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CAPITOLO TRE

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Melinda si avvicinò e gli toccò il culo. Così, di botto, senza senso. Al non si voltò. Non subito, almeno. Doveva prima affrontare quella tempesta di sentimenti e sensazioni, così estranei, che gli si agitava dentro.

Un sospiro, prima di tornare alla realtà.

La donna afferrò il guinzaglio e lo condusse al Ristorante.

“Stasera sarà davvero molto divertente. Se ti comporterai bene, avrai una bella sorpresa,” gli promise. Poi, sorrise e si strizzò i seni tra le mani. Al, senza nemmeno pensare, si inchinò e iniziò a baciarli. Puzzavano di borotalco.

“Ottimo lavoro,” commentò Melinda.

Al lanciò uno sguardo alla folla. Nessuna traccia del ragazzo, logicamente.

Nel Ristorante, Aletta recuperò il suo Schiavo. Lo fece inginocchiare davanti alle sue cosce aperte e non ebbe nemmeno bisogno di dirgli cosa fare. Tuttavia, nessuno ci badò. L’intero locale stava osservando il Quarto Tavolo, sì, ma era Stine colui che attirava l’attenzione. Tutti erano in attesa di vedere la Preda. I più maligni si aspettavano che il Padrone si desse alla caccia.

Finalmente, Ad fece il suo trionfale ingresso in sala. Non sembrava alla ricerca di niente e nessuno, non si guardò mai attorno, ma si diresse -sicuro- verso la tavolata numero Quattro. Le mani come in preghiera, la testa bassa. Gli uomini presenti divennero quasi duri, a quella vista, mentre le donne si incazzarono come faine. Quel bimbo era più bello di loro! Aletta si innervosì talmente tanto da stringere pericolosamente le cosce attorno alla testa della Bestia. Fu un miracolo che non finì decapitato. Ma lo Schiavo non si accorse del suo arrivo. Né sentì nulla, della conversazione successiva. Peccato, perché ne sarebbe stato orgoglioso.

Alcuni uomini iniziarono a proporre eventuali turni col nuovo arrivato, qualcun altro affermò di averlo visto per primo.

Stine non si scompose. Anzi, si rilassò meglio sulla sedia.

“Ciao,” sorrise il ragazzo.

“Salve,” rispose il Padrone, battendosi su un ginocchio come invitandolo a sedersi.

Troppo facile.

“Sto andando via. Sono solo venuto a riportarti una cosa che hai dimenticato, stamattina, quando ci siamo visti.”

E il cocktail, col mozzicone di sigaretta che ancora ci galleggiava dentro, venne rovesciato addosso al sorriso da-stronzo dell’uomo. L’intero Ristorante trattenne il fiato. Poi, il Padrone bestemmiò e cercò di afferrarlo. Ma il ragazzo aveva tutta l’intenzione di vendere cara la pelle. Artigliò quell’avanbraccio e lo sfregiò.

“Non ho paura del sangue arterioso, io,” sibilò. “Non avresti dovuto afferrarmi a mani nude. Avresti dovuto spararmi, in mezzo agli occhi. Così mi avresti fermato. Forse.

Sporca di sangue, la mano si mosse in un gesto di saluto. Uno particolarmente vezzoso.

Poi, quella bellezza si girò e se ne andò.

“Bastardo!” esclamò Aletta. Tirò forte i capelli della Bestia, allontanandolo da sé e ridandogli l’udito. “Non ho più voglia di venire.”

Poi, gettò un piatto a terra. Cocci e cibo si mischiarono pericolosamente.

“Mangia!” ordinò.

E Al obbedì. Senza il minimo interesse né per il sushi di prima qualità né per la porcellana affilata. Tutto ciò fece imbestialire ancora di più la sua Padrona. Melinda approfittò della confusione per calpestare ogni singolo boccone. Perché così le andava. Poi, disse all’altra donna, “Non essere così arrabbiata. Vedrai che Stine lo troverà e se lo scoperà a dovere. E domani verrà a chiedere scusa, come si confà alla sua specie.”

E rise. “Questo lo rende ancora più interessante, non trovate?” aggiunse, poi.

Nessuno rispose.

Stine andò in bagno. Quando tornò, sembrava quasi non avesse subito danni. Amir, il proprietario di una rete di supermercati, si mise subito a leccargli il braccio offeso.

Il Padrone guardò in direzione di quella puttanella senza vergogna. Ma era troppo lontano, ormai. Soprattutto, non prestava la minima attenzione né a Stine né alla sua indignata squadra di supporto. Era come se non fossero nemmeno lì.

L’uomo era furioso.

“Gli costerà molto caro,” promise.

E non era tipo da minacciare invano.

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