Читать книгу La carità del prossimo - Bersezio Vittorio - Страница 10

VII.

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Come vi ho già detto, Agapito viveva solo con una nipote, dalla quale, sotto pretesto d'usarle carità albergandola in casa sua, si faceva servire come e più umilmente che da una fante, senza punto pagarle il becco d'un quattrino.

Quella poveretta di ragazza poteva proprio dirsi sacrificata. Sino ai ventitre anni (ora ne aveva venticinque e da due anni dimorava collo zio) era vissuta al suo villaggio natio, a quello stesso di cui abbiamo udito lo speziale dirsi originario. La sua famiglia era di agricoltori, che traevano un modestissimo sostentamento dai proventi d'una poco estesa lista di terra cui coltivavano con quell'amore che i nostri paesani mettono alla zolla da essi fecondata col proprio sudore instancabilmente. Erano due i figliuoli che allietavano il padre e la madre; buona gente se mai fu, che amavansi tra loro grandemente ed amavano del pari la prole, un maschio ed una femmina. Difficilmente si sarebbe potuto trovare una famiglia in cui regnassero, non dico di più, ma del pari la pace, l'amore e l'accordo. La loro tenuissima mediocrità di fortune, mercè la tenuità ancora maggiore dei loro desiderii e la parsimonia del viver loro, tornava quasi un'agiatezza, che loro non lasciava sentire la mancanza di nulla. Lavoravano a gara di buon umore genitori e figliuoli in quella sana e direi allegra opera dei campi che rafforza il corpo e lascia l'anima soddisfatta e tranquilla. Si sarebbe stranamente meravigliato chi fosse venuto a dir loro che c'erano condizioni ed individui più felici e cui essi avrebbero da invidiare.

Fra le altre avevano eziandio la fortuna d'un buon amico. In buona attinenza con tutti del villaggio, era quel solo che potesse proprio dirsi un amico e teneva loro luogo di parenti che non avevan più, fuorchè lo speziale Agapito, lontano e che pensava ad essi come al taicun del Giappone. Era costui un ortolano che coltivava il verziere ed il frutteto d'un vasto tenimento che un gran signore possedeva lì presso: si chiamava Matteo, era del paese ancor egli ed ammogliato eziandio, non aveva avuto che un figliuolo, e i ragazzi dell'una e dell'altra famiglia giuocavano insieme; e i parenti, come suole, immaginavano che, quando cresciuti, il figliuolo dell'ortolano avrebbe sposato la figliuola dell'agricoltore.

Le avventure di Matteo avremo l'occasione di conoscerle più tardi, chè ancor esse fanno parte del dramma al cui svolgimento abbiamo da assistere; ma per intanto conviene ch'io vi accenni, come, mal corrisposto da quell'unico figliuolo, non solo dovesse rinunziare al vagheggiato maritaggio, ma il povero ortolano ne avesse tal dispiacere, che, natagli l'occasione di cambiar paese andando a servire altro padrone in altra e lontana località, egli abbandonasse il villaggio, deciso a non tornarvi più.

Questi furono i primi due dolori che piombarono addosso alla famiglia di Anna (questo era il nome della nipote dello speziale), sulla qual povera famiglia doveva ad un tratto abbattersi la sventura.

Il fratello di Anna dovette andar soldato benchè unico de' maschi, giacchè suo padre a quel tempo non aveva ancora l'età richiesta dalla legge per salvarnelo. Fu un dolore inesprimibile per la povera famiglia, e come potete pensare, tanto più per la madre, che lo amava supremamente: tal dolore che la poveretta si ammalò e mai più non si riebbe. Il padre rimasto solo a lavorare ci consumò le poche forze che ancora gli rimanevano, e a non lungo andar di tempo, fu ridotto cagionevole di salute ancor egli. Alla povera Anna toccava la custodia e la cura di due infermicci e il bastar essa sola, giovanetta, a tutte le bisogne famigliari.

E non era tuttavia colma la misura. Il figliuolo era stato incorporato nell'artiglieria a cavallo (di cui erano allora solo due compagnie): faticoso servizio cui egli, partito con troppo doloroso distacco da' suoi, faceva a malincuore e quindi trovava gravosissimo oltre ogni dire. In realtà faceva un indolente e poco zelante soldato, e le punizioni gli fioccavano addosso a rendergli sempre più uggiosa la vita militare, già sì poco aggradevole a chi non sia nato fatto per essa. Un giorno gli toccò di fare una tappa forzata di più e delle miglia parecchie oltre la marcia ordinaria: appunto perchè soldato meno diligente e quindi in mala vista ai superiori, eragli toccato un cavallo bizzarro cui era una fatica maggiore tenere in freno. Verso la fine della giornata il giovane si sentiva stanco da non poterne più; il cavallo secondo il suo solito adombra: egli irritato gli caccia senza pietà gli speroni nei fianchi, e la bestia impennatasi fa così bene che manda il suo cavaliere stramazzoni sul suolo. L'infelice batte col petto sopra un sasso e quando lo rialzano vomita a piene boccate il sangue, e, trasportato allo spedale, ci sta ammalato sei mesi e n'esce tisico senza più redenzione. Ottiene il congedo di riforma e torna a casa incapace al lavoro, altro malato alle cure sollecite di Anna. Stentò ancora poco meno d'un anno e morì. La madre gli tenne dietro poco tempo dopo. Padre e figliuola, consumato tutto quel poco che avevano, rimasero nella più profonda miseria.

