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CAPITOLO IV

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Studio i ricci che porta sulla fronte, i fiori che mette negli abiti, la maniera onde mi porge la mano, la prima parola che mi dice, il primo silenzio che mi serba. Non le ho ancora detto: Vi amo, ma forse lo sa; ho interrogato troppe cose su lei perchè nessuna mi abbia tradito.

Lettere — Ottone di Banzole.

L'indomani all'undici, Giorgio, montato su Allah, magnifico cavallo andaluso, balzano da tre e tutto nero con una stella bianca in fronte, partiva dal suo casino alla volta di quello di Mimy: era vestito con eleganza cittadina, che goffa per sè lo pareva maggiormente in campagna; ma contro i decreti del destino e della moda ogni recriminazione è vana. E davvero quel tubo lucido sulla testa, quei calzoni fino sul piede uniformemente larghi, quell'abito senza nome nella lingua e che, aperto dinanzi, terminava in coda di rondine, spaccato nel mezzo, onde ne usciva ridicolmente il grugno della sella, contribuivano mediocremente a rendere bella la persona e romantico il cavaliere; però, all'espressione del volto, pareva contento di sè e ratteneva Allah accompagnando del corpo con grazia perfetta gli ondeggiamenti del suo passo lungo e nervoso. Era giunto sulla strada maestra, che da porta San Mammolo si prolunga in serpeggiamenti per una stretta valle, e aveva rivolto il dosso a Bologna con un trotto vigoroso, quando ad una svolta distinguendo fra una nuvola di polvere come due donne a cavallo, si spinse al galoppo. In un attimo fu loro presso e ormai le pareggiava, ma esse si slanciarono a tutta carriera o prendessero la sua corsa accelerata per una sfida o glie ne gettassero un'altra. La raccolse e schioccando la lingua fe' spiccare tre balzi ad Allah, che lo portarono oltre la seconda donna, ma la prima lo avanzava e il suo cavallo baio correva come il vento.

— La marchesa! esclamò superando la mora: via, Allah: Allah si avventò disperatamente: la strada faceva un gomito: spronò, ma svoltando la vide che, frenata la cavalla, si moveva tuttavia a piccolo trotto.

La raggiunse: ella china sulla criniera di Bothaina ad accarezzarla non lo avvertiva.

— Siete voi, signor conte! disse finalmente voltandosi allo scalpito dell'altra che arrivava.

Indi con vivacità:

— Ci volevate proprio inseguire? credete che mi avreste raggiunta?

— Chi è quell'uomo che possa rattenere una donna se voglia fuggirlo o raggiungerla se fugga? Ma chi fugge o teme od abborre!

— In questi due casi mi avreste inseguita?

— Forse... per sapere il perchè.

— Sperando di raggiungermi?

— Facendo almeno scoppiare il mio cavallo.

— Ecco un complimento che un'altra potrebbe prendere per una dichiarazione.

E un superbo sorriso le contrasse le labbra.

Proseguirono senza chiedersi per dove.

Poco dopo si fermarono al cancello aperto di un casino, borghese nel disegno e peggio ancora per una specie di giardino, che gli si stendeva dinanzi rotto ad aiuole con qualche albero e due statue di gesso.

— La villa della signora Mimy?

— Sì, rispondeva Giorgio tirando indietro il cavallo per lasciarla passare.

— Mi spingete ad entrare?

— Forse che la signora marchesa non ne aveva l'intenzione?

Ella gli lanciò uno sguardo scrutatore, ma il volto di Giorgio aveva la migliore indifferenza del mondo.

— Infatti è vero.

E s'inoltrò risolutamente accennando alla mora di attendere.

Al rumore delle cavalcature sui ciottolini del viale una figura bianca apparve e si ritrasse prontissima da una finestra al primo piano, ma non tanto che la marchesa non la riconoscesse: d'un salto ella fu alla porta. Giorgio si buttò da cavallo per aiutarla, ma troppo tardi; e si avviarono a braccetto preceduti da un servo mal livreato.

Si fermarono in un salottino decente, colle pareti e la vôlta nascoste da una tenda di mussolina fiorata.

Poco stette a presentarsi l'avvocato commosso fino alla confusione.

— Lo debbo a te, senza dubbio, disse dopo esauriti i primi complimenti, questo regalo di condurmi la signora marchesa.

— Perdono, ella rispose sorridendo mordace: ma la colpa o il merito è tutto mio: il signor conte mi ha incontrata, o meglio raggiunta per strada, e scambiò seco un'occhiata, e abbiam proseguito insieme. Stamane mi sentivo uno strano bisogna di moto: il caso o, se permettete, l'amicizia mi hanno guidato verso qua e una volta sulla via... Vorrei accorgermi di riuscire importuna per farmi perdonare dalla signora Mimy.

Queste parole disinvoltamente pronunciate imbarazzarono subito Carlo.

