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CAPITOLO II

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E avvenne una sera che Davide, levatosi in sul suo letto e passeggiando sopra il tetto della casa reale vide d'in sul tetto una donna che si lavava, la quale era bellissima di aspetto. Ed egli mandò a dimandare di quella donna.

L. II. Samuele, C. XI.

Un levriero dal pelo bianco e arruffato che spuntò correndo alla svolta della strada attrasse l'attenzione dei due cacciatori.

— Bello! esclamò subito Giorgio, e lo chiamava; ma il cane, cui forse la fucilata aveva messo in orgasmo, scorrazzava guatando e cercando da ogni lato, e a un tratto s'accostò a Carlo, dimenando la coda quasi all'incontro di una vecchia conoscenza, non però tanto vicino che sembrasse stretta: e lo fissava con due occhi sfolgoranti di curiosità.

Questi impallidì e si levò.

Poco stante s'intese il calpestio di due cavalli al passo: il levriero scomparve d'un balzo latrando festosamente: indi ritornò, ma una donna lo seguiva tenendo un cavallo per le redini; ella si arrestò, fe' un gesto di stupore: l'avvocato impallidì, e mentre Giorgio meravigliato li guardava, comparve, una figura nera sopra un cavallo bianchissimo.

Sarebbe stato un bel quadro: di fronte i due cacciatori col capo scoperto, ella in mezzo alta e bianca, vestita di un'amazzone nera che stringendole la vita con un corsetto dei più attillati scendeva in gonna a pieghe folte e minute da una forte ampiezza di fianchi sopra due stivali graziosi nella forma, quanto erano stupendi i piedini che calzavano: in testa invece del goffo cappello cilindrico portava un berretto indescrivibile, ornato con un largo nastro e una fibbia di bronzo dalla quale si alzava una mezza ala di fagiano. Aveva i capelli nerissimi, ai tacchi lo sperone ungherese, sull'abito nessun altro ornamento che i cordoni per allungarlo o raccorlo, a seconda camminasse o cavalcasse. Alle spalle le stava un cavallo baio di rara bellezza, bardato con finimenti bianchi, curvo del collo disegnando un arco, e la criniera e le briglie sfioravano quasi il terreno. Così libero e immobile, che sarebbesi detto pensoso, gli occhi intenti sull'orme della padrona, aveva del fantastico. Dietro a qualche passo contrastavano vivamente la mora col suo cavallo: questo bianco, arabo, colla testiera e le redini di seta, quella vestita pure di un'amazzone nera ma, invece del cappello, con un velo egualmente nero sulla testa e una larga cintura di cuoio alle reni. Era bellissima per la sua razza.

Il cane ruppe primo il silenzio, e la signora avanzandosi verso l'avvocato, che cercava degli occhi il cappello sull'erba per torsi l'imbarazzo delle mani vuote:

— Ritorno appunto dalla vostra villa, gli disse col più amabile sorriso.

— Oh!

— Ero venuta per un colloquio e la signora mi ha trattenuta così, che malgrado il mio serio bisogno, me ne sono quasi scordata.

Carlo s'inchinò per ringraziare, egli marito, di questo complimento alla moglie.

— Mi permettete, ella riprese con accento più gaio, d'invitarvi adesso da me? Debbo chiedervi consiglio per una lite che mi si minaccia. Siccome contavo di passare questo inverno a Bologna, il mio corriere mi aveva scelto in quel goffo palazzo dei Fantuzzi l'appartamento nobile e l'altro interno per ridurlo a serra. Io amo i fiori come i bambini amano i confetti. Adesso il padrone, giovandosi di qualche inesattezza di espressione corsa nella scrittura vuole togliermi quello della serra, così che dovrei cercarmi un'altra casa. Ciò è spaventoso, ed ero corsa da voi ad accaparrarmi il primo avvocato di Bologna e vincere la causa. Oh! non arrossite, proseguiva vedendolo colorarsi in volto a quella adulazione: quando si sortì ingegno nascendo e si spese la miglior parte della vita in uno studio, si ha diritto ad essere stimati; la modestia conviene a noi donne, che non abbiamo altri meriti.