Il padre non tardò di molto ad esser liberato ancor egli dalla morte; e il solo parente che rimanesse ad Anna, lasciata senza mezzi di sussistenza, era lo speziale Agapito. Sollecitato dal giudice di mandamento a venire, si recò lo speziale al paese, e siccome era restato appunto senza serva, si decise facilmente alla generosità di pigliar seco quella poveretta che lo avrebbe servito con tutta umiltà, e che egli non avrebbe pagato che con rimbrotti e rinfacciamenti. Si vantò di questo bel tratto come d'un eroismo degno degli uomini di Plutarco, ed ogni giorno che Dio mandava lo gettava in muso alla infelice con una crudeltà degna delle mazzate. Avrebbe sorpreso profondamente e indignato ancor più il brav'uomo, chi si fosse osato dirgli che il suo non era il miglior atto di carità che si possa vedere nel mondo.

Agapito adunque salito su nel suo quartiere quella tal mattina, da cui prende le mosse la nostra storia, si mise a gridare con voce già piena di maltalento:

—Marmotta? Dove sei, marmotta?

Questa era l'appellativo più gentile con cui egli fosse solito chiamare la povera nipote.

La ragazza era in cucina a preparare il pranzo, ed accorse lesta, tutta rossa in viso dal fuoco dei fornelli. Certo che non aveva in sè nulla di bello nè di distinto: era una villanella qualunque, non della letteratura arcadica nè dell'arte pastorale dei quadri al di sopra delle porte, secondo lo stile di Watteau, ma della realtà che si trova nelle nostre montagne: una ragazza tozza, forte, che aveva però un'aria di molta bontà e d'infinita rassegnazione. Vestiva una misera ciopperella di povera stoffa, logora e mal fatta, la quale non aveva che un pregio: la pulitezza. Stette innanzi allo zio, impacciata e timorosa, come chi s'aspetta ad ogni occasione i rimbrotti e le male parole.

—Qui c'è puzza di bruciaticcio: incominciò Agapito in tono burbero e minaccioso; me ne hai fatta qualcheduna in cucina, scimunita che sei. Già, secondo il tuo solito, chè altro che malestri non mi sai fare. Possibile che non ne indovini una, brutto mascherone!… Mi mangia il pane a tradimento questa sciagurata.

Anna chinò il capo e non disse una parola. Ma stata lì un poco senza muoversi e senza fiatare, Agapito la riscosse con uno spintone.

—Ebbene, marmottaccia, chè stai lì piantata come un cavolo? Non t'ho mica chiamata per bearmi nella contemplazione del tuo grifo.

La ragazza, colle lagrime in pelle in pelle, si fe' forza e domandò colla voce più ferma che potè:

—Che cosa mi comanda, signor zio?

—Uh! La s'è sveglia finalmente!… Portami il mio soprabito di panno verdescuro, e dagli una buona spazzolata, e va in cucina a moderare un po' il fuoco del fornello, chè tu mi consumi giorno per giorno più di carbone di quel che tu vali… E fa presto, ch'io non voglio indugiarmi qui a tua cagione.

La nipote corse lesta ad obbedire. Messer Agapito si fece innanzi a uno specchietto che pendeva all'intelaiatura de' cristalli della finestra ad aggiustarvisi con miglior garbo la pezzuola da collo.

—E così? gridò egli dopo un momento. Anna, marmottona, vieni o non vieni? Mi vuoi proprio far perdere la pazienza?

Anna entrò correndo tutta affannata con in una mano l'abito penzoloni e nell'altra la spazzola.

—Finalmente!

Agapito vestì l'abito che la nipote l'aiutò ad infilar nelle maniche, cambiò il suo solito berretto in un cappello a staio, e borbottando e rampognando dietro la nipote, uscì di casa per l'uscio che metteva sul pianerottolo della scala comune.

Non discese verso la strada, ma si avviò invece verso i piani superiori, e non cessò di salire finchè non si trovò al sommo affatto delle scale: nel corridoio delle soffitte. Andò all'uscio per cui si entrava nel gabbione del pittore e picchiò discretamente alla porta colla nocca delle dita.

—Chi va là? chiese dall'interno la voce della Rosina.

—Amici: rispose coll'accento il più grazioso che seppe fare il signor

Agapito, atteggiando in pari tempo le labbra ad un lezioso sorriso.

La carità del prossimo

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