La conversazione non si legava: l'avvocato sbirciava Giorgio invocando aiuto, ma questi non gli badava o distratto secondo il solito o volesse giudicare, come scriveva al suo amico, dello spirito della marchesa lasciandole tutto il peso di quel goffo silenzio.

Questa lo sentì; quindi andando verso un mazzo di rose sulla tavola lo prese quasi per esaminarlo: una sorgeva sull'altre col gambo rotto nello sforzo di piantarlo dentro il fusto.

— Guardate questa rosa: non pare che le dispiaccia di trovarsi in tanto crocchio di compagne? un mazzo di rose è come un circolo di signore: si mescono spine e profumi. Liberiamola: chi sa con quale piacere si sarà destata al bacio del sole sperando forse di morire, quando tramonterebbe, in un ultimo bacio... Il destino!

E se la poneva in seno.

— Allora baciatela, rispose Giorgio, quando il sole tramonta e la rosa morirà contenta: appassire a un occhiello del vostro abito è un destino ben migliore che nel vano di due pruni.

Carlo sospirò approvando: avrebbe desiderato un fine uguale, solamente alquanto più remoto.

— La signora Mimy? ella gli domandò.

— Credo che si vesta.

— Non venivate dunque dalla sua camera?

A questa domanda bizzarramente indiscreta anche per lo sguardo che l'accompagnava egli provò un sussulto.

— Io? no, ero nello studio quando il servo è venuto ad annunciarmi che la fortuna mi era piovuta a casa.

— Cioè salita.

Giorgio era andato alla finestra nel cui mezzo, fra le tende, pendeva una canestrina di fiori, opera di Mimy, stupendamente imitati.

— Mi permettete che vada a vederla? ella proseguì: ieri la pregai di mettersi l'abito bianco, non vorrei se ne dimenticasse. Quindi senza attendere la risposta facendogli col capo un intraducibile cenno di saluto, di carezza, di beffa sparve dietro la porta per la quale egli era entrato.

— Non capisco! proruppe dopo un momento con voce dispettosa.

— L'ho sempre creduto, ribattè Giorgio meravigliato di vederlo solo.

— Sei un insolente.

— Adagio: non ti ho ancora detto avvocato stamane e non hai diritto d'insultarmi. Ma che cosa hai? la marchesa t'imbarazza? Eppure sei solo.

— Appunto per ciò.

— È andata a cercare Mimy? Questo prova che non hai saputo trattenerla e che te la preferisce: infatti ha ragione. Tua moglie è una creatura molto amabile, tu semplicemente un avvocato molto stimato, molto dotto e anche molto noioso. Ma, Carlo! la marchesa è una donna di spirito, la vuoi sedurre, e sempre che la vedi diventi impacciato, ridicolo. Queste parole sono dure, però sono la verità, niente altro che la verità. Eppure dovresti capire che mancando di galanteria bisogna imporsi coll'audacia o coll'ingegno. Ti credevo più avanzato, ma sono contento di essermi ingannato: così mi avveggo di avere ancora delle illusioni da perdere.

L'altro andò alla finestra.

— Eccole là!

Camminavano lentamente, le spalle rivolte alla casa; la marchesa le stringeva con un braccio la vita mentre coll'altra le teneva cavallerescamente il cappello sopra a ripararla dal sole come un ombrellino; Mimy aveva la testa bassa, coll'abito bianco serrato alle reni da un nastro cilestro e le lunghe treccie abbandonate. La marchesa le parlava all'orecchio come un uomo, ma così accosto che il suo alito doveva lambirle il collo.

— Andiamo a raggiungerle! disse Giorgio.

Carlo rimase alla finestra considerandole con malinconia: quel bellissimo gruppo lo avviliva. Brutto e quantunque robusto già sul declivio dell'età sentendosi inferiore disperava della propria passione, che tanto più s'accendeva quanto meglio penetrava la possente e strana bellezza della marchesa. Le forme di lei voluttuosamente rivelate dall'abito avevano tale vigore e nullameno i suoi gesti tanta grazia, l'espressione de' suoi occhi era così altera e quella del suo sorriso così procace; quella donna aveva tanto ingegno e tanta audacia che non si poteva non desiderarla, non amarla ardentemente... ma era impossibile dirglielo e più impossibile ancora conquistarla.

Si sentì piegare sotto questo pensiero siffattamente che per non cadervi sotto scese a precipizio in giardino.

Arrivò che Giorgio e la marchesa si tenevano testa.

— Così, le diceva, rimproverate agli uomini di non saper amare?

— Forse che avrei torto?

— Perdono, ma il mio sesso mi costringe a credere che sì.

— Il vostro sesso! Ecco la grande ragione degli uomini, il perchè di ciò che chiamano amore. Ma si può veramente amare ciò che non si comprende, e quale è l'uomo, per quanto fornito di genio, giacchè parlando di loro bisogna pur sempre supporlo, che comprenda il cuore di una donna o abbia una mano tanto delicata da aprirne le porte senza infrangerle, da montarne l'altare senza rovesciarlo? Sanno amare! ma intendono nemmeno il linguaggio della passione?