E un fine sorriso le passò sulle labbra.

— Che cosa mi dite mai, signora marchesa...

— Vedete, il sole tramonta.

— E la caccia è finita, molto più che non ne abbiamo fatto.

— Coraggio, gli rispose Giorgio con una occhiata: se ne offre un'altra.

Ma la marchesa non se ne avvide, rivoltasi ad accarezzare il cavallo che le lambiva la mano sguantata.

— Ai vostri ordini, le disse quindi l'avvocato raccogliendo il cappello e adattandosi con certa galanteria il fucile sulla spalla.

— Accettate di accompagnarmi? mille grazie; ma allora aiutatemi a presentare le mie scuse al signore, cui se non guasto più la caccia, tolgo il piacere della vostra compagnia.

— Tieni, egli ribattè indirizzandosi a Giorgio con famigliarità malamente spiritosa: tu che mi trovi sempre noioso; ma non temiate di disturbarci, signora marchesa: quando sono con lui ozioso di professione, ozieggio io pure. Concedetemi pertanto di presentarvelo.

— Il conte Giorgio De Vinci.

— La signora marchesa di Monero.

Giorgio mosse un passo e le si inchinò colla grazia di un perfetto gentiluomo.

— Debbo accettare l'assicurazione del mio avvocato?

— Pur troppo: non ho motivo per trattenere Carlo, e me ne duole perchè avrei il piacere di sagrificarvelo.

— Sai, Giorgio, gli si voltò Carlo vedendo la marchesa disporsi a proseguire: tornando a casa, puoi passare da Mimy e dirle che se avessi a tardare non s'inquieti: sono dalla signora marchesa.

— Ah! il signor conte la vedrà questa sera... e si fermò.

L'occhio le cadde sopra un mazzetto di amorini sprofondatosele nel seno fra il vano di due bottoni: ne lo estrasse e presentandoglielo:

— Potrei pregarvi, signor conte, di portarglielo, ricordandole che lo ponga domani sull'abito bianco? Capriccio! aggiunse smorzando il tono delle parole; ho domandato alla signora Mimy di mettersi domani l'abito bianco, che finiva appunto di ricamare, e le mando questo fiore, il solo che convenga su quello. Sarà così bella in quell'abito!...

Egli prese il mazzetto, e la marchesa barattando un'occhiata con Carlo:

— Allora, signor conte, bisognerebbe che dopo accompagnato questo mazzetto dalla signora Mimy, accompagnaste lei domani a pranzo da me. Veramente è un abuso, ma dirò al mio avvocato che lo difenda come un diritto...

— Accetto, accetto: sono stato giurato e conosco Carlo.

Tutti sorrisero, meno la mora, che, immobile sul cavallo, pareva non vedere e non intendere.

Quindi la signora, facendo al conte un grazioso cenno, si mosse; l'avvocato si lanciò per prendere a mano il cavallo, ma questo fe' uno sbalzo.

— No, no, Bothaina, ella esclamò chiamando l'animale aombrato e che ubbidì subito alla sua voce: vienci dietro così: libera come lo eri nel deserto. Vedete, Bothaina non può soffrire gli uomini; io sola la monto e Zisa la cura. Vi pare strano? proseguì vedendolo tra il meravigliato e il confuso.

— Piuttosto...

— Perchè? Vi sono pure tante mogli che non sopportano i propri mariti.

E rise: egli l'imitò per non sapere di meglio. Poi le offri il braccio.

— Neppure, rispose, temperando però il rifiuto con uno sguardo lusinghiero: è tanto raro che ci possiamo muovere libere che non so rinunciarvi e mi ritiro in campagna quasi per ciò solo. Guardate i miei abiti: preferisco l'amazzone a tutte le vesti da salone: in sella, e via su Bothaina e il vento che rompendosi vi fascia la fronte come un velo... Se sapeste quanta voluttà proviamo noi donne, a battere fieramente il tallone agitando le braccia invece di appoggiarle timidamente su quelle di un cavaliere spesso più fiacco di noi! Andiamo, Bothaina.

