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ANNO QUINTO
AUDACIA!
ОглавлениеQuattro anni fa, in questo giorno, usciva il primo numero del Popolo d’Italia. Preceduto da violente polemiche e da clamorosi episodi che avevano scaldato l’atmosfera, allora un po’ grigia, della politica nazionale, il nuovo giornale era atteso, con ansia che non fu delusa, dalle aristocrazie del popolo italiano. Sono passati, giorno per giorno, quattro anni. Mentre scrivo queste linee, guardo i volumi della collezione e un sentimento composto di orgoglio e di melanconia mi turba l’animo. Quella colonna di volumi è la storia del giornale. È un po’, anche, la mia storia. C’è in essi, documentato, un periodo della mia vita. Ma c’è, soprattutto, una parte della storia nazionale e mondiale.
Il Popolo nacque con un gesto d’audacia. Dopo quattro anni io guardo bene negli occhi questa mia creatura. Non si è corrotta. Non ha degenerato. Non ha messo attorno a sé l’adipe che precede le dissoluzioni. È cresciuta. È più alta. Ma non ha perduto niente della sua elasticità felina. Ecco: io ascolto il cuore. Batte con un ritmo forte e regolare. In questo corpo, niente c’è ancora di flaccido e di cascante. Tutto è romanamente virile. Abbiamo ancora degli odi tenacissimi e degli amori profondi. Abbiamo ancora un arsenale di armi pronto per le battaglie di domani. Abbiamo ancora dei nemici che attendiamo, con implacabilità, al varco. Li andremo — anzi — a cercare. Abbiamo ancora degli amici e non li abbiamo cercati. Io annuncio agli amici che nel quinto anno di vita, il Popolo d’Italia non è ancora diventato una ditta, un’impresa, un’amministrazione, ma è semplicemente l’arma e lo strumento delle nostre idee. Il Popolo d’Italia continuerà a vivere, così, in assoluta libertà, di fronte a tutti e contro tutti. Noi sappiamo navigare anche contro corrente. Lasciamo il belare dogmatico alla vile pecoraia dei tesserati. E scriviamo qui, a chiare lettere, la parola del nostro battesimo: Audacia!
A questa parola abbiamo tenuto fede. Quattro anni di vita, quattro anni di battaglie. Battaglie di idee e di persone. Lo stesso impeto, nelle une e nelle altre. Ne abbiamo schiantate di carogne. Ne abbiamo messe in circolazione di idee. Ne abbiamo movimentati di cervelli. Ne abbiamo eccitati dei cuori! Oh, certo: qualche volta siamo stati eccessivi, fors’anche ingiusti; ma io non mi rimprovero l’eccesso e nemmeno l’ingiustizia. La violenza è immorale quando è fredda e calcolata, non già quando è istintiva e impulsiva. Chi può misurare i colpi nel furore della mischia?
Oh i primi tempi furono duri. Fu necessario di sgominare dapprima gli sporchi moralisti di quella cosa enormemente stupida, impotente e immorale che si chiama socialismo ufficiale italiano. La gente appariva incerta. Predicare la guerra! Suscitare delle energie per la guerra! Nascere e vivere per questo! Ma in poco tempo le nostre penne, che menavano di punta e di taglio, ruppero il ghiaccio dell’indifferenza. Attorno a questa bandiera diventavano sempre più folte le masse. Dopo pochi mesi, era la moltitudine che rombava tutte le sere, in questa bellissima strada dedicata a Paolo da Cannobio e nelle piazze di tutte le città d’Italia. Il Popolo in quei giorni ebbe un pubblico immenso, dal Piemonte alla Sicilia. Giornate indimenticabilmente «radiose». Gli avversari, a guerra scoppiata, pensarono che saremmo morti. Invano. A guerra finita, splendidamente finita, gli avversari ci ricantano la loro nenia funebre. Illusi. Il Popolo vive. Non solo. Si appresta a vivere ancora di più. Il giornale della guerra diventa il giornale della pace. Dopo avere agitato i problemi della guerra, il Popolo si accinge ad agitare e imporre i problemi della pace. Questo giornale è il più vitale d’Italia. Non già perché — ehi tu, là, che strizzi l’occhio della malignazione imbecille, ascolta — non già perché disponga di fondi a milioni. No. Perché non è un giornale come tutti gli altri. Gli altri, su per giù, sono dei giornali, sono — cioè — dei sacchi di notizie, che vengono scodellate quotidianamente al pubblico. Quei giornali non fanno polemiche di idee e meno ancora polemiche di persone. O quando le fanno, sono di una insipidità grottesca. Poi, dietro al foglio non ci vedete nessuno. C’è un impersonalismo che può sembrare, ma non è simpatico. Qui, dietro al Popolo, trovate gli uomini, in carne ed ossa, i quali battagliano senza maschere impersonali, e fanno vibrare nel foglio di carta tutto ciò ch’è il travaglio della loro vita, sì che il foglio stesso appare come una vela gonfiata da un vento impetuoso. Gli altri giornali servono il pubblico; noi non serviamo che le nostre idee. Gli altri giornali cercano il pubblico, noi invece non lo cerchiamo e quando è necessario lo prendiamo a pugni e se si addormenta nella verità rivelata gli suoniamo la sveglia dell’eresia con trombe di fanfare.
Abbiamo la superbia di dire che tutte le mattine noi non mettiamo in circolazione un foglio di carta, ma un frammento di noi stessi, una testimonianza della nostra passione, una vibrazione, un grido delle nostre anime.
All’alba del quinto anno di vita, noi sentiamo che la nostra creatura ha ancora tutte le mattutine impazienze della giovinezza. Quello che fu fatto è molto, ma la fatica di domani sarà ancora più grande.
Avanti. Con audacia! E con disinteresse! Per le migliori fortune della Patria, per il progresso indefinito dell’Umanità. Al Popolo d’Italia i giornalisti non si sono «professionalizzati».
MUSSOLINI
Da Il Popolo d’Italia, N. 317, 13 novembre 1918, V.