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23 MARZO

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Mi ripromettevo, in questa settimana che precede la nostra adunata, di sviluppare con una serie di articoli le linee di quello che può essere il nostro programma di domani.

Rinuncio a questa esposizione, perché trattandosi della settimana risolutiva dei fondamentali problemi della pace, la politica estera assorbe tempo, spazio e attenzione, e poi perché l’ampia discussione dei mesi scorsi ha già «ambientato» i lettori del Popolo. Il resto verrà esposto, a voce, domenica da me e da altri. Oggi, mi limito a queste considerazioni.

Chi segue la vita politica nazionale, la scorge tutta pervasa dai fermenti dell’insofferenza verso l’insieme delle istituzioni e degli uomini che rappresentano il passato anacronistico e da una volontà profonda di rinnovazione. Accanto ai Partiti tradizionali, ne sono sorti in questi ultimi tempi due nuovi: il Partito Popolare Italiano e il Partito Liberale Riformatore. Al di sopra di questi Partiti stanno altre forze che domani potrebbero giocare una carta decisiva: le associazioni dei combattenti che spuntano in ogni città e in ogni villaggio d’Italia, e che molto probabilmente si raccoglieranno domani in un solo potente organismo, che avrà un’unità di mezzi e di scopi. Può darsi che il «trincerismo» annulli a un dato momento tutto il resto. Se si esaminano i programmi dei diversi Partiti e vecchi e nuovi, si vede ch’essi si rassomigliano. In certi postulati si identificano. Ciò che differenzia i Partiti, non è il programma; è il punto di partenza e il punto di arrivo.

Ora noi che non siamo dei vigliacchi maddaleni pentiti per via dell’offa che può essere rappresentata da un miserabile collegio elettorale, noi partiamo dal terreno della nazione, della guerra, della vittoria. Partiamo insomma dall’interventismo.

Questo ci divide irreparabilmente, non solo dal socialismo ufficiale, ma anche da tutti quei gruppetti e uomini che, forse vanamente, cercano per vie dirette o traverse e per motivi più o meno confessabili, di riaccostarsi al partitone, sommo dispensiere di grazie schedaiole. Tenendoci fermi sul terreno dell’interventismo — né potrebbe essere altrimenti, essendo stato l’interventismo il fatto dominante nella storia della Nazione — noi rivendichiamo il diritto e proclamiamo il dovere di trasformare, se sarà inevitabile anche con metodi rivoluzionari, la vita italiana. Chi vorrebbe dipingerci come conservatori o reazionari, semplicemente perché non abbiamo più in tasca le tessere delle varie chiese, o perché non ci rassegniamo a gettare nell’Adriatico i centomila italiani della Dalmazia, è un poderoso imbecille.

Noi interventisti, siamo i soli che in Italia hanno diritto di parlare di rivoluzione. Forse per questo ne parliamo assai poco. Noi non abbiamo bisogno di attendere la rivoluzione, come fa il gregge tesserato, né la parola ci sgomenta come succede al mediocre pauroso che è rimasto col cervello al 1914. Noi abbiamo già fatto la rivoluzione. Nel maggio del 1915.

Noi prendiamo le mosse da quel maggio che fu squisitamente e divinamente rivoluzionario perché rovesciò una situazione di vergogna all’interno e decise — vedi intervista Ludendorff — le sorti della guerra mondiale.

Quello fu il primo episodio della rivoluzione. Fu l’inizio. La rivoluzione è continuata sotto il nome di guerra, per quaranta mesi. Non è finita. Può avere e non può avere il decorso drammatico che impressiona. Può avere un ritmo più o meno affrettato. Ma continua. Senza la rivoluzione che facemmo nel maggio del 1915, a quest’ora il Kaiser avrebbe piantato un principe prussiano a Parigi, e l’Europa, diventata una colonia e una caserma teutonica, avrebbe vissuto lunghi anni di schiavitù.

Le terribili conseguenze di una vittoria degli Hohenzollern dal punto di vista della democrazia e della libertà sono state già illustrate troppe volte, anche dai tedeschi, perché sia il caso di insistere. Avere impedito il trionfo delle forze di reazione è stato eminentemente rivoluzionario.

Tutti coloro, e in prima fila i socialisti italiani, i quali per poco o per molto hanno, direttamente o indirettamente, lavorato per realizzare la vittoria tedesca, sono dei contro-rivoluzionari, dei reazionari, dei carnefici della libertà. Se i socialisti che per quattro anni sono stati dei reazionari — in quanto facilitarono la guerra degli Imperi Centrali — possono oggi ciarlare di rivoluzione, lo devono a noi e soltanto a noi che siamo stati dei rivoluzionari dal maggio 1915 in poi. Dati questi precedenti, quali possono essere i cardini della nostra azione di domani?

Noi vogliamo l’elevazione materiale e spirituale dei cittadini italiani (non soltanto di quelli che si chiamano proletari....) e la grandezza del nostro popolo nel mondo.

Quanto ai mezzi, noi non abbiamo pregiudiziali: accettiamo quelli che si renderanno necessari: i legali e i cosiddetti illegali. Si apre nella storia un periodo che potrebbe definirsi della «politica» delle masse o dell’ipertrofia democratica. Non possiamo metterci di traverso a questo moto. Dobbiamo indirizzarlo verso la democrazia politica e verso la democrazia economica. La prima può ricondurre le masse verso lo Stato, la seconda può conciliare, sul terreno comune del maximum di produzione, capitale e lavoro. Da tutto questo travaglio usciranno nuovi valori e nuove gerarchie.

Questo, in sintesi, il nostro orientamento politico e spirituale. Questo il terreno di discussione e d’intesa dell’«adunata» imminente.

MUSSOLINI

Da Il Popolo d’Italia, N. 77, 18 marzo 1919, VI.

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