Читать книгу Al di là - Alfredo Oriani - Страница 5
PRIMA
ОглавлениеUne personne de ma connaissance disait: Ie vais faire une assez sotte chose, c'est mon portrait
Pensées. — Montesquieu.
Siamo a Bologna, una delle città più ricche e noiose d'Italia.
In un mattino del maggio 1875 un giovane traversava la piazza d'armi, vasto quadrato chiuso da case borghesi, verso la Montagnola, che ergendosi sovra esso in largo spianato coperto di grandi alberi, è tutto il passeggio pubblico della città. Camminava affrettatamente e il suo passo non era di uomo libero in terra libera, andatura trovata da Guerrazzi e compresa da nessuno, ma di persona preoccupata; e l'aspetto signorile malgrado gli abiti negletti. Portava il cappello e la testa addietro mostrando una fronte corrugata con un volto pallido di una tale pallidezza biliosa, più viva per la barba nerissima: e il volto era maschio di lineamenti, qua e là scorretti come alla punta del naso e alla bocca, di cui le labbra piuttosto tumide, massime il superiore, avevano una espressione di sensualità e di alterigia. Gli occhi lucevano grandi e neri, la sua cosa migliore; e la persona sviluppavasi aitante con spalle larghe e petto prominente, malgrado il difetto delle gambe lievemente curve in dentro e natanti dentro calzoni larghissimi a seconda della moda.
Presto giunse al limite della piazza, e salendone il pendio erboso si trovò sulla Montagnola. La mattinata era stupenda, il cielo limpidissimo, il sole abbagliante, ma il luogo triste malgrado la sua destinazione e l'ora. Quegli alberi densi, tutti di una famiglia, di una forma e di un'altezza, piantati con regolarità scrupolosa, hanno un'aria da cimitero: vi si sente troppo il lavoro dell'uomo e la smania della simmetria: non una linea è spezzata nel quadro, non un colore, una gradazione almeno attenua l'impressione del loro verde appannato: il piano netto, senza una pianta o un cespuglio; e solo i fusti alti, dritti, biancastri che paiono colonne. La campagna vi è assente, e la natura e l'arte vi fanno una figura egualmente goffa, senza una fontana che mormori o una spalliera che sorrida coi fiori e parli cogli odori: nessuna statua vi ferma, appena se qualche sedile vi aspetta, come le due vasche di pietra rossa ai lati del viale sulla piazza d'armi attendono l'acqua solamente dal cielo, e si riempiono solamente colla neve nei tristi inverni. Quelle due vasche sono melanconiche e forse anco pericolose pei ragazzetti che vi giocano dintorno la sera, intanto che le mamme cicaleggiano fra loro, o le serve incaricate di vegliarli si distraggono nell'ammirare la superba montura di un sergente di cavalleria, che cavalcando gloriosamente a piedi, passa loro sulla fronte come su quella di uno squadrone di coscritti. Se invece di pretenderla a bosco, la Montagnola fosse un giardino, pochi la varrebbero, ma con quegli alberoni che stando in mezzo tolgono ogni vista d'orizzonte senza offrire comodità di colloqui, senza fiori e senza acqua, è uno dei passeggi più poveri ed antipatici.
Al di sotto corrono le mura, divise da una strada, cui si discende per un'altra parallela, ma grande e la sola ben ombreggiata da vecchi ippocastani.
Il giovane si fermò al parapetto di una specie di balcone, che interrompe la siepe di confine, osservando le file lontane dei pioppi rigare in più sensi la pianura e l'orizzonte; poi si diresse verso un angolo vestito di boschetti adolescenti, e cadde sul primo sedile.
Sembrava assai triste ed era solo.
Rimase lungo tempo colla fronte nelle palme, indi rialzandola vivamente, come chi ceda ad un pensiero improvviso, trasse un taccuino e colla matita prese a scrivervi febbrilmente.
Leggiamo.
«E avanti... Ventitre anni mi son passati sul capo, ma non ho inteso che gli ultimi cinque; il loro volo era freddo e le loro ali mi scorticarono la fronte: una volta guardandomi nello specchio quel segno mi sembrò al pensiero puerilmente orgoglioso il solco di un diadema che avrei un giorno portato. Apersi i volumi dei grandi, lessi le pagine immortali e piansi di ammirazione e di invidia. E nella notte vennero a visitarmi immagini sublimi, e sedute sul mio letto in colloqui, che non saprei più ridire, mi chiesero col sorriso della donna innamorata che dessi loro una qualche sorella. Quindi sognai di essere grande, mi percossi il petto ed ascoltandone l'urlo profondo mi parve di leone, onde esclamai: Sarò re! Ma le immagini presto dileguarono e piansi ancora, poi scrissi. I pensieri mi caddero dalla penna come le gocce di sangue dalla mannaia del carnefice; i saggi mi sorrisero di compassione e sorrisi io pure...
