pulito. Ma come avrebbe pagato la casa dove avrebbe vissuto? Non sapeva niente di concreto. L’ignoto lo spaventava più degli abusi subiti a Dora da tutti quei preti pedofili.

I suoi pensieri furono interrotti da un respiro affannoso.

Sicuramente l’ennesima Padrona che si toccava ammirando i suoi muscoli. Patetico. I suoi sogni di un amante gentile, con cui vivere in una casetta sulla scogliera, divelti all’improvviso.

Si voltò subito, perché non sia mai che quella Padrona pensasse fosse un maleducato. Ma di fronte a lui, un altro Schiavo. Uno di lusso, con gli occhi che sembravano ciliegie. Faceva sicuramente parte dell’Élite di Firokami. Quel colore di occhi era troppo raro per non essere altrimenti.

Al gli sorrise. Erano colleghi, dopotutto. Non aveva nulla da temere dalla concorrenza.

Il ragazzo si avvicinò. Era bellissimo.

“Ciao,” disse, timido.

“Ciao,” rispose Al.

E il nuovo arrivato si insinuò accanto a lui. Senza invito.

“Ti fa male?” gli chiese, con dolcezza.

Al non aveva mai incontrato prima d'ora uno Schiavo D’Alto Borgo che si preoccupasse per gli altri. Avide puttane, li definiva Aletta. E, per quanto gli costasse ammetterlo, aveva ragione. Quei giovani amavano gioielli e lingotti. Li amavano più di loro stessi. Al era sempre più confuso. Il ragazzo gli accarezzò la guancia, dove il piscio si era incrostato. La Bestia sussultò. Si sentiva a disagio. Perché? Emozioni rischiose si stavano pericolosamente risvegliando in lui.

Scosse la testa, fissando il ragazzo. “No,” disse.

Quella fragile, perfetta bellezza lo fissava a sua volta. Ovunque. Poi, lo sguardo si bloccò sul cazzo della Bestia. E sorrise. Moscio, sì, ma bello e fiero. Era quasi primordiale. E, sotto quello sguardo cremisi, Al divenne duro. Per l’ennesima volta in pochissimo tempo. Imbarazzo. Quella parola non descriveva affatto lo stato in cui versava. Tale sensazione era quasi sconosciuta, certamente dimenticata. E scattò in piedi. Il giovane lo guardò, dal basso verso l’alto. Poi, scoppiò a ridere. Profumava di fresco, ma anche di caldo. Di noci, ma anche di fiori. Dolce, ma avventato. Si alzò anche lui. Aveva addosso solo un paio di mutandine. Talmente ridotte che, se anche non le avesse indossate, sarebbe stata la stessa cosa. Si avvicinò, felino, e cominciò ad accarezzare l’erezione della Bestia. Il ragazzo era molto più basso e gracile di lui. Quindi, si sollevò in punta di piedi per poterlo baciare. Fu a quel punto che Al si risvegliò.

“Cosa stai facendo?”

“Cerco di rimorchiarti,” grugnì il giovane, mentre respirava -a pieni polmoni- l’odore dell’altro.

“Qui?!” E Al si stupì di se stesso. Da quand’è che era diventato così timido?

“Certo che no! Andiamo nella mia cabina,” rispose il ragazzo, acido e seducente, mentre tirava il guinzaglio.

Quel corpo era così reale, così allettante. Al, d’improvviso, lo strinse. Dopo di che, si chinò in avanti e lo baciò. Le mani che scivolavano sulle spalle e la schiena di quel giovane sconosciuto e sfacciato.

Si staccò.

“Sono uno Schiavo,” disse, aggrappandosi alle ultime vestigia del suo buonsenso.

“Lo vedo,” gli sorrise l’altro, accoccolandosi meglio tra le sue braccia.

Poi, il baratro.

Accadde tutto molto in fretta. Le mutandine sparirono, le gambe si spalancarono, la schiena si arcuò, le labbra gemettero. La Bestia si spingeva, nervosa, dentro quel culetto oh-così-stretto e oh-così-impaziente. Tutto scomparve. C’erano solo loro due. L’ultimo barlume di razionalità dirottato all’urgenza di non venire subito. Impresa titanica, con quell’acerba bellezza che gli si agitava in grembo. Come non venire, con tutta quella pelle sotto le dita?

“Di più, ti prego, ancora,” gli sussurrava quello, dopo ogni spinta.

Dentro, fuori, su, giù.

Lo Schiavo cercò in tutti i modi di resistere, mentre seppelliva il viso tra i riccioli del ragazzo e il cazzo nel suo culo.

Ancora dentro, ancora fuori, ancora su, ancora giù.

I gemiti si fecero sempre più acuti. I gridolini si trasformarono in urla. Le carezze vennero sostituite da graffi. Poi, quel giovane venne. E fu la cosa più bella che Al vide in tutta la sua vita. Ma il piacere fu talmente forte da diventare insostenibile. Il ragazzo tentò di allontanarsi da quello spiedo che lo stava devastando. Ma la Bestia non ci stava. Nossignore. Non aveva la minima intenzione di lasciarsi scappare quel gioiello prezioso. Quindi, fece l’unica cosa possibile. Gli afferrò i fianchi, lo immobilizzò sulla sua erezione e martellò -incessante- quel posticino particolare. Profondo, tra le natiche, l’entrata per il Paradiso.

Artigli affilati gli lacerarono la pelle delle spalle. Ma il suo orgasmo fu così perfetto che lui nemmeno li sentì.

Strinse forte quell’angelo tra le braccia. Non voleva lasciarlo, ma come poteva trattenerlo? Non aveva nulla.

Nulla.

Per la prima volta, il desiderio di Libertà si fece impellente.

Doveva trovare una soluzione. Doveva strappare quelle catene. Doveva scappare, con lui.

Ma dove? Verso l’Oceano?

Doveva fare qualcosa. Qualsiasi cosa.

“Come ti chiami?” gli chiese. Perché, ovviamente, i convenevoli prima di tutto.

Ma non sentì mai la risposta. Si voltò, d’improvviso, percependo una presenza accanto a sé.

Melinda, un’amica-nemica di Aletta, era a un palmo da lui. E sogghignava sadica.

“Vattene,” disse, quindi, spingendo via il ragazzo. “Non avvicinarti mai più a me.”

Ma mentre lo disse, qualcosa gli morì dentro. Il giovane lo guardò e la Bestia sperò che il suo sguardo contraddicesse in toto le parole appena pronunciate. Lui lo fissò, le palpebre pesanti di lussuria, le labbra gonfie di baci. Un attimo dopo sparì tra la folla.

Erano circondati.

Doveva agire così.

Era l’unico modo.

L’avrebbero portato via.

Via da lui.

No, non l’avrebbe permesso.

Sarebbe morto, piuttosto.

Solo Per Uno Schiavo

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