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V.

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La Rosina, dopo la partenza del proprietario, aveva accennato di voler continuare il suo repetio; ma Vanardi era allora ricorso ad un suo mezzo estremo, di cui, appunto per non ispuntarne l'efficacia, non usava che rarissimamente, nelle occasioni solenni.

Questo mezzo era il seguente.

Si piantò ritto innanzi alla moglie, arruffatesi colla destra convulsa le chiome già arruffate, rotando paurosamente gli occhi come uomo che ha smarrito il lume della ragione, ed urlò con voce di basso profondo:

—Oh, sai che tu mi hai fradicio, e ch'io sono non so se più stufo o più disperato dei fatti miei? O la smetti od io, com'è vero il diavolo che mi porti, vado via, mi getto ad affogarmi nel Po, e ti pianto te coi bambini e l'amor tuo e la tua lingua, che son peggio della versiera.

Questa minaccia, in rare dosi, faceva sempre il suo effetto sulla buona moglie che in realtà voleva a suo marito il maggior bene del mondo. Rosina s'acquetò, e tornò a' suoi panni da cucire presso il desco, dove sedutasi, riprese a dondolar la culla dell'ultimo nato.

Vanardi, commosso da tanta virtù di sommessa rassegnazione, stette un poco a guardarla, e poi le si fece presso ed abbracciatala alle spalle, la baciò amorosamente sulla fronte.

La giovane donna arrossì tutta dal piacere.

—Ah! come saresti buona, disse Antonio, se tu non fossi così spesso cattiva.

—Io sono cattiva! esclamò la moglie levando su vivamente il capo. Sei tu che…

—Zitto, zitto; non rifacciamoci da capo. Voglio scrivere la lettera allo zio; e conviene che mi ci metta con tutti i sentimenti del corpo e dell'anima.

Il bambino nella culla ricominciò in quella a strillare più forte, e

Rosina dovette volgere ad esso tutta la sua attenzione.

Vanardi frugò tanto fra tutte le sue cose, che infine, per gran fortuna, riuscì a scovar fuori un biglietto di carta, che con un po' d'audacia d'espressione poteva dirsi bianco e polito; vi passo su due o tre volte la manica del vestito, come per lisciarlo viemmeglio; lo pose con una certa cura sopra la tavola; tolse d'in sulla scansia un fondo di bicchiere rotto, entro cui stava un pezzetto di spugna annerito da un inchiostro già asseccato; ci versò su alcune goccie d'acqua, e con uno spuntone di penna d'oca a barbe riccie e scarmigliate rimestò ben bene: poi sedette innanzi a quel foglio, il bicchier rotto lì vicino, la sua mano sinistra sopra la carta, nella destra quel simulacro di penna, ed aggrottò le sopracciglia in una meditazione laboriosa e profonda.

Rosina, poichè s'era accorta che nè il dondolarlo nè il cantargli la nenia valevano più a far dormire il piccino nella cuna, lo aveva levato su e lo teneva sulle sue ginocchia, parlandogli di parole senza senso e facendogli vezzi. Il bambino ora sorrideva, ora faceva greppo, ora metteva sue voci infantili, ora dava qualche pianto, in mezzo alle dolcezze, ai rimbrotti, ai parlari che gli faceva la mamma.

Gli altri fanciulli avevano ripreso della più bella il loro ruzzar per la stanza e facevano un chiasso che Dio vel dica. Tantochè il nostro Antonio, quand'ebbe scritto in alto del foglio: «Carissimo mio signor zio e padrino» e si volle concentrare per mettere insieme idee, non ne potè raccappezzare pur una in quel rumore di voci, di passi, di grida, che gli si veniva facendo dintorno.

Allora gittò con impazienza la penna sulla tavola, e ruppe fuori in queste parole:

—Eh! volete star cheti tutti quanti che il fistolo vi colga! Tonietto, sodo, dico, e va a studiar l'abbicì; tu Pippo, là in quell'angolo e fermo per mezz'ora; tu Gaetanino presso alla mamma e guai se ti muovi!… E tu pure, Rosina, taci tu stessa, se gli è possibile, e fa tacere il tuo fantolino un momento.

I bambini, alla subita sgridata paterna, stettero lì sorpresi, come e dove si trovavano, e guardavano attoniti il padre in volto senza muoversi più e senza accennar di ubbidire.

