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CAPITOLO I
ОглавлениеE ciò che inspira ai generosi amanti
La sua stessa beltà donna non pensa,
Nè comprender potria. Non cape in quelle
Anguste fronti ugual concetto.
Aspasia. — Leopardi.
— Ebbene, Carlo?
— Che debbo dirti? è strano per me stesso.
— Sei alla vigilia di una grande scoperta — invece dell'America la donna; è probabile che non sarai più fortunato di Colombo.
— Chi sa? Giorgio!
Così parlavano seduti in un praticello, formato dal gomito della via, due uomini diversi di età e di aspetto, ma egualmente vestiti da cacciatori. E portavano un'ampia casacca di tela a scacchi gialli e nerognoli, i calzoni della medesima stoffa chiusi sul piede da uose alla soldatesca, una carniera a tracolla, una giberna in cintura piena di cartuccie e un cappello a larghe tese, che pel caldo avevano buttato sull'erba. Carlo, il primo nominato, chino il volto come in grave pensiero, si passava fra le dita il fischietto di zinco penzoloni a un occhiello del corpetto; e l'altro, ritto sul busto, tenevasi fra le gambe il calcio del fucile giocarellando, secondo il vezzo dei cacciatori non provetti, col cane, di cui lo scrocco dava un suono vibrato ed argentino; e guardava la campagna in quel mese di agosto splendida ancora di messi e di verzura, in quell'ora vespertina bella di una vivezza lievemente melanconica.
Da quel praticello, l'occhio poteva spaziare davanti sulla distesa dei campi confusi lontanamente coll'orizzonte, o ai fianchi seguendo le ondulazioni dei poggi, che addossati, sinuosi, brevi, stupendi cingono e difendono Bologna a settentrione e a ponente. I quali, se dalla città appaiono belli nella ineguaglianza delle eminenze, nello scorcio degli aspetti, nella rottura delle facili balze ora nascoste dagli alberi, ora patenti per una villa sedutavi su, molto più belli si rivelano da una qualche loro cima. Infatti la loro duplice e triplice cinta non può essere vista che dal mezzo in tutta la poetica deformità della sua ossatura, e allora i colli sembrano prorompere da ogni lato, gareggiare e sformarsi nel medesimo sforzo. Qualcuno si appoggia al vicino che impedisce il libero dispiegarsi dell'altro; e dove uno domina esile, acuminato accanto ad un altro più forte che abbassata la testa mostra solo la schiena rotonda e verdeggiante: quale si piega addietro quasi respinto duramente nella lotta e rimane un pendio comodo e continuo; quale soffocato si discerne appena, e tutti insieme rivali ed amici si intrecciano, si serrano, si sostengono, si parano della bellezza di tutti. Certo nel passato l'acqua dovè farvi un gran lavorío, perchè s'incontrano fenditure profonde e tortuose, quasi corsi rasciutti di ruscelli, e declivi così ripidi e lisci che altrimenti non si capirebbero. Dalle falde che arrivano ai piedi della città cominciano le ville distendendosi in arco: alcune si adagiano confusamente sulla prima erta dove è spezzata, circondandosi d'alte piante o si affacciano curiose guardando sulla strada: o montano e dove incoronano le cime più basse, dove superata mezza costa si sparpagliano; molte scompaiono fra colle e colle e si nascondono in una conca, si rizzano giulive sopra una vetta, o allontanandosi a gruppi si fermano in un fantastico bacino, alla svolta di una strada, sopra un verde pendice; e misurandosi l'una l'altra si salutano, si parlano, s'invidiano, animano la campagna vestendone il terreno piuttosto ingrato di floridi vigneti e di giardini. Però se in folla piacciono, isolate male soddisfano la ragione e la fantasia dell'arte, generalmente case quadrate, di rosso dipinte, a tegole rosse e finestre verdi, borghesi, volgari; rarissima qualcuna che senta veramente di villa; nè serietà nè bizzarria nel disegno, nè originalità nè differenza nel tipo, anzi tipo nessuno, nè italiano, nè svizzero, nè inglese, nè francese, nè orientale, nè antico: pettegola l'eleganza, il lusso falso ed ignorante. Certo i colli sono magnifici, non per potenza di vegetazione ma per struttura; e se in maggior numero terrebbero testa agli Euganei, se più grandi e col mare, Napoli non sarebbe più il paradiso terrestre o i paradisi sarebbero due.