«Che sarà dunque la vita? E questa domanda morivami intorno senza risposta. Guardai, e vidi uomini logorarsela con micidiale fatica al solo scopo di mantenerla, altri consumarla nella noia in traccia del piacere, altri investigarla quasi la conoscenza ne potesse cangiare il modo o aumentare la durata, altri che la maledivano pensando al giorno di disfarsene, altri pochi che se ne disfacevano addirittura. Alcuni, che interrogai, mi mostrarono una donna, una borsa, un ciondolo, e non mi appagarono. Che sarà dunque la vita? Ne chiesi alla natura, e mi rispose; la madre e la figlia della morte: onde ne seppi quanto prima. E intanto mi sentivo come un viaggiatore stanco e sprovveduto che dovesse camminare senza strada, nè meta; la terra mi appariva sterile, il cielo una cappa di piombo come la volta di un immane sepolcro. Così durò finchè mi splendettero nella mente le visioni delle figure scomparse: poi mi si fe' buio nell'anima come intorno e mi calmai; l'uomo aveva ucciso l'artista.
« — Ora, mi dissi, camminiamo confuso fra la folla che si urta, schiamazza e muore. La vita è una lotta inutile; lottiamo per lottare, per opprimere, per essere oppressi; tutto sta nei sensi, nella gioventù e nella salute, e se la felicità deriva dalla ubbriachezza, trattiamo la fantasia da sgualdrina e con l'inno facciamo una canzonetta. L'aureola della gloria è fosforescenza di legno imputridito, luce senza calore; l'amore una melopea da educande; la fede un vestito di fanciullo che indossato da uomo rende ridicola la persona e difficili i movimenti...; la speranza... oh essa è la polvere che sollevasi sulla strada e la nasconde — non vedendo ove si vada, nè a che distanza sia la meta, non possiamo figurarcela vicina e quale meglio ci talenta?
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«Quando ebbi composto Ugo nel sepolcro, gettai la penna e presi lo schioppo. Nato sui monti e partitone, vi ritornai, e li corsi — com'eran belli! Spesso giunsi sulle loro cime coll'alba, e vedendo i suoi raggi stendersi sui densi castagneti, mi punse il desiderio di passeggiare sulle loro foglie lucenti come sopra un tappeto. Spesso salutai collo schioppo il sole che sorgeva, e nel tuono ripetuto e prolungato intesi una voce che mi diceva: Sii forte, imitami — io salto di rupe in rupe, non mi arresto alla palizzata di un bosco, al muro di una balza, alla gola di un burrone; l'eco mi abbraccia, ma sfuggo e vado a morire nello spazio, lungi lungi... Avanti.
«Queste parole mi commossero: scesi dalla collina e mi posai sulla sponda del fiume. L'acqua scorreva lenta, monotona, uguale, irresistibile: la vidi che percoteva le ripe per distendersi, ma invano, e si rompeva mormorando: Avanti...
«La notte, quando la campagna taceva, uscii verso il bosco: nè luna nè stelle. I pini dormivano: ne scossi qualcuno, che mi rispose con un triste muover di capo: Avanti: non mi rammentare che sono condannato all'immobilità, lasciami almeno dormire! Passai oltre: i virgulti mi sferzavano le gambe susurrando. Arrivai ad uno spianato netto ed erboso: v'era un lepre, e fuggì. Mi arrestai, e il vento passando sulla fronte mi bisbigliò egli pure: Avanti!... Per dove? Mi ero ingannato credendo di camminare senza altro scopo che il moto, di lottare senza altra ragione che la lotta?
«Il miraggio del deserto è dunque una consolazione e non uno scherno?
«Avanti avanti, mi zufolava spietatamente negli orecchi la voce, ma nell'anima nessun'altra le rispondeva, e il pensiero, smarrito nei valloni del dubbio, non scorgeva nè sentiero nè orizzonte. — L'uomo aveva d'uopo dell'artista.
«Ritornai a casa, e posato in un angolo lo schioppo mi sedetti allo scrittoio; la mano mi tremava febbrilmente nello stringere la penna, quando una folla entrò silenziosa per la finestra e per la porta. Clarissa, Virginia, Corinna, Margherita, Lelia, Cosetta si sedettero intorno sulle sedie ingombre di libri, e Manfredi, Hebal, Adolfo, Lambert, Faust mi cinsero lo scrittoio.
«Tesi la mano a Faust.
« — Anche tu mi ripeterai: Avanti! Fosti grande: vecchio sui volumi della filosofia un giorno la maledicesti; la intendo ancora quella tua ultima imprecazione — maledetta la pazienza! ma avevi i capelli bianchi e la schiena curva. L'occhio appannatosi sulle pergamene non metteva più lampi, e il sorriso errandoti sulle labbra si sprofondava dietro le gengive sguernite... Eri vecchio, eri un mostro...