—Ebbene, avete capito o siete sordi? Corpo del diavolo! gridò Antonio, battendo sulla tavola un forte pugno che fece ribalzare quel frammento di bicchiere che faceva da calamaio.

Tonietto, il più grandicello dei bimbi, (gli aveva fatto dare a battesimo il nome suo e dello zio) non attese altro e sgusciò via lesto di là del paravento nell'altra parte della stanza; ma Pippo e Gaetanino, atterriti, cominciarono per far grosso il rifiato, poi diedero in qualche singhiozzo e finirono per iscoppiare in pianto dirotto.

—Ed ecco delle tue solite: gridò allora la Rosina: li fai sempre piangere ingiustamente tu!… Oh che uomo!… Venite qui carini, venite colla mamma, che il babbo gli è cattivo.

Ma Vanardi già s'era levato ed era corso dai figliuoli.

—Là, là, piccini: disse loro tutto amorevole: non piangete… Pippo sii buono… To' Gaetanino la chiave del papà e giuoca con essa… Da bravi, smettetela; adesso ch'io esco di casa vi andrò a comperare i confetti: che sì che vorranno esser buoni!

Ed il povero diavolo non aveva pure da comperar loro del pane!

Coll'accarezzarli, coll'abbracciarli, colle promesse, tanto ottenne che alla fine s'acchetarono; un certo silenzio relativo si stabilì nella stanza, ed egli potè dare tutta la sua attenzione alla compilazione della lettera per lo zio droghiere.

La qual lettera riusci del tenore seguente:

«Carissimo mio signor zio e padrino.

«Vengo con questa mia ad adempiere al mio dovere di augurarle il buon Natale ed il buon fine e il buon principio con tutte quelle felicità che si merita: e che Iddio gli conceda una lunga e prospera vita e una buona salute e una continua contentezza senza Dispiaceri di sorta.

«Questi augurii, oh glielo giuro, partono proprio dal cuore, e sono sinceri come se ne fanno pochi al mondo. Che io lei, mio buon padrino, non posso mai dimenticare di tutto l'anno; e ne vivessi ben cento di anni che non lo potrei mai; ma in questa stagione, in cui da tutti si pensa alle persone che ci sono più care, io ricordo anche maggiormente tutte le bontà del mio caro zio, e sento più forte ancora la riconoscenza per tanti generosi benefizi che ne ho ricevuti io specialmente, e che ne ha ricevuto la mia famiglia, e provo una pena grandissima d'aver offeso un sì buon parente e di non poterlo andare ad abbracciare, come ne avrei tanto desiderio che me ne struggo.

«Ma il Cielo, e riconosco io primo che non è stato altro che giusto e che io mi merito ogni peggio, il Cielo mi ha ben punito della mia disubbidienza, della mia ribellione all'affettuoso padrino, al mio secondo padre. E se lei sapesse tutto quello che mi è toccato soffrire e che soffro, ed anche i miei poveri bimbi, che a quest'ora ne ho quattro, e che sono innocenti, loro poverini, come agnelletti, ella ne avrebbe di sicuro compassione.

«E gli è per questi piccini che io ardisco ancora venire a pregarla una volta, assicurandola che sarà l'ultima, perchè abbia pietà di noi disgraziati, che siamo pure suo sangue, e che siamo ridotti all'ultima miseria, senza nemmeno aver pane da mangiare. E dobbiamo la pigione dell'intera annata, e non possiamo pagarla; e il padrone che è un uomo senza cuore (ella lo conosce, quell'impostore del signor Marone) ci caccia in mezzo la strada, facendoci vendere tutte quelle poche robe che ci restano, e siamo in debito verso tutti sulla strada, tanto ch'io non oso più neppure uscire per andare ai fatti miei, vergognato come ne sono.

«Insomma noi non abbiamo più nessuna speranza che in lei, e s'ella, che è la nostra Provvidenza, ci manca, io non so a qual disperato partito dovrò appigliarmi. Ma ella non ci abbandonerà, ed io ringraziandola anticipatamente, e rinnovandole tutti gli augurii, con profonda riconoscenza, mi dico

«Torino, 16 dicembre 185….

Suo umiliss. servo e nipote «ANTONIO VANARDI.»

