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SCENA ULTIMA.

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MARCO(3), dalla scala di terra, sale al terrazzo, lo attraversa frettolosamente e giunge all'uscio: sta in sospeso per la gioia: trova semiaperto ed entra…. Il TINTORETTO gli viene incontra, reggendo la figlia sulle braccia.

TINT. Non è più tua! Ella è d'Iddio e dei posteri!

* * *

L'Ugo, che l'autore dedica alla sua prima amarissima delusione, è la prima parte d'un romanzo sul secolo X, che vide la luce nella Vita Nuova. Il genere astruso dell'argomento e dello stile stancò i lettori del giornale abituati al facile leggere. Raccolto poi in un volume, la critica l'addentò colla sua solita inconsulta voracità(4). Il Bazzero ne restò tanto conturbato che non volle più continuare. Rileggendolo in questi mesi ho risentito ancora il sentimento faticoso della prima volta, ma se l'affetto non mi fa velo, credo che vi siano in queste 130 pagine, cinquanta almeno degne d'un grande scrittore. E non sarebbero poche per un libro! Che tempi fossero quelli ch'egli vuole descrivere, ce lo dice presto in un modo vivo e incisivo:

"Erano quelli i tempi in cui un cavaliere noverava, come un sellaio, le fibbie e i chiodi della sua sella da battaglia e neppure sbagliava in un sopranome a quegli arnesi e forse forse moriva senza tutto avere appreso il paternoster dalla bocca della madre o del chierico: tempi in cui, io credo, che la natura non si sarebbe messa su via fallata, se avesse ai priminati delle famiglie baronali dato a vece di cranio addirittura un elmo, a vece di lingua una lama, e per cervello qualcosa di bollente che fuori uscisse e fosse mostruoso cimiero. Io non so se ancora allora i bambinelli si tormentassero colle fasce: se così fosse stato, non mi sarebbe punto di maraviglia se anche trovassi nelle cronache che la madre di Garmario saluzzese, madonna Sandra, torturasse le membra del suo figliuolo, serrandole in una bandiera insanguinata, o che il padre di Forcone da Ivrea recasse al castello per la bisogna materna della sua moglie Ageltruda la soprasberga dell'inimico bucata e ribucata a colpi di spada: l'avo Attone da Susa legò con sacramento ai nascituri dal suo Rogerio il lembo stracciato a morsi della sozza camicia che vestiva nella torre della fame. Messer Adalberto era primogenito, ed aveva avuto madre come l'ebbe Garmario, padre come quello di Forcone, ed avo della taglia di Atto. Finchè vissero i suoi, imparò che nelle sale feudali l'agnello santo del perdono ci sta figurato solo per spasso di qualche frate dipintore, il quale fa il mestiere, è pagato, e se ne va dal ponte: imparò che negli steccati dei giuochi d'arme, se le cadute da cavallo v'incarnano gli anelli di maglia nelle membra, perchè la lancia dell'avversario vi coglie, è meglio che quelli vadano fino al cuore a condensarvi dentro tutto l'odio, e questa vi avesse passato fuor fuora, senza accorgervi di provare vergogna! Imparò che le dita ci furono date da natura per contare le vendette da farsi: segnar croce colla penna è da monaco, tagliare colla spada da cavaliere: si vive collo usbergo maledetto, si muore coll'abito immacolato di qualche monistero."

Ugo è un tessuto di scene, una successione di quadri storici, di figure riprodotte dalle cronache, di atteggiamenti che sembrano scolture, di truci spettacoli, incisi con uno stile di ferro.

La lettura non ne è facile come dell'elegante prosa del D'Annunzio e della lucida scuola degli Abruzzesi, ma è una prosa nutrita di studii e di forti riflessioni, che durerà, io mi lusingo, nel giudizio dei buongustai, più del tempo che dura una moda.

Ecco come il Bazzero vi dipinge le sue figure.

Dopo aver letto sono tubae il bando pasquale ai vassalli, l'araldo Guidello e il chierico Ingo, poco lieti delle mancie ricevute, si allontanano così:

"E mossero giù dalla scalea della chiesa. La piazzuola della curte era deserta. Essi presero ad uscire dalla viuzza fiancheggiata dalle casucce dei montanari, oggi boscaiuoli, domani alle giornate d'armi, sempre poveri e sempre irosi. Intorno all'edera frusciavano con volo tortuoso le nottole; gli usci erano chiusi, gli arconcelli delle finestre lucenti di strisce rosse dal sotto in su, che venivano dai focolari posti in mezzo alle stanze; sullo sfondo si vedeva una montagna già sfumata nella nebbia del crepuscolo.

I nostri due procedevano silenziosi, e, benchè sotto la protezione del loro signore, pure affrettavano il passo e sulla punta dei piedi.