L'intelligente animale nitrì e le si appressò quasi a lambirle il collo; ma ella lo respinse dolcemente, e fatto un ultimo saluto al conte si avviò con Carlo, del quale il portamento imbarazzato e l'ineleganza della persona apparivano adesso più vivamente.

La mora li seguiva, sempre rigida, e passando innanzi a Giorgio non salutò come avrebbe dovuto un paggetto.

Giorgio rimase ascoltando il calpestìo che s'allontanava, poi ricoricossi sull'erba e considerando gli amorini:

— È strano! e parve cadere in una fantasticaggine.

Il sole era già scomparso dietro il monte. I suoi ultimi raggi, aperti sopra l'azzurro del cielo come un immane ventaglio di fuoco, venivano mano mano smorzandosi: la luce si velava intorno e la campagna acquistava fondi più carichi e tinte più riposate. La sera montava dalla pianura allargandosi e insieme attenuandosi in alto, bella di una sommessa mestizia e di un sereno appannato. Appena qualche rumore fra le siepi e qualche voce dai campi. Gli alberi perdevano le fisionomie e laggiù l'Appennino si faceva bruno come un vecchio muraglione; pareva quasi un ammasso di nuvole trasportate da una bufera... poi si ottenebrava ancora e l'occhio si arrestava ai primi colli sui quali l'orizzonte si era abbattuto come una tenda. La pianura si era alzata e i pipistrelli usciti guardinghi dagli ignoti ripari vagolavano silenziosi ed incerti. Invano la canzone di un passeggiero in ritardo avrebbe voluto essere lieta, mentre l'ombra avvolgeva tutto fra i suoi veli, e ogni gorgheggio cessava fievole come il soffio del vento fra le piante frementi nei verdi mantelli. Epicureo moribondo, un fiore olezzava tuttavia, e una novoletta sospesa nel cielo quasi un'amaca sembrava aspettare qualcuno per andarsene. L'infinito che circondava la terra era svanito per sempre; solo la luna piccola e solitaria impallidiva nel cielo: adesso la terra era piccola.

Giorgio fantasticava.

L'Avemaria scoccò al campanile di una parrocchia, quelli della città le risposero, e un tumulto di suoni chiocchi e villani turbò per qualche momento la tacita serenità della sera.

Egli parve risentirsene. Qua e là per l'ombra brillava un lumicino o si alzava, ombra più densa, il fumo di un camino; laggiù nel piano prorompevano le fiammelle dei lampioni, così che da lunge poveramente e fantasticamente illuminata Bologna rassomigliava un grande cimitero corso da fiaccole mortuarie.

— Che miseria quei lumi! esclamò finalmente. Ecco quanto gli uomini hanno saputo sostituire al sole; e se domani si dimenticasse di sorgere non avremmo nemmeno abbastanza luce per vederci morire.

Dopo questa bizzarra riflessione raccolse il fucile sulla spalla e si allontanò. Lasciando la strada carrozzabile che saliva in serpeggiamenti alla vetta della collina, di là prolungandosi per erte e pendii, si mise per un sentiero chiuso da alte siepi di acacie, e digradando fu in fondo ad una valletta; donde rimontò per una strada frequente di ville, in quella stagione tutte abitate. Spesso s'incontrava in coppie di villeggianti, udiva dai cancelli il riso di persone sedenti al fresco, travedeva qualche forma biancheggiante di donna o ne intendeva la voce che talvolta cantava. Dopo mezz'ora si arrestò ad un piccolo cancello.

— Come mai aperto! Lo spinse ed entrò in un recinto a quella luce incerta nè giardino nè bosco, piuttosto folto di alberi, in gran parte platani ed abeti: e si fermò al principio del viale che dava nel mezzo del casino.

Una finestra del primo piano era aperta e n'usciva lume: un'ombra a quando a quando lo intercettava.

Quindi le corde di un piano vibrarono.

— È Mimy! e internandosi fra gli alberi venne a postarsi dietro un grosso ippocastano, contro la finestra, cinto al piede da un boschetto.

Ascoltò.