Rilesse attentamente il suo scritto, lo lesse alla moglie che lo trovò un capolavoro d'eloquenza, e sentenziò che se lo zio non cedeva era proprio con un ghiacciuolo per cuore. Non c'erano bustine da lettera in casa, quindi convenne che Antonio ripiegasse il foglio su sè stesso nella guisa più elegante che seppe: ma quando si trattò di suggellarlo fu certificata l'assenza eziandio di un'ostia o d'un bastoncino di cera lacca. Per fortuna Vanardi si sovvenne della crosta di pane che stava sopra la stufa, ne ruppe un pezzetto coi denti, lo masticò ben bene e se ne servì per chiudere il foglio. Poscia vi scrisse su l'indirizzo: prese il suo cappellaccio senza falda, si gettò sulle spalle un misero mantelluzzo di panno logoro, e disse alla moglie:

—Vado a ricapitar questa lettera.

—Che? interrogò Rosina, pensi forse tu di recarla tu stesso allo zio?

—Oibò! fo conto di darla a Giacomo il figliuolo della portinaia qui sotto, pregandolo di recarla egli al fondaco di mio padrino.

—Giacomo è un buon diavolo….

—Un imbecille.

—Che lo farà volentieri, non ne dubito; ma sua madre è così poco servizievole….

—Per noi che non le diamo alcuna mancia, già; lo zelo dei portinai si misura agl'inquilini in ragione del denaro che ne mungono; ma questo è poi un così piccolo servizio, che spero non mi vorrà rifiutare. Intanto passerò eziandio dallo speziale per intendere un poco se mi vuol pagare, e poi farò una trottatina sino a casa di Selva.

—Salutami sua moglie, quella buona Adelina…

—Va bene.

—Eccone lì una che fu fortunata. Era una operaia come me, ed ha sposato un uomo di una ricca famiglia, un avvocato e che le fa fare una buona figura nel mondo.

Antonio si mise per traverso il cappellaccio e si morse i baffi.

—Sai tu Rosina, diss'egli con accento in cui sentivasi una vera pena, che non sei punto punto gentile? Le tue parole sono sassi tirati nel mio giardino, che mi colpiscono proprio in pieno petto. Certo, l'Adelina è da invidiare. Selva è uno dei migliori caratteri ch'io mi conosca, ed un bel talento. Lui risoluzione, coraggio, iniziativa e forza d'animo e di volontà come ne hanno pochi; io sono un meschinello, un buono da nulla, un imbecille, va bene… Ma quanto ad amore, Rosina, dovresti esser persuasa che ne hai da me tutto quel che possa averne da uomo una donna, e ciò dovrebbe farti più generosa a perdonarmi il resto.

Rosina, che in fondo aveva pure un cuore eccellente, fu tocca da queste parole del marito e più dalla commozione con cui eran dette.

—Hai ragione: esclamò ella, alzandosi col suo bimbo da un braccio e cingendo coll'altro che gli rimaneva libero il collo del marito: Hai ragione e perdonami.

Ad Antonio questo fatto della moglie produsse tanto maggior effetto quanto esso era più raro; abbracciò e baciò egli intenerito la moglie e il bambino ch'ella teneva sul petto, e partissi.

La loggia della portinaia aveva sotto il portone l'uscio d'entrata ed un finestruolo per cui si vedeva chiunque penetrasse nella casa.

Antonio sospinse l'uscio socchiuso ed entrò nel camerino. La portinaia seduta presso un fornello portatile di terra cotta era intenta a farvi cuocere su, dentro una pignatta, una minestra che mandava per l'ambiente un odore succolento e confortevole. Le nari di Antonio digiuno aspirarono con una voluttà tormentosa la tentazione di quell'odore. Un giovane dall'aria melensa e dai capelli color della stoppa stava grattandosi le ginocchia in un angolo: era Giacomo, il figliuolo della portinaia.

Questa che aveva udito entrare qualcheduno senza veder chi fosse, per avere le spalle rivolte all'uscio, aveva preparato il suo più bel sorriso con cui già da una settimana soleva salutare gl'inquilini del primo e del secondo piano in previsione e per esca delle strenne che avevano da venire alla fin del mese; ma poi visto chi era, conobbe che quel sorriso era perfettamente sciupato e decise tosto risparmiarsene la spesa: tornò di botto in tutto l'ingrognamento della scontrosa espressione di faccia che le era abituale.