E l'uno calava il cappuccetto sulla testa tonsurata e nascondeva la pergamena sotto la tonaca, e l'altro storceva una mano all'indietro ad assicurarsi che la tromba non percuotesse coll'elsa della spada o col pugnale: e quegli guardava sospettoso le pieghe del drappo ventilante dallo strumento del compagno, come se da quelle dovesse uscirgli il malanno: e questi imprecava il calzolaio che aveva fatto pel chierico scarpe così disacconce per suolo sospettato.

Passavano e guardavano. Quelle tavolacce di quercia parevano fatte apposta per spalancarsi ad un'insidia: da quegli arconcelli i tizzoni che erano sui focolari con maledetta furia potevano essere sbatacchiati nella strada. Basta! il santo patrono tenesse buoni i gloria!"

Così descrive un pranzo nel castello:

"Come voleva la cortesia delle usanze, i messeri furono convitati. Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante di mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di lupi. Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio, allentarono le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono andare giù sui panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere, perchè un posto, e il più eminente, rimaneva vuoto. Nè attesero a lungo: si sollevò l'usciale della sala, e un paggio, affacciando mezza persona, annunziò:—Madonna Imilda.

Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia, di vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura, cinta su da uno saccheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo appuntato: s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole dal padre, s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a sinistra il suo parente Oberto.

Ildebrandino così la salutò:—Valenti, udite: la figliuola mia sa assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate in modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi, e la sua bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci grazia!

Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì nostri, e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio per la domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non aveva tagliere dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il che era richiesto dal suo decoro verginale."

Notate quanto spavento in questa descrizione d'un assalto al castello;

"Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si alza in piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto.—I nemici!—ascolta la voce del vecchio Federigo:—Salvate madonna!—ed ecco ancora:—Fuoco! fuoco!

La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare, scongiurando con fiero rimorso:—O Signore, salvate mio padre! Come vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto?—ed ode ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima che comandava:—Balestrate fuoco nelle finestre!—e un'altra,—Se tutto arde, che ci rimane di bottino?

—Combattete!—gridava Federigo agli uomini del castello:—Giuratemi!

Alla fantasia della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco; e qua sotto alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione… Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo scalone, il corritoio, o stanzone dell'arme….—O Signore! la fanciulla se li immaginò al lume delle torce incendiarie nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano, venivano!… Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già afferrata: ella, si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!… O padre! O Ugo!…

La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare.—Non sia vero!

Fu scossa. Di nuovo la voce:—Balestrate fuoco nelle finestre!—E un'altra:—Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella.—Ancora la prima:—Sconficcate le inferriate!

Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò:—E se vuoi mandarmi la morte, fa che non sia vergognosa!"

Mi duole di non poter trascrivere tutti i punti in cui mi pare che la vita e l'arte si stringano in una forma tutta di getto. Qualche scena feroce è tale da far inorridire, come là dove descrive la morte di Guidinga, che in odio al marito, nuda, oscenissima e sanguinante, si rotola giù di gradino in gradino, percuotendo quasi a morte il frutto esecrato che porta nelle viscere: e la vendetta che trae il marito, mostrando all'antico amante di lei il cadavere della donna senza lume accanto, senza frate, senza croce fra le mani! Dicono le cronache che solesse venire poi la madonna perduta e ripetesse la condanna: Voi non credete in Dio! Da questa donna era nato Ugo; e crebbe cupo, angosciosissimo. «In vent'anni tre volte ho sorriso,—esclama—quando la prima volta su un'altissima cima vidi all'orizzonte sorgere il sole e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi raggi; quando suonò la tromba che mi chiamava all'armi, quando… Non è riso, è sogghigno! Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo tanto deserto….»

* * *

Come nel Tintoretto, così in molti dolori dell'Ugo il Bazzero descriveva i suoi. Quell'anima dolce e tenerissima, che non sapeva far male a una formica, caricò i suoi personaggi di feroci furori e quasi li incaricò delle sue vendette. È un mistero che molte pagine del presente volume spiegheranno.

* * *

Anch'egli amò la sua donna, ma noi come tutti gli altri. Amò troppo castamente, e sacrificò all'ideale più che non sia permesso alla debole natura umana. Fenomeno strano è questo che in un tempo, in cui dal languido romanticismo l'arte e con essa il sentire si avviavano verso il godimento pagano del realismo, strano fenomeno veramente è il vedere questo solitario rifugiarsi nel deserto, con un'immagine sola soavissima nel cuore, meno donna alla fine che luminosa e innocente visione, ch'egli adorò estatico come quel d'Assisi adorò la Vergine sua, «Vi dirò (troverete negli Schizzi dal mare), che una fanciulla bionda, la mia fanciulla che mi cantava le poesie d'Iddio e dell'amore, mi ha fatto piangere e mi ha ammalato a letto. Mi offriva vaniglie, viole del pensiero, versi francesi e sorrisi di santa Cecilia, l'organista.»