« — Ebbene? interruppe Faust.
« — Ti sei mai pentito fra le braccia di Margherita del tuo patto con Mefistofele?
«Faust guardò Margherita sogghignando, ed ella arrossì.»
Due mani che gli si posarono sugli occhi gli fecero cadere il taccuino.
— Una donna!
— Bella?
— Un momento, e le toccava le mani.
— Bella? fu richiesto con voce tremola per la gaiezza di riso rattenuto.
— Sì.
— Da che lo supponete?
— Dalle mani.
— Potreste ingannarvi.
— Non lo temete, contessa; ho sognato troppo ciò che potrebbero offrire.
— Così che mi avete riconosciuta...
— Al profumo, come i fiori.
Le mani caddero, e il giovane volgendosi si vide innanzi una donnina gracile ed aristocratica. Vestiva un abito di seta giallognolo a frange di un colore più carico, col corsetto attillato e la gonna dietro raccolta, scoprendo così le forme della persona più sottile ancora che svelta, colle spalle acute e i fianchi pochissimo sporgenti: difetto più grave per la soverchia lunghezza della vita. E il petto senza busto tradiva appena la presenza del sesso, ma quella sua povertà era così insolente e sembrava ricordare così un'opulenza perduta nelle dissipatezze dell'amore, che più gonfio sarebbe stato meno seducente. Il viso aveva un'eguale fisonomia: di un ovale affilato anche troppo, un po' sgualcito, il naso lungo, la bocca grande coi denti magnifici e una fossetta sul mento. I capelli di un biondo italiano, quindi nè dorato, nè setoso, nè lucido, semplicemente biondo, si rialzavano in una eleganza gran parte nascosta dal cappello calabrese, colla tesa da un canto curva come un piatto e all'altro costretta sul cucuzzolo da una fibbia d'acciaio, dalla quale sorgeva una lunga penna di uccello forestiero.
— Mi guardate? gli rispose a una lunga occhiata.
— Lo sapete pure: mi sono promesso il vostro ritratto.
— Sono troppo bella, che non vi riuscite?
— Allora sarebbe già fatto.
— Gentile...
— Perdono, contessa, ma spero che non pretenderete alla solita bellezza dei vecchi e degli scultori. Nulla è più insipido di quella eterna regolarità di forme, e nulla più facile. In arte, come nel resto, io sono un ribelle e non amo le donne che rassomigliano alle statue. È la vostra bellezza che mi piace, perchè non risulta dalla plastica...
— Che cosa scrivevate con tanta attenzione? lo interruppe accennandogli il taccuino caduto.
— Nulla.
— Vediamo.
— Non capirete il carattere.
— Impossibile, se comprendo il mio.
E rise.
Il giovane le porse il taccuino.
— Sempre scettico?
— Sempre.
— Offritemi il braccio, se non vi rincresce, e camminiamo.
— Bene! ella esclamò.
— Che cosa?
Indi:
— Sicchè rinunciate all'arte?
— Non vi pare che le mie Memorie inutili mi diano ragione?
— Sarò sincera: alcune pagine le saltai, molte mi annoiarono, certe mi divertirono. In quel romanzo si sentiva un convulso, una smania di malato: poi qua e là sfuriate poetiche e ridicole, motti potenti e schifosi: sopratutto mi ripugnava l'affettazione del pessimismo.
— Dunque?
— Avanti! come scrivete: parmi che vi debba essere un certo gusto a fare un romanzo.
— Forse: ma non a scriverlo. La felicità nell'arte è come l'amore nel matrimonio. A venti anni noi sogniamo una commedia, un romanzo come le ragazze un marito, ma queste se ne pentono appena accalappiatolo, e noi scritto il primo ci accorgiamo che il secondo sarebbe ancora più imperdonabile. Brutta malattia sognare l'immortalità sentendosi continuamente mortale, moribondo e talvolta morto per giunta!
— L'immortalità? ecco un voto modesto...
— Vi stupisce? eppure nulla di più comune. Non vi è donna così onesta, la quale nel suo segreto non brami di essere agognata dall'uomo che l'avvicina per quanto brutto, non artista che bene o male scrivendo non sogni l'eternità. Voltaire diceva: che se quella gente, la quale piangeva alle sue tragedie, gliele vedesse scrivere calmo e qualche volta annoiato sulla sua poltrona, le fischierebbe indispettita: se potessero conoscersi i sogni fatti sui libri che appaiono, si leggerebbe forse di più. D'altronde i romanzi sono la gran volgarità.
— Quelli che escono in Italia?