E da quel praticello spingendo innanzi lo sguardo si vedevano campi, poi campi, e di essi per buon tratto le divisioni tracciate dai filari: qua una riga di pioppi, là fulgenti al sole le acque di un macero, e le case coi muri biancheggianti e i tetti neri: poi le cime degli alberi si abbassano e accostandosi si livellano. Solo a grandi intervalli nel verde lontano la macchia biancastra di una borgata o di una città, pare una vela sul mare; più lungi ancora il verde si fa scuro, più scuro, indefinibile: la terra si eleva, il cielo si abbassa; ambedue come due amanti al primo abboccamento mutano colore, si sfiorano... si baciano, e il sole curvo sull'orizzonte illumina dall'alto quel bacio e sorride. E in quel mare ancorata ai piedi del colle Bologna, simile ad un grosso vascello con la gran torre per albero maestro, sottile ma robusto, a quando a quando pel tremolìo dell'atmosfera quasi pieghevole.
L'ora era deliziosa, la natura in tutta la pompa della sua estiva opulenza.
Giorgio guardava distrattamente. A un tratto una rondine dall'ali nerissime e la coda biforcuta guizzò sul ciglio della strada, ma scorti i due cacciatori scivolò sul pendio prima che Giorgio avesse il tempo di puntarla; ritornò al di sopra, e impaurita a un secondo movimento di lui, che la aspettava, si alzò così rapidamente da evitare il colpo. Egli la segui col fucile sino oltre il tiro da cattivo cacciatore, la vide salire con manifesta fatica, poi abbandonandosi sull'ali fuggire come un nero baleno dietro il colle, donde si udiva un garrire di compagne. Poco appresso spuntò un falco e intorno a lui uno stuolo di rondini. Giorgio rimase guardando. Non era nè un corteggio di sovrano, nè una battaglia di molti contro uno, o se pure, la battaglia era finita: i pigmei avevano vinto il titano, i fischi accompagnavano il vinto. L'ali tese e quasi immobili il falco sembrava ritirarsi, ma le rondini lo perseguitavano, come i monelli un orso per istrada, gli volteggiavano intorno, lo chiudevano in un circolo, lo insultavano, lo deridevano. Leste quanto il pensiero gli passavano sugli occhi, ed egli pareva non avvertirlo, si riunivano a gruppi, si parlavano nel loro linguaggio chi sa che propositi oltraggiosi, e sciogliendosi tornavano ad arruffargli le piume del becco col vento del loro guizzo... e il falco si librava lento, solenne. Le rondini disperate di irritarlo acquetano il garrito, si ritraggono adagio, perfide, indifferenti; qualcuna si allontana in linea retta, impicciolisce, dilegua; l'altre si sparpagliano, salgono, si abbassano, si riuniscono ancora, in crocchio congiurando a bassa voce — e il falco s'inoltra lento, solenne. D'improvviso una si spicca, batte l'ali colla prestezza di un insetto, oscilla, serpeggia, trasvola... sembra che tema di non raggiungerlo, e nullameno quando gli è presso si raffrena, s'erge... e con una inesprimibile rapidità gli scivola sotto — il falco sente, si precipita, senonchè la rondine più leggiera lo evita con uno scambietto e sollevandosi nuovamente getta alle compagne il segnale della vittoria. Allora accorrono a stuolo, lo circondano, lo sbeffeggiano; il falco esacerbato si ostina a una caccia impossibile: ne insegue or l'una or l'altra sempre superato di agilità, sempre delirante di rabbia; si dibatte, si piega su ogni lato, si disserra, finge un istante di stanchezza, ripiglia il gioco, si accanisce e nullameno è vinto, sbertato, fischiato....
— Povero falco! esclamò Giorgio; eccolo là come un uomo di genio fra la folla dei mediocri... Guarda dunque, Carlo, seguitò volgendosi al compagno e accennandogli nell'aria quella scena.
Questi alzò gli occhi.
— Ebbene? chiese Giorgio con accento nervoso.
L'altro lo fissò un momento senza rispondere e ricadde nelle proprie riflessioni.