A noi non è permesso di togliere il velo di cui egli volle circondata Lidia, una bionda straniera, assai colta, che viveva del suo lavoro, la quale, prima non potè corrispondergli perchè stretta da un'altra promessa; e sciolta questa, quando forse poteva farla sua, egli o non seppe o non osò contraddire a un'autorità ch'era dover suo di rispettare. Poco importa a noi di sapere come scoppiasse in quel cuore, dopo un'alba ridente d'amore, un tumultuoso uragano, che lo spinse fino all'orlo dalla morte. Più che una lotta fra vivi, fu una lotta di fantasimi creati dal desiderio e dalla volontà in cozzo, sostenuta coll'energia dell'anacoreta, voluta per forza, inasprita dalle istigazioni feroci della natura. Questa è la storia dell'Anima, che egli scrisse giorno per giorno, nel silenzio del suo studiolo, e che noi confidiamo a tutte le anime delicate che sanno accogliere ogni dolore umano con umana carità. A chi ci domandasse l'utilità di una pubblicazione di questo genere, noi non sapremmo rispondere nulla, perchè certe cose si appannano solo a toccarle colla punta delle dita.

Immaginiamoci invece il fondo della pineta vastissima colle sue ombre folte: e innanzi al pensiero del vergine giovinetto una immagine di donna, esule da una patria infelice, Lidia: immaginiamoci il vecchio cimitero del villaggio con tutti gli accozzi della rovina, e il fido cane che parla all'amico poeta co' suoi grandi occhi onesti: poi è a pensare un'anima per indole molto religiosa, anche quando la mente non crede più ai misteri sacri del pane e del vino, ma che per una deliziosa superstizione si accosta alla comunione per sentire Iddio nel fremito dell'amore, per vedere Iddio buono e grande attraverso alla diafana idealità della donna! Questo mistico è artista non soltanto come frate Angelico, ma con impeti umani, come la calda scuola de' suoi adorati cinquecentisti; onde il cozzo delle passioni, e voci strazianti, e contraddizioni ed esecrazioni miste ad estasi stupende, e dappertutto un incalzante presentimento di morte.

Il lettore troverà in queste centoquaranta pagine dell'Anima qualche cosa di soverchio che ci fu necessario di lasciare così per tenere insieme nella materia uno spirito troppo irrequieto; e spero che non gli vorrà far colpa se nella foga dell'improvvisazione e del dolore il giudizio di chi scrisse sulle cose e sugli uomini e il tenore dello stile travalica di qualche linea la misura.

Il Bazzero fu un diligente coltivatore del dolore e lodando lui, a questi soli splendenti, si può far credere che si voglia rimettere in auge un genere d'arte che si estinse da un pezzo nelle proprie lagrime.

Sappiamo anche noi che uno dei modi di rendere le nostre passioni troppo intense e malaticcie è di rifiutar loro ogni consolazione, e che nel moderato esercizio dei nostri affetti è l'equilibrio della vita, e forse la felicità. Il Bazzero ebbe torto di rifiutare tutte le gioie che questo mondo gli poteva dare, e di schernirle, come insulse o troppo volgari; ebbe torto di credersi più forte della natura, che è la fonte della vita e di avere quasi una superstiziosa paura di ciò che in qualche modo poteva fargli piacere. Sappialo che è meglio allargare la vita in cerchi sempre più grandi fino a comprendere la rassegnazione e la coscienza delle umane cose, anzichè restringerla nella celletta del cervello per forza d'una morale contrazione.

Ma ogni più bel ragionamento non ha mai guarito un cuore afflitto, e quand'anche il Bazzero non fosse figlio del suo tempo, malato per troppa delicatezza morale, avrebbe avuto questi torti in comune con quasi tutti i più grandi poeti dell'umanità che non conobbero le matematiche leggi dell'equilibrio.

«No, scriveva il Rousseau, la natura non mi ha creato per godere; ella ha distillato nel mio cervello il veleno di quella felicità ineffabile di cui ha messo il desiderio dentro il mio cuore.»

È del Wagner la sentenza che non riesce a nulla se non chi è sempre malcontento di qualche cosa.

Nel Giornale intimo di H. F. Amiel, che suscitò recentemente in Francia un interesse assai vivo, e che offre la storia di un altro pensoso solitario, s'incontra spesso questa scoraggiante compiacenza di voler essere infelice quasi a dispetto della natura. Anche Amiel scriveva: «Diffido di me e della felicità perchè mi conosco.» E se non fosse la paura di offendere la santa modestia dell'amico, vorrei trovare nel Leopardi, nell'Heine, nel Byron, nel Tasso i suoi fratelli maggiori.