L'ombra fremeva: gemè un preludio di Chopin così delicato che parve il sospiro della sera: non saliva, non insisteva: erano note come staccate che si diffondevano svanendo in una melanconia senza nome, e altre seguivano egualmente lievi, e poi altre ancora e il tono calava e il silenzio sembrava palpitare. Se quella era una musica di dolore, divina ed infelice l'anima che lo patì! E dal preludio si svolse un canto indistinto, lento, ma a volta a volta con uno slancio ineffabilmente appassionato come di una farfalla legata ad un filo: una lotta soave e crudele che non poteva esprimersi senza quelle note e abbisognava della sera bruna, piena di reminiscenze e di brividi prima che la luna versasse tutto il suo chiarore e la solitudine si popolasse coi fantasmi della notte. Sembrava un'aspirazione verso un ideale incompreso che sorgesse da un'anima chiusa in una forma gracile e stupenda, come un dolce odore esala da un bel fiore, e perdendosi inutilmente si dolesse della propria delicatezza. Le note si fecero più rare, s'abbassarono languenti, sfinite...

Il piano era muto e Giorgio commosso ascoltava ancora.

Guardò alla finestra: l'ombra non passava più innanzi al lume.

Quella musica sembrava aver desto l'anima del bosco, le frondi susurravano fra loro: qualche ramo luceva al raggio di una stella affacciatasi al suo balcone d'azzurro, mentre nell'aria udivasi come il passare di aerei fantasmi dalle lunghe vesti sibilanti che si inseguissero: la rugiada inumidiva lagrimosa le verdi pupille delle foglie.

Giorgio era solo: nella casa e nel prato era silenzio.

Attese che la musica ripigliasse fra la trepidazione della sera.

D'improvviso sprizzarono le note di un fandango ebbre di risa e di baci e la voluttà levandosi in sussulto parve gittarsi nella ridda e riempirla di un disordine fragoroso e lascivo: gli occhi neri avventavano lampi, le bocche fremevano e il respiro ingrossandosi faceva arrovesciare le teste coi capelli ondeggianti... La ridda precipitava più veloce e più nuda, perchè le note, quasi mani convulse, alzavano le vesti... Giorgio fu trascinato: non potè resistere, si girò attorno un'occhiata e abbracciandosi d'un tratto all'albero cominciò una difficile e pazza ascensione. Giunse trafelato sulla forcata che la tormenta del Fandango aveva raggiunta la foga di una tormenta di sabbie e le ultime note cadevano soffocate, stritolate.

Nella camera non si vedeva che un doppiere sopra un tavolo.

Una bestemmia gli si frantumò fra i denti, ma indi a poco una donna, vaporosamente vestita di una lunga veste bianca, s'appressò al tavolo e si assise sulla poltrona: la sua posa era languida e la sua figura si rifletteva dietro in un alto specchio, illuminandosi più vivamente nel chiarore della lastra.

— Se Ossian la vedesse in questo punto, Giorgio pensò, la paragonerebbe a Sumalla o ad Evirallina.

La donna non si moveva dalla sua stanca posa; una treccia discesa in una piega della veste ne usciva sciolta in ciuffo; forse ella aveva cominciato a disfarla e s'era fermata prima che a mezzo.

Passarono alcuni minuti: indi colla mano libera riprese la treccia, la disciolse, la diffuse: slegò il mazzo dell'altre lasciandone intatta una sola, e stette guardando fisamente per la finestra.

La tenda era immobile, il vento era cessato; ella pure stava immobile e le candele la lumeggiavano.

Sospirò forte, poi aprendo lentamente le braccia fe' colla testa un atto inesprimibile di seduzione, quasi che un fantasma le stesse dinanzi e non intendendosi bene col linguaggio degli occhi si movesse per abbandonarla: ma le mani non le caddero abbattute, anzi si levò, andò allo specchio e vi si mirò intenta. Poi si volse alla finestra; la tenebria facevasi mano mano più densa.

Dal ramo, che stringeva colle ginocchia a guisa di una sella, Giorgio osservava comodamente nella stanza per il vano delle tende.