Come dicemmo al principio, cotesti due uomini erano assai diversi d'aspetto, non belli ed entrambi notevoli. Quello in piedi, alto e gracile della persona, quello seduto col mento sulle ginocchia, grosso e mal costrutto, sebbene in quella attitudine lo apparisse meno, ma la sua testa calva dinanzi e irta nel resto di capelli rossicci risolveva quasi l'antico problema della quadratura del circolo, essendo rotonda per natura e schiacciata nullameno da ogni lato, mentre gli occhi piccoli erano verdastri e i denti sporgenti dalle labbra con una vanità esagerata, anche per una bianchezza da zanne di elefante. Però, attentamente considerata, la sua fisonomia non repugnava; vi si leggeva molta intelligenza e una serietà, che a certi momenti poteva diventare quasi nobile. Ma la differenza fra loro derivava ancora più dalla espressione che dalla diversa irregolarità dei lineamenti. Giorgio aveva sembianza di una natura privilegiata, incompiuta forse, forse anche sciagurata; nella bianca pallidezza del suo volto sarebbesi detto stemperato del lividore, mentre la vivezza delle sue grandi pupille nere rispondeva stranamente alla contrazione della bocca pochissimo tumida e atteggiata ad un penoso sarcasmo. Ciò dipendeva da natura o da abitudine? Probabilmente d'ambedue, e probabilmente ancora questa contraddizione delle labbra e degli occhi egli la portava nella testa e nel cuore. Se l'artista avesse un tipo speciale come è di un'altra razza, lo si sarebbe a primo colpo indovinato per tale. Carlo invece era un borghese grave, intelligente, triviale: la sua persona mancava di eleganza, la sua faccia non esprimeva nessuna passione; forse non ne aveva che di pacifiche, quali le predilige il Manzoni, o se a caso violente, violente d'istinto piucchè di sentimento: mentre Giorgio doveva sentire tutto intensamente; nervoso, delicato, eccessivo.
Scomparso il falco, Giorgio tornò a sdraiarsi, e deposto il fucile sull'erba stette considerando il compagno.
Questi si mosse.
— Ci pensi sempre?
— Dicevamo? rispose col tono di chi sprofondatosi in un'idea vuole rifarne il corso senza smarrire il punto cui è arrivato.
— Ah! esclamò Giorgio sogghignando: che sei alla vigilia di scoprire la donna. Non mi hai detto che la marchesa ti è un mistero? Saperla un mistero è già qualche cosa.
— Ma non saperne altro...
— Massime per un innamorato.
— Non lo sono, ribattè con asprezza.
— Lo diventerai; si è sempre abbastanza giovani per commettere una sciocchezza; poi a quarant'anni se l'amore è più difficile in compenso è più pericoloso.
Quegli abbassò il capo.
— Credi, domandò dopo una pausa, che ci sia qualche cosa sotto questo invito? Quella donna vorrei capirla...
— Non so se ti sarebbe un bene o un male. Sei alla vigilia, se già forse non l'hai scoperta, di scoprire la tua donna: comprenderla è un altro affare. Ti ho paragonato a Colombo, e insisto nel mio paragone. Invece che qui, a un miglio forse da San Mammolo, sovra una collina di Bologna, ti suppongo sopra una costa del nuovo mondo: bada che invento perchè non ci sono stato: il terreno arido ed ineguale non presenta ancora nulla di strano, di magnificamente lussurioso, di tropicale; nè alberi, nè fiori, nè animali. Il cielo è azzurro, il mare verde come in Europa; eppure nella terra, nel mare e nel cielo si sente una inesprimibile diversità di un altro mondo. A fronte ti si alza un poggio, sulla cima del quale il vento soffiando ribatte le rose di un gazuma... e al di là? ecco il mistero: l'amore. Sei alle falde, ti senti attirato e dubiti di salire: monta dunque e guarda.
— È presto detto! monta e guarda... ma bisogna essere giovane per salire la collina, o se vi mancano le forze non rimane altro tentativo che di una corsa disperata... come di un cacciatore dietro un lepre ferito. Si potrebbe forse arrivare sulla vetta...
— E una volta sulla vetta, se invece di un giardino ti si affacciasse una palude?
L'altro non rispose ed egli seguitò quasi fantasticando:
— Allora guai! perchè ridiscendere la collina sarebbe rinunciare all'orizzonte ed al sole...