Da questo stato dell'animo, prodotto alla sua volta da inevitabili condizioni fisiologiche, deriva spesso quella specie di malattia della volontà, che si trasforma in una mutabilità continua di desiderii e di propositi, in una incostanza di simpatie, in trasporti vivi e in profondi abbattimenti, come fu veramente la vita del nostro. Per superare una difficoltà a cui sarebbe bastata una schietta e franca deliberazione, noi lo vedemmo riprendere gli studi classici all'Accademia di Milano, coll'intenzione di laurearsi in lettere, e poi smetterli per darsi tutto allo studio delle lingue moderne, e tentare la pittura, e maledire libri e pennelli, per tuffarsi nella politica e nella carità, senza che nella sua coscienza entrasse mai la persuasione che tutto ciò gli potesse servire a qualche cosa. Sempre egli ritornava poi alla solitudine del suo studio, scoraggiato, affranto, ammalato di desiderii infiniti, e cercava la pace al bromuro di potassio.

Colla storia dell'Anima si collegano gli scritti che seguono, cioè gli Schizzi dal mare o Acquerelli com'egli li intitolò variamente.

Sono un poema marino, in una forma sciolta dal verso, ma risonante di melodie interne, luccicante di colori e d'immagini, in cui l'anima del Bazzero trabocca ne' suoi momenti migliori.

Se è vero che questo dovrà essere il sembiante della futura poesia, il giorno che avrà rotto i ceppi della vecchia e della nuova metrica, al Bazzero potrà forse venire anche una piccola lode di precursore, che egli non sognò quando scrisse dietro il naturale impulso.

La città, il popolo, il mare, i villaggi dell'incantata riviera ligure, i marinai dalle schiene di bronzo, le bagnanti, i colori dell'onda, il suo anelare immenso, i misteri delle sue profondità, una chiesetta, una barchetta, un canto, un gruppo di aloe nodosi, dei fiorellini, eccovi una serie di piccoli schizzi e di acquerelli, animati da una continua emozione e legati da una erudizione abilmente usata e argutamente presa a gabbo. Il poeta trasfonde il suo io in tutto ciò che vede e tutto vivifica di sè. Qualche pagina scintilla d'una meravigliosa evidenza. Sembra che la parola stessa rinunci alla sua logica natura per diffondersi in colore e in luce.

Leggete com'egli descrive i grigi pennacchi dell'onda che vengono a incalzarsi, a sfioccarsi, e il suo gonfiare e suo colmo trasparente verdissimo e il concavo lenissimo e il fragore e il dibattersi delle ondine che sommuovono ciottoli, e i mille rivoletti che ridiscendono con troscie lucenti (vedi a pag. 158). La lingua, come sentite, si ripiega sotto l'urto dell'impressione e scattano fuori delle arditezze felici che piacquero di poi in libri meno significanti. Si avrebbe torto di volere in una prosa comune ciò che scoppia continuamente con impeto lirico, ciò che divaga nei mille capricci dell'ora, dell'estasi, della tristezza, dell'umorismo e si perde nelle azzurre profondità di una filosofia panteistica. Aprite il libro e leggete subito, per farvi un'idea dell'uomo, il bozzetto Sera a pag. 184. Se vi pare che due dei nostri trecento lirici classici abbiano più profondamente sentito il dolore di un tramonto, e lo spasimo voluttuoso di quel dondolarsi a fior d'acqua e di quello spandersi dall'anima sui colmi dell'onda, di quel vanare nell'infinito, dite pure che il Bazzero è un poeta inutile di più. Per me, apro il mio cuore, certi tratti conservano ancora dopo tanti anni una freschezza che molte lodate liriche di quel tempo hanno perduto da un pezzo: e rileggendo gli ultimi acquerelli, Àncora, Stelle cadenti, Barcanera, ecc., non so perchè mi risuoni nell'anima qualche accento dell'Heine, e a volte dello Sterne, senza essere nè dell'uno nè dell'altro.

Non c'è imitazione, ma forse anche il Bazzero derivava da una fonte comune, che ha le sue scaturigini in un'elevata coscienza della nostra pochezza in faccia all'universo.

Il pessimismo, che fa tanto desiderare al Bazzero la morte e il riposo sottoterra, non è come la rigida convinzione leopardiana un precetto sterile, ma è un dolore che cerca riposo disciogliendosi. Nel mare dell'essere egli non vuole affogarsi, ma diffondersi e coi mille atomi accesi della sua coscienza fecondare per l'umanità qualche divina idea consolatrice.

Qual poteva essere il suo modello in questo genere pittoresco? quanti dei nostri pittori eccellenti che trattarono abilmente la penna sappero fondere così intimamente le due arti come il Bazzero? Il canto intitolato: Genova, comincia a pag. 217, con un'evocazione storica che tocca spesso a un'epica maestà, e scorrendo attraverso alle più luminose memorie della superba città, finisce in una finissima e aristocratica visione della donna genovese. Gli ultimi acquerelli: Convogli, Osteria, Montanari, son quadri fiamminghi. Barcanera è un'elegìa carica di mestizia, che più si rilegge e più persuade che la poesia esiste: Buona vendemmia vince quanto di più grazioso ha scritto Teocrito.