Mimy si slacciò al collo la veste rigettandola dalle spalle perchè scivolasse; la veste scivolando si gonfiò come una nuvola e la nascose sino ai ginocchi; ella non aveva più che la camicia, strana, attillata quanto un abito, con un ampio bavero alla marinara e una cintura alle reni che le disegnava vagamente le forme della persona. Così contemplandosi si accomodò i capelli, stirò una calza scesa borghesemente in crespe, allentò la fascia, si sbottonò il pettorale con lentezza quasi di amante, che volesse bere a sorsi le voluttà delle bellezze che scopriva; poi lo staccò, e poichè voltava il fianco alla finestra, Giorgio potè ammirare una divina forma femminea. La camicia era diventata una mantellina a maniche.

Allora si ammirò ella pure; poi fanciullescamente, a passi piccini, venne a prendere la mandola in sul tavolo, trasse la poltrona allo specchio e vi si adagiò: ma depose l'istromento sulla veste invece di toccarlo.

All'insistenza della propria contemplazione quella donna doveva essere innamorata di sè stessa, poichè la vanità non bastava a spiegare la lunga e raffinata osservazione del bel corpo. Nella sua attitudine che avrebbe entusiasmato uno scultore posava dinanzi a sè medesima. Mollemente sdraiata sulla poltrona, colla camicia gettata sul dosso come un mantello, i capelli ondeggianti, una mano sotto il seno e un piede che scherzava colla cornice dello specchio, mentre la gamba vi si rifletteva in tutta la purezza del suo profilo... ella si inebbriava, insuperbiva forse, e non aveva torto. Le sue forme erano di grandezza mezzana ma di una inesprimibile castità artistica — bianca, bionda, fanciulla, all'aria estatica del volto e al fremente errare della mano forse assorta in un sogno di amore: sola, nuda, allo specchio, la mandola ai piedi, i capelli diffusi — figura poetica ed originale di voluttà e di bellezza! Giorgio la divorava. La stravaganza della sua ascensione sull'albero era superata dalla stravaganza di quella scoperta e dall'estasi solitaria di quella donna davanti a sè stessa e in sè stessa, giacchè quella nudità così pura e insieme così impudente prestavasi alle più bizzarre e audaci divagazioni.

— Bella!... bisogna ch'io l'abbia, mormorò stendendo nell'ombra una mano verso di lei.

La scena durava da quasi un'ora e la donna sembrava essersi assopita, quando un colpo piuttosto violento all'uscio la scosse.

Stette in ascolto.

Fu bussato nuovamente.

— Chi è? ella chiese indossando lestamente la veste e respingendo d'un piede il pettorale sotto lo specchio.

Giorgio non intese risposta, ma probabilmente fu un io, e questo era Carlo.

— Che cosa facevi? domandò colla sua grossa voce fermandosi sulla soglia.

— Nulla, rispose con un cenno.

Le si accostò e fissandola talmente negli occhi, che dovette abbassarli, spinse la mano a una carezza: Mimy volle ritrarsi, egli le si chinò all'orecchio; ella fe' un gesto supplichevole, ma l'altro la trasse verso la finestra con un braccio alla cintura.

Così Giorgio perdeva la vista dei loro volti: la notte era bruna e il doppiere rimaneva nel mezzo della camera dietro di loro.

S'intese un grosso bacio.

— Maledizione! ruggì Giorgio agitandosi sul suo ramo; ma è un'insolenza! almeno rispettassero la sensibilità dei vicini.

Ma la scena peggiorava.

— No, no, proruppe vedendoli abbandonare la finestra: bada, Carlo, che lo avrai voluto! E lasciandosi cadere penzoloni dal ramo, da quello su di un altro, senza badar al fruscio delle foglie sensibile mentre taceva il vento, scese dalla forcata e scivolò lungo il tronco. A terra si fermò, incerto di presentarsi coll'amorino o di uscire pel cancello; si decise per questo. In due salti lo toccò: era chiuso; tese l'orecchio, nessuno. Allora si mise a scavalcarlo, e come lo inforcava, si arrestò colpito da un'idea.

— Ah! la marchesa di Monero! la rivincita di Carlo!: balzò dall'altro lato e sparve nell'ombra.

Il lume brillava sempre alla finestra e il lettore può, se gli piace, risalire sull'ippocastano.

Al di là

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