— Oh! di questi non parliamo, ma gli altri tutti che ci vengono dall'estero, benchè infinitamente migliori, valgono ben poco. Il giardino dell'arte, frase officiale, si è isterilito da un pezzo: i grandi vi colsero i fiori, gli altri le erbe odorose, e adesso non restano nemmeno le ortiche. Guardate, per parlare dei romanzi: tutti i generi sono esauriti, storico, intimo, di costumi, fantastico, religioso, sociale: tutte le passioni anatomizzate, disseccate che se ne potrebbe comporre un museo. Dai castelli del Medioevo ai palazzi del Risorgimento, dalle capanne delle pastorelle ai salotti delle cortigiane, tutto fu rivelato e discusso: un giorno corsari misteriosi, l'altro galeotti pentiti: ieri si voleva guarire la società, oggi la famiglia. Si è cominciato dalle donne di vita perduta, poi si è venuto a quelle di vita facile — prima è toccata alla... mi sfugge la parola, adesso si esorcizza l'adulterio: i mariti applaudono benchè un po' tardi, le signore...
— Le signore?...
— Le signore si annoiano e il mondo seguita innanzi. Scrivere per scrivere è fatica; per moralizzare, oltre la noia che si dà, vi è quella che si prova, e non è poca. Davvero non so come si possano leggere romanzi che si rassomigliano tutti come i racconti dei cacciatori: scappa un uccello; sparo, o casca morto o tira dritto. Due si amano — o arenano nelle secche della virtù, o affogano, direbbe un morale appendicista, nella gora della sensualità. Convenitene, contessa: è noioso.
— Oh! e sbadigliò leggermente.
— E poi sempre quell'uomo e quella donna.
— Che cosa ci vorreste? Per fare all'amore come per ballare bisogna ben essere in due.
— Ma che necessità di un uomo e di una donna? Se si balla, siamo al solito uomo stecchito dentro l'abito nero, egli stesso quasi inamidato quanto i solini che gli corazzano il collo, e alla solita donna che perde gli abiti a mezzo la vita, ambedue esemplarmente composti: se si fa all'amore, eccoci ai soliti mustacchi neri che si specchiano negli occhi azzurri.
— Mettete dunque due uomini.
— Due uomini! Giocheranno all'ecarté se hanno quattrini, se no si diranno delle insolenze, per fingere dello spirito.
— Allora due donne.
— Me lo consigliate sul serio?
— Non vi comprendo.
— Pur troppo non è la prima volta. E il giovane le strinse il braccio guardandola fisamente.
— Spiegatevi meglio: aiutatemi a fare che sia l'ultima.
— Subito: all'amante sostituisco una amante.
— Il marito è in salvo.
— Davvero!
— Ma se mi pare che vi corrompiate, ella seguitò con gaiezza. Mi diventate morale... un amore femmineo, puro, delicato... Sarebbe mai per le critiche toccate al vostro Ugo?
— Che! non mi arrendo già per una salva di moschetteria; anche i sovrani si salutano così. Poi il grido: All'immoralità! è un grido di guerra, e io non lo fuggo.
— Sarete solo.
— Ottimista!... Potrebbe anche darsi, ma coloro che mi fischieranno alla ribalta verranno a stringermi la mano fra le quinte, e se non verranno, tanto meglio! Del resto, il mio vero pubblico, il solo competente, questa volta sarebbero le signore belle, poetiche, sibaritiche come voi, e sono troppo signore per ammutinarsi colla virtuosa plebaglia della platea.
— Ma dunque non sarà un amore puro?...
Il giovane sorrise.
— Così eccovi nuovamente infervorato a scrivere.
— Chi ve lo dice?
— Voi, mi sembra.
— Discutiamo: sapete che sono avvocato. Voi mi chiedete un romanzo atteso che... permettetemi questi termini legali, il solo rimasuglio dei miei studii serii, ed io ve lo scrivo, ritenuto che...
— Ne avete una gran voglia malgrado tutte le proteste.
— Non vi affrettate: mi consentite un'ipotesi difficile sul vostro conto?
— Veramente, siete avvezzo ad abusare...
— Supponiamo che il mio romanzo vi piacesse.
— Ebbene? ribattè la signora sorridendo cogli occhi.
— Il romanziere potrebbe sperare altrettanto?
La contessa, che durante il dialogo aveva avuto il tempo di cavarsi i guanti, si grattò con un'unghia, lunga e curva come il becco di un falco, una narice.
— Non rispondete?
— Se non l'ho ancora letto!
— Lo leggerete.
— Quando?
— Neanche io ho preso la penna, ma invece vi piglio la mano.
Si guardò attorno per vedere se erano soli, e suggellò il contratto con un bacio.
Indi rialzando il capo con un'espressione d'ironia e di passione:
— Madama, per questo bacio...
— La monarchia è salvata, non è vero, signor Mirabeau?
— Qualche cosa di meglio: spero di salvarmi io stesso.