Spesso i legami sono così tenui e i passaggi così rapidi, che un lettore comune crederà che le parti siano sconnesse, e accuserà ingiustamente di incoerenza e di oscurità ciò che a una seconda o a una terza lettura ricomparirebbe agli occhi suoi in una naturale corrispondenza.

Si può pretendere che un lettore moderno legga due volte? In questi Acquerelli è notevole ancora come il Bazzero abbia saputo trasfondere la sua vasta coltura storica nella poesia senza sciupare nè l'una nè l'altra. Io non so s'egli pensasse mai a un grande poema storico, ma è certo che da questi frammenti, come dai pezzi d'un'antica rovina, si può arguire una costruzione artistica d'immenso valore. Ciò che rimpiangiamo nel Bazzero è non solo un dolce amico, un'anima candida, un caldo artista, una giovinezza recisa, ma anche una grande speranza.

Lagrime e sorrisi: è un lavoro più giovanile che egli pubblicò in una privata edizione, e del quale mostrò sempre di fare un gran conto. È un seguito dì massime, di sentenze, di consigli dedicati alla sorella sua e dentro già vi traduce il suo genio e la sua coscienza. Il pensiero dominante in queste massime è che l'amore e l'arte, più che ogni altra lusinga, più che ogni altro compenso di gloria e di ricchezza, sono i veri beneficii del vivere umano. L'amore consiglia la carità; amando s'impara a pregare, e si ritrova Dio. Ama chi piange e le lagrime sono il battesimo della virtù. Come la natura crea il nostro corpo, così l'arte crea il nostro spirito.

Molta giovinezza, vale a dire pochissima esperienza, troverete in queste massime, che non si possono nemmeno avvicinare a quelle del gentilissimo Vauvenargues, morto giovane e saggio. La vita in quasi tutti gli scritti dell'amico nostro è ancora al primo suo momento, quando più la si sente che non la si comprenda. Ma la giovinezza è la stagione dei fiori, e se anche con fiori non si possono fare che delle inutili ghirlande, bene amiamo averne pieni i giardini e la casa. Mi guardi il cielo dunque ch'io voglia ridurre queste massime e l'arte tutta del Bazzero a un sistema, e rilevarne le frequenti contraddizioni, e la non molta profondità pratica. Leggano le anime più giovinette queste pagine e lascino che la dolce poesia trabocchi dagli orli. Arido è il tempo e aride le ragioni del tempo: beato chi s'inebria una volta nella sua vita! vien per tutti necessariamente e troppo presto la stagione che la mente vede più chiaro le cose del mondo nei loro rapporti relativi e proporzionali, ma è sempre un giorno triste quando si scopre il primo capello bianco. Il Bazzero non ebbe il tempo di affilare la sua filosofa fino a farne uno strumento di morte contro sè stesso; e morì prima che la critica di sè corrodesse la sua abbondante spontaneità. Storia e filosofia sono ancora in lui, come nel primo stadio della civiltà, allo stato poetico. Egli non seppe mai, come i modernissimi scrittori fanno, rendersi il minuto conto dell'opera propria e calcolare la quantità degli elementi che entravano a comporre il suo ideale, farne dei prospetti, rintracciarne la derivazione, pesare a piccole dosi la produzione chimica del proprio pensiero.

Le Corrispondenze segnano un passo dalla poesia colorita alla poesia del disegno. Sono meno abbaglianti degli Acquerelli, ma più consistenti. L'impressione va perdendo alcun poco della sua vaporosità per concretarsi in un corpo. Ci sono ancora i prediletti sfondi, i mari trasparenti e celesti, le vastità fantastiche, ma uomini e cose cominciano insieme a farsi avanti e a tenere il campo del quadro. La realtà viene incontro e lo scrittore dopo averla accolta con giovanile trasporto, la segue, la insegue, la trova,

È da alcuni tratti di queste Corrispondenze che si vede ancor meglio quello che il Bazzero avrebbe potuto scrivere al volgere del suo trentesimo anno, quando placato il torbido senso giovanile, fosse venuto alla vita nella chiarezza d'un sentimento più riposato.