Antonio, egli, salutò umilmente, e, con tutta la suggezione d'un supplicante che domanda una grazia, pregò sor Agata mandasse il figliuolo a recar quella lettera al suo indirizzo.

Sor Agata indugiò un momento a rispondere. Fu presso a dire a quel noioso che andasse con Dio, come si fa ad un pezzente che vi secca domandandovi l'elemosina; ma ebbe la generosità di non farlo; prese con isgarbo la lettera che Vanardi le porgeva e ne lesse l'indirizzo.

—Ah, ah! la scrive ancora a suo zio il droghiere… diss'ella con impertinente famigliarità: un altro foglio di carta sciupato… Bene; quando mi sarà di comodo manderò colà Giacomo.

—Se volesse aver la compiacenza di mandarlo il più presto possibile: osò balbettare il povero inquilino.

Ma la fiera portinaia lo fulminò con uno sguardo corrucciato che lo indusse subitamente al silenzio.

—Lo manderò quando si potrà: disse sor Agata con accento imponente. Spero bene che ella non vorrà che per gusto di lei si trascuri ciò che abbiam da fare!

Antonio protestò con una mimica piena di umiltà, ed uscì colla rassegnazione di chi non ha danari da pagare in altri lo zelo, l'interesse, nè anco la cortesia—perchè tutto si paga in questo mondo.

Entrò quindi nella farmacia.

Il farmacista leggeva il suo giornale seduto presso il braciere coperto da una gran campana di latta gialla traforata intorno a ghirigori, gli occhiali sulla punta acuminata del lungo naso, il solito berretto a lunga visiera in capo. Due garzoni si annoiavano colle mani in tasca ad aspettar gli avventori. Un uomo di servizio pestava nella retrobottega in un mortaio d'ottone che mandava il più assordante ed il più irritante rumore del mondo.

Al tintinnio che fece il campanello appiccato all'ascio d'entrata, lo speziale alzò il naso dal foglio e guardò dal di sopra degli occhiali chi fosse venuto.

—La riverisco signor Agapito: disse Antonio levandosi urbanamente il cappello.

—Oh, oh, caro signor Vanardi; l'è lei! E che buon vento?

Si rizzò da sedere con più gentilezza che non usasse abitualmente, si tolse di sopra il naso gli occhiali, ripose il giornale e toccò colla mano destra la tesa del suo berretto.

Ad Antonio, avvezzo oramai dappertutto ad essere accolto con insolente mancanza di riguardi, parve quello un fior di accoglimento pieno di simpatia e di stima, e sentì venirsi in cuore un po' di coraggio.

—La disturbo forse? dimandò egli come mezzo di entrare in materia.

—Niente affatto. Si figuri!… Lei non mi disturba mai… Leggevo qui il giornale… Ma gli è vuoto come una vescica… Non c'è mai nulla in que' benedetti giornali!… Ci rubano i denari vendendoceli… Eppure, che vuole? Non ne so star senza… Ah! c'è una cosa sola alquanto interessante: la novella d'un suicidio. Un povero diavolo che l'altro ieri s'è gettato in Po. Veda mò se a questa stagione può venire in testa una cosa simile!… L'hanno pescato ieri; e pare che siasi deciso a questo brutto passo per la miseria…

Antonio sentì scorrersi un brivido per tutto le membra.

—Per la miseria! diss'egli con accento profondamente commosso.

—Già! aveva una famiglia il disgraziato a cui non sapeva più come provvedere… Era operaio e non trovava più lavoro da nessuna parte. Il cervello gli è girato, e ponfate, egli andò ad affogarsi.

—Poveretto!… E la famiglia?

—Figuriamoci!… Senza pane, senza padre… Ah! ce ne sono di disgraziati al mondo!… Ma il giornale annunzia che si sono fatte parecchie collette, e che tutti si sono affrettati di venire in soccorso degli orfani.

—Povera gente! Povera gente! esclamava Antonio al quale erano venute le lagrime agli occhi.

Il pensiero di quei miseri orfani lo aveva condotto a quello dei suoi figli, a cui egli eziandio non sapeva oramai come procurar pane. E che sarebbe stato di essi, se il padre per un caso qualunque venisse lor tolto?