— Cosa dicono adunque le parole di Amleto sulla bara di Ofelia?

— Quello che il ruggito del leone, cui il cacciatore uccide la leonessa.

— Ruggito sublime!

— Selvaggio. Ma sia: ma quello è uno sforzo nel quale concorrono l'odio, l'ira, il dolore, la morte; egoismo e sensi che ruggono vedendosi sfuggire la preda. Amleto scenderebbe forse nella fossa, ma la vanità ve lo spinge, ma a questa Ofelia così cara che cosa avrebbe da offrirle se viva? Quando avesse intesa la poesia di quella creatura l'avrebbe sagrificata alla vendetta del proprio padre, un ubbriacone, all'ambizione di regnare sui Danesi, un gregge di bufali? La passione d'Amleto è sublime, voi dite: trovatemi dunque un aggettivo per l'altra di Salmaci o della Piccola Sirena di Andersen.

— Favole.

— No, simboli: gli uomini, seguiva con sdegnoso sorriso, sanno amare! Quale parte hanno fatta alla donna nella conquista del mondo? Magnanimo questo amore... Nella nostra società la donna è nulla: vergine, la si educa alla maternità del matrimonio riducendola ad un ballocco che si ammira finchè nuovo, ad una macchina da partorire, che si logora e si rompe partorendo. Di lei si preferisce il corpo all'anima e si dice al suo cuore: sii fedele al padrone — quindi un sonetto, un monile sono il premio del sagrificio.

— Ma allora, interloquì Carlo attonito, la donna...

— Gli uomini non la comprendono.

— Eppure, replicò Giorgio, deve agli uomini che pensano, agli artisti che creano la grandezza cui è giunta.

— Gli artisti menano questo vanto ma è una vanità come tante altre. La donna misconosciuta nella società non esiste nell'arte. La Grecia ne ebbe un cadavere nella Venere, il mondo moderno non ha nulla, perchè le vergini e le madonne cristiane, limite estremo della bellezza, sono un tipo umanamente falso. La nostra forma è bella, possiamo dirlo con orgoglio, ma sotto i vostri scalpelli si fa inanime, sotto i pennelli si altera, e perchè? perchè non conoscete la donna. I nostri sensi sono infinitamente più fini, la nostra anima sarebbe inferiore? Gli uomini, amandoci, userò questo verbo, passano vicino alle nostre siepi e non s'accorgono che dietro sta un giardino: pirati, approdano ad un'isola, si fermano un'ora in un seno e ripartono non solo pretendendo di averla conosciuta, ma di essersene impadroniti.

— Stupendamente espresso! proruppe Carlo.

— Ripiego d'avvocato per non darmi ragione: ma non importa: sono le donne che debbono approvarmi.

E gettò uno sguardo a Mimy, che abbassò gli occhi.

— Siete dunque pentita? ella riprese dopo brevissima pausa.

Mimy spalancò due occhi del più bel ceruleo.

— Il mio amorino?

— Eccolo, disse Giorgio: ho pensato che Mimy lo gradirebbe assai più dalla mano che lo offriva, e l'ho conservato.

— Confessa piuttosto, intervenne Carlo, che la è stata una delle tue solite distrazioni.

— Mai.

— Non è vero, Mimy, che ho avuto un buon pensiero?

— Ebbene? insistè la marchesa.

Mimy le alzò gli occhi nel viso, e guardandola con aria di dolce rimprovero mormorò un sì fievolissimo. La marchesa le prese allora il capo con dolcezza, e chinandoglielo quasi all'altezza della propria bocca le mise l'amorino in un riccio, così che pareva caduto dal cielo.

Si riprese la conversazione: poco dopo, una carrozza si fermò al cancello e la mora entrò ad avvisare la marchesa.

— In viaggio, signori, ella disse gaiamente.

L'avvocato fe' qualche osservazione, perchè aveva egli pure la carrozza, ma dovette arrendersi.

Quella della marchesa era un magnifico calesse ad otto molle, tappezzato di un damasco azzurro a fiorami più cupi: due cuscini ricamati distinguevano i posti delle signore. Giorgio cavalcava allo sportello: ultima veniva la mora.

Si udì un nitrito: era Bothaina che rimasta libera pel prato aveva girato dietro la casa, senza che niuno le badasse nei preparativi della partenza, e accorreva colle orecchie tese.

— Bothaina! gridò la marchesa; l'intelligente animale accostandosi alla carrozza dal lato di Mimy mise dentro la testa per ricevere una carezza.

— Come si fa adesso? domandò l'avvocato.

— Bothaina può seguirci così.

Partirono; una nuvola di polvere densa e leggiera li accompagnò lungo la strada.

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