Le Corrispondenze sono argomenti semplicissimi, che il Bazzero eleva a una maggiore dignità. Pur scrivendo per conto di giornali di Moda e di Sport non riusciva mai lo scribacchiare a questo povero uomo. Aver la penna in mano voleva sempre dire per lui erigersi a interprete e quasi indovino delle cose, come se la sedia del suo studiolo fosse il tripode e Nume fosse per sè l'umano pensiero. Di qui forse una soverchia abbondanza d'addobbi che pare quasi una verbosità senza significato, e non è che una eccessiva riverenza; di qui anche una risonanza nell'incedere stesso della parola, che pare gonfiezza e non è che una musica che accompagna la venerata Idea. Chi ama adora, e chi adora prega a lungo e canta. Ma fatta la debita parte alla foga giovanile, poco gli manca per essere qua e là un modello di stile. Cercate alla pagina 302 la descrizione d'un paesaggio alpestre sopra Oropa e giunti là dove egli parla di una vacca che appare col muso gemmato d'acqua, le corna sporche di terra, con una bava che fila giù dalle mascelle spostate dal ruminare, che sbarra gli occhioni, e colla coda sferza una mosca, poi sprofonda la gamba nana nei cespi di rododendron…. leggete, giudicate. Non è più l'infinito azzurro, non è più la vaporosa visione aleardiana, è una vacca viva in mezzo a un armento vivo.

Le Melanconie di un antiquario che chiudono il presente volume sono variazioni artistiche e spirituali sopra il Natale e altre feste dell'anno, pubblicate come articoli d'occasione nel Pungolo di Milano. Era troppo lusso per i soliti abbonati. Qui troveranno la luce giusta.

* * *

Degli altri scritti che non entrano in questo volume non dirò che per cenni. Al solo elenco non basterebbero dieci pagine, ma vien da sè che il valore non sia uguale in tutti, come non uguale era la stima che ne faceva l'autore. Un grosso libro di Confidenze egli teneva in pronto per la stampa, e in parte anche pubblicò sopra qualche giornale.

E la raccolta delle lettere che Lina scrive ad Ermanna sui casi della propria vita e di quella delle sue amiche. Non c'è una gran favola e un grande intreccio, ma ne forma il tema l'assidua osservazione delle piccole cose e dei grandi sentimenti. In questo volume, dove abbiamo le confidenze originali dell'autore, ci sembrò inutile riportare quelle ch'egli affidò a un gracile personaggio fantastico, sebbene ci dolga che molte pagine descrittive restino per ora sottratte alla curiosità degli artisti. Il nome di Lina e di Ermanna ritorna spesso nelle memorie insieme a quello di un Giuliano, titolo d'un dramma storico in cui versò molta amarezza, Un romanzo tentò su Gian Galeazzo Visconti, e tre volte ritornò sopra il Buondelmonte. Abbozzò una Cinzica, un Baldo e una quantità infinita di schizzi, d'impressioni, di pensieri, di ricordi, che, sebbene inediti, si rivedono nella loro matura integrità negli Acquerelli, nelle Corrispondenze, e nelle Lagrime e Sorrisi. In un secondo volume, che tratterà più specialmente di studii artistici e archeologici, troveranno più naturale il loro posto le sue ricerche storiche su Matteo I Visconti, sugli Italiani alla prima crociata, gli opuscoli sulle Armi di fuoco, Sulle armi antiche nel Museo Archeologico di Milano, le Riviste artistiche sull'Esposizione nazionale di Milano, e quegli altri scritti d'arte che gli meritarono le lodi dei conoscitori. Fra gli altri il direttore dell'Auf der Höhe, dottor L. von Sacher Masoch di Lipsia, gli scriveva in data del 10 gennaio 1882;

"Illustrissimo signore!

"Il di lei nome celebre non solamente in Italia, ma che ha passato già le Alpi ed il mare e la raccomandazione del signor professore Angelo De-Gubernatis di Firenze, mi hanno ispirato il desiderio di chiedere alla V. S. Ill. il favore di contribuire alla mia rivista internazionale. "Auf der Höhe" recentemente fondata. Noi ci siamo proposti di proteggere e coltivare le belle arti e le scienze in bella forma per un pubblico educato, ma senza eccitare contese e disputazioni. Nomi come Wallace, Flammarion, De-Gubernatis, Mantegazza, e altri che abbiamo l'onore di chiamare i nostri collaboratori, Le saranno una garanzia per le tendenze della nostra rivista. Ci recheremo a onore se la S. V. Ill. ci concedesse il favore di diventare il nostro collaboratore e fissasse l'onorario per il di Lei pregiatissimo lavoro. Aggradisca, ecc."

Il sentirsi a un tratto chiamato da una voce lontana, il vedere il nome suo messo a lato dei più illustri cultori degli studii, ecco il primo e l'ultimo compenso della sua penosa, oscura, travagliata carriera letteraria. Poco potè rispondere all'invito, perchè nell'agosto di quello stesso anno la sua mano era fredda per sempre. Altri compensi tuttavia egli seppe procurare al suo cuore coll'esercizio delle più sante virtù civili. Alieno in tutto dai raggiri politici, volle pur entrare nella Associazione Costituzionale, che rispondeva meglio alle sue idee d'ordine, e vi si adoperò molto, offrendo la sua penna d'artista per tutte le scritturazioni d'ufficio, a redigere verbali, a compilare manifesti. Molti giovani amici, spiriti indipendenti, deploravano e deridevano costui che andava a servire un partito, o come si dice dai furbi, a compromettersi; qualche giornaluccio avversario gli lanciò sul viso le solite impertinenze.