Rimasero entrambi pensierosi, ma probabilmente assorti in opposti pensieri. Giorgio guardando il cielo sembrava quasi sognare, mentre Carlo colla fronte aggrottata, il labbro inferiore fra i denti, s'agitava nella soluzione impossibile di un inevitabile problema.
Il sole si chinava sulla collina e giù nella pianura l'ombre si allungavano bizzarramente.
— Ci andrò, proruppe alla fine discorrendo seco stesso: non sono già un ragazzo da avere paura, nè ella è tanto dotta da confondermi. È bella, ma se ne veggono di più belle; non è vero, tu, Giorgio?
— Che cosa?
— Sei intrattabile colle tue distrazioni.
— Lo so: dunque?
— Domani ci vado.
— Ne ero sicuro.
— Perchè?
— Ti ho veduto riflettere, e gli innamorati non sono mai più sicuri di cedere alla passione che quando vogliono assoggettarla.
— Ma se ti dico di no, che non l'amo, che non è vero! ribattè l'altro indispettito.
— Che cosa m'importa quello che dici? Tu ci pensi a questa donna, ci pensi come non pensasti mai a nessuna delle cause che ti hanno fruttato maggiormente riputazione e danaro. Che vale dissimularlo? Ti comprendo: il tuo carattere freddo, positivo si rivolta all'idea dell'amore alla tua età, nella tua posizione, ammogliato da poco, con una bella moglie e una suocera assidua (qui Giorgio sogghignò e Carlo sorrise), dell'amore con una straniera stravagante, alla quale basterà forse di fermarsi due mesi a Bologna per essere gridata un mostro da tutte le signore oneste senza virtù, disoneste senza spirito. Tu hai paura dell'amore come dell'ignoto... e vuoi sapere perchè domani andrai a pranzo dalla marchesa di Monero? per provare a te stesso che non l'ami, che la puoi sedurre a sangue freddo, e che giovandoti della tua superiorità di dotto la sedurrai — e sai ancora come si chiama questa maniera di attacco? una fuga in avanti. Ebbene, vai, Carlo: provati a lottare; una gentildonna e un avvocato, ecco un duello interessante... e poi ascoltami: se non vai domani a pranzo, ti converrà andarci posdomani a presentare le tue scuse dell'invito ricusato e a riceverne un altro.
— Tu approvi dunque?
— Io? no, non faccio che constatare un fatto. E tu pure, proseguì animandosi, non sfuggirai all'amore: ti si è svegliato tardi, ma pure si è svegliato. Eterna malattia della vita! amare una donna senza saperne la ragione e senza riuscire a farsi amare, perchè fra questi due mondi non vi è ponte e nessuno è stato, nè sarà mai così forte da gittarlo... Che cosa ami tu in quella donna, che ti confessi un mistero? La bellezza delle sue forme, la voluttà di tale bellezza, ma la sua anima, la sua vita no, perchè questo è appunto il mistero. Non amare di più; amala come la nave corre sul mare sempre sulla superficie, e quando la stringerai fra le braccia e la vedrai sorridere, non ti chiedere per chi sia quel sorriso: tu sarai forse per lei uno strumento, ella per te — non vi è ponte. L'amore è un solitario che abita in noi stessi, e di cui la poesia è un soliloquio: non la conosciamo, e tutti gli sforzi per indurlo a parlare o per gettarlo nelle braccia di chi chiamiamo amante costano a noi e a lui una inutile tortura. Non chiedere alle donne che ti amino e non amarle, ma sii poeta ed ama l'amore. L'arpa non sente la musica, e non ti parrebbe pazzo chi, innamorato della musica, stringesse l'arpa sul cuore? Quelli che amano una donna sono appunto così, e sono ancora più infelici che pazzi... Musica, odori, voluttà: un'arpa che ha suoni migliori, un fiore che ubbriaca col profumo, una voluttà che accarezzando il corpo solleva l'anima e addormenta l'amore in un sogno inenarrabile, ecco tutto... ma bada a non innamorarti, per Dio! innamorarsi mai.
E rafforzò questa ultima parola con un colpo di fucile addosso ad un povero passero che passava assai fuori di tiro.
Carlo, che vide l'uccello così lontano, non potè frenare un atto d'impazienza.