Egli se ne turbò, soffrì, come soffriva sempre atrocemente delle grandi e delle piccole cose, ma rimase al suo posto. Era meno furbo e più coraggioso.

Della nostra Congregazione di carità non fu un comune patrono, ma un santo e zelante operaio.

Vi passava le più belle ore della giornata, e nominato visitatore dei poveri, andava per le case dei più miserabili a studiarne i dolori con quell'indulgenza che perdona anche gl'inganni. A me raccontava poi le sue tristi impressioni e lo stringimento del cuore che provava nel discendere certe scale. Fu dei promotori delle Cucine economiche, dove rimase tutto un inverno a distribuire le minestre, alacre, arguto fra i poverelli, che cominciavano a distinguere il signor Bazzero fra i cento che compiono il loro bene con solennità. Nè meno caro divenne agli Artisti della Società Patriottica. Prendeva allegra parte alle loro feste, schizzava con tratti rapidi e sicuri armi antiche, con una conoscenza di cose unicamente sua, con tanto gusto che il Pagliano e altri lo consigliarono a pubblicare un album in zincotipia, che è ancora molto apprezzato negli studi dei pittori.

Alla pittura ebbe sempre genio, sebbene non vi si dedicasse di proposito. Amò fin da fanciullo delineare tramonti coloriti, navicelle perdute nelle burrasche, boscaglie cupe tormentate dai venti. Della sua dottrina artistica e del suo gusto diede un largo saggio colle recensioni sull'Esposizione di belle arti pubblicate nel Pungolo di Milano, l'anno 1881, e in molti articoli illustrativi di cose vecchie e nuove, che egli regalava ai giornali e che non andranno perdute. Benemerito fu anche nel riordinare e nell'illustrare le Armature del Museo Archeologico, e quelle del museo Poldi-Pezzoli. Sempre disposto a far sacrificio della sua persona nei giorni di parata, era invece il più tenace e sempre il primo nei giorni di lavoro; non ebbe, nè dimandò ricompense ufficiali.

A Limbiate, in mezzo ai contadini, egli si sentiva più libero e più allegro. Quando vedeva una frotta di ragazzi in strada, chiamava a sè il più grande e gli dava qualche soldone perchè comperasse e distribuisse con giudizio una manata di zuccherini. La frotta scalza pigliava la corsa per la piazza come uno stormo di passeri, gridando: Viva el scior Ambroeus!

Egli correva in casa, ridendo, fregandosi le mani, col suo passino leggiero che non si sentiva, e per quel dì la gioia era con lui e cogli altri.

Ciò non impediva che il giorno dopo la nostalgia degli spiriti pellegrini sulla terra non rattristasse di nuovo la sua fronte. L'amore, l'arte, un nascosto e doloroso desiderio di gloria, un credere altrove, sempre troppo remota da sè, una felicità che non esiste che in noi, il sentimento esagerato della propria pochezza sociale in contrasto con un non proporzionato concetto della propria individualità solitaria, le continue apprensioni, pur troppo non false, del suo presto finire, tutte queste erano le cagioni che lo facevano comparire ora torbido e rinchiuso, ora sospettoso e incostante,

Da qualche lettera risulta ch'egli meditò più volte la morte, e vi andò vicino: altre volte pensò di entrare tra i monaci dell'Ospizio del gran San Bernardo. Fu religioso perchè fu buono e amò sua madre: ma più ancora perchè fu artista. Ogni passo verso una perfezione è un passo verso Dio, che sta nei cuori; nè la Intera Bellezza si può desiderare senza credere a lei come alla luce. La sua non fu la fede d'un catechismo, ma neppure un delicato epicureismo che teme, non credendo all'infinito, di rifiutare la più grande delle umane emozioni. Egli è pio e sincero anche quando sembra disperato.

Di una tale esistenza non comune, alla quale s'intreccia un delicato nome di donna, voi troverete nella prima parte di questo libro i documenti. E il libro anzichè una stonatura, come temono i suoi amici, crediamo che possa essere un raggio di sole che ritorna e nel suo complesso un prezioso documento a tutti quelli che studieranno l'evoluzione del pensiero e del sentimento italiano in quel tumultuoso periodo che succede alle battaglie dell'indipendenza, quando l'entusiasmo che le ha compiute diventa il primo imbarazzo del vincitore. Tutto è disordine ancora, non si sa quel che si vuole, ma si vuol molto, da tutti. Il linguaggio epico urta colla necessità ufficiale, il passato ingombra il presente e impedisce alle giovani forze l'andare avanti.

Ambrogio Bazzero non è solo in questa evoluzione, e per non parlare che di una piccola scuola milanese, mi pare che i nomi del Rovani, del Tarchetti, del Praga, del Dossi e del Boito abbiano con lui molti punti di affinità artistica. A tutti costoro mancò forse una ricca suppellettile accademica, ma tutti amarono l'arte con geniale sfrenatezza; la vita uccise i migliori.

D'Ambrogio Bazzero non vorrei che l'antica devozione mi avesse tratto a dire cosa maggiore del vero. Che se a chi lo conobbe e a chi lo conoscerà fra poco dovesse sembrare il mio giudizio troppo infiammato, io non mi pentirò d'aver consumato il mio fuoco a riscaldare questa cenere benedetta. Da due anni il povero Bazzero giace sotterra, e più che da due anni giacevano rinchiuse e morte le ignorate pagine dell'anima sua. Non si risuscita un morto senza un gran grido.

* * *

Il tifo che l'aveva già colpito nel 1873, lo assalì una seconda volta ai primi dell'agosto del 1882. Fu una malattia rapida, senza pietà, che il fratello Carlo descrisse in una potente Commemorazione che ha scosso ogni cuore. L'anima di Ambrogio aiutò a dettare quelle pagine così vere e così tremende che narrano un fatto tanto comune, il morire. Così termina quello scritto:

"Era la mattina di lunedì 7 agosto, il giorno che egli aveva

stabilito per la partenza pel suo giro di svago.

Alle 9 e 45 l'infermiera, fatto il segno di croce, cominciò a

pregare a suffragio dell'anima.

Il suo volto rimase atteggiato ad un dolore sdegnoso, le labbra sottili strette, l'occhio semi-aperto, io spirito malinconico abbandonò la terra, lasciando sul volto i segni dell'angoscia, supremo addio alla luce; si dileguò addolorato così come s'era sempre pasciuto di segreto corruccio e di desolazioni.

Venni da mia madre, m'inginocchiai e con uno scoppio del mio pianto

feci più violento il suo, che s'effondeva invocando Dio.

Mia madre, mio padre ed io baciammo un'ultima volta la sua fronte

tiepida ancora, e il nostro sacrificio era compiuto."

La notizia della sua morte giunse quasi improvvisa agli amici e fa un colpo di fulmine. Povero Bazzero! Ci ritrovammo tutti al tuo funerale, e ci parve che in te morisse la nostra prima giovinezza.

Ho ancora presente quella bella mattina di agosto. La gente riempiva la strada innanzi alla sua casa. C'erano le rappresentanze della stampa, della Costituzionale, della Congregazione di carità, gli amici della Palestra, della Vita Nuova, dell'Eco dello Sport, i parenti, i poverelli. Pareva che tutti, anche quelli che l'avevano incontrato una volta sola, affettassero un certo orgoglio d'essere al suo funerale, per dimostrare in qualche modo d'appartenergli. Due cose ebbi occasione di osservare nel mezzo della mia commozione: che la morte è una rivelazione; che i buoni sono forti.

Dal portichetto si entrava nella sala d'armi a terreno, vasto locale dal nero soffitto, dalle finestre acute a piccoli vetri rotondi, pei quali la luce entrava fredda a intirizzirsi sull'acciaio delle armature appese alle pareti. In un angolo un camino con poca cenere, e un vaso funebre sopra; di qua di là cassoni antichi, d'un colore cupo, con sopra elmi, e appoggiati agli spigoli delle vecchie targhe.

Nel mezzo era il feretro dell'ultimo amico dei cavalieri, fra quattro antiche torcie e molti fiori. Al cimitero non gli mancarono saluti pieni di lagrime. Uno gli disse:—Beato chi anche a trent'anni lascia un'orma di sè!—Quell'uno era Carlo Borghi, anima e simpatia della Vita Nuova, anch'egli una speranza dell'arte e del paese. Non passò l'anno che la morte, giudicandolo colle sue stesse parole, le trascriveva pel suo funerale. Noi crediamo ancora che i morti s'incontrano in qualche luogo.

In alcune sue Ultime volontà il Bazzero lasciava scritto: «Il giorno da me tanto desiderato, o miei parenti, è giunto. e non piangete: è il giorno in cui voi finalmente conoscerete l'anima mia.» E dopo aver raccomandato la sua donna e le sue ceneri, pregava così: «Per mia iscrizione queste sole parole:

AMBROGIO BAZZERO

NATO…………… MORTO……………

Tout ce qui finit est si court!

Erano le parole della sua donna, nelle quali spera di rivivere.

I giornali cittadini di tutti i partiti dissero le lodi del defunto: la famiglia gli eresse un sepolcro, dove a capo della cassa, pose le sue intime memorie e le lettere della sua donna. Oggi ne richiama lo spirito e lo raccomanda sommessamente all'avvenire.

Storia di un'anima

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