Lo speziale che vide l'interessamento del pittore per quel racconto, prese il giornale e glielo porse.

—Se lo vuol leggere, ecco qua il giornale. Veda lì, nella cronaca, terza colonna, seconda pagina… Ma prenda pur seco il foglio; io già l'ho letto… lo esaminerà con comodo, e lo farà leggere eziandio alla signora Rosina: ciò forse la vorrà interessare…

—Ma…

—Niente, niente, lo metta in tasca… Me lo renderà poi a suo comodo: io non ne ho punto bisogno.

Antonio prese il giornale, e si dispose a parlare di ciò per cui era venuto; ma il chiacchierone dello speziale, per cui tacere era impossibile, lo prevenne colle sue interrogazioni.

—Potrei servirla in qualche cosa, caro signor Vanardi?

—Ecco, son venuto precisamente…

—Ho capito. Le occorre qualche piccolo rimedio… Che sì che indovino! Un'oncia di polpa di cassia o di tamarindi?

—No signore.

—Olio di ricino forse?

—Oibò.

—Le mie pillole digestive?… Sono pillole che ho inventate io, e per le quali ho preso dal governo tanto di brevetto… Sono meravigliose. I ministri ne pigliano, gli ambasciatori, i procuratori ed avvocati; tutti quelli che hanno bisogno di digerir bene… E per citar gente che sta qui vicino e di nostra conoscenza, il cavalier Salicotto… Lei lo conosce bene il cavalier Salicotto?

—Di nome solamente.

—Oh! un omone… Un politico di ventiquattro carati…. Una testa monumentale… Vale dieci Cavour e cento Pinelli. Fa il giornalista umanitario; patrocina la causa dei poveri… a parole sonanti… E si fa ricco. L'hanno fatto cavaliere, riuscirà a farsi nominare deputato: un dì sarà ministro… Dev'essere nativo della mia provincia. Dei Salicotto ce n'è al mio paese, ed anzi ne conoscevo moltissimo uno che faceva l'ortolano… Ah! non voglio già dire che questo cavaliere sia discendente o congiunto in alcun modo con quell'ortolano… Ciò non gli farebbe mica torto; ma il cavaliere afferma di essere figliuolo d'un avvocato: e se lo afferma lui!… D'altronde ci sono tanti nomi somiglianti!… In ogni modo e' sa fare il signore. Bisogna vedere com'è alloggiato!… Ci vado alcuna volta io a trovarlo… ed egli mi fa l'onore di servirsi alla mia bottega: tappeti da ogni parte, masserizie d'un'eleganza!… Ebbene, ciò che volevo dire si è che il cavaliere Salicotto fa uso delle mie pillole… Ha lo stomaco debole il pover'uomo. Lavora tanto pel vantaggio altrui! E ne rimane soddisfatto—delle mie pillole—che non si può dir meglio.

—Ne sono persuasissimo; ma io non è di nulla di ciò che ho mestieri.

—No? Dica pur liberamente quella che le occorre. Son disposto a servirla in tutto…. E l'ho detto appunto a sua moglie…. Oh! per caso, non sarebbe già la signora Rosina che è ammalata?

—Ma no signore. Per grazia del cielo stiamo tutti bene.

—Tanto meglio, tanto meglio. Vedendo entrar qui lei, io m'era detto tosto fra me e me: Forse sua moglie si trova di bel nuovo…. mi capisce?

—No, per fortuna.

—Oppure uno de' suoi figli, quel demonietto di Tonietto…. Oh, oh! Ha osservato? Ho fatto una rima…. o quel furbacchiotto di Pippo che avrà mangiato troppo.

—Ama signore; s'io son venuto è appunto perchè que' poverini non mangiano abbastanza.

—Oh, oh! inappetenza?…. A quell'età è strana…. Ma stia tranquillo che le darò io qualche cosa….

—No, no, no! E' non han bisogno di nessuna delle sue droghe per aver fame….

—Ma dunque?…

—Sono venuto per finire quel nostro piccolo affare….

Lo speziale si trasse indietro il berretto e si grattò la fronte.

—Affare!… Che affare?

Antonio stava per ispiegarsi, quando l'uscio della bottega s'aprì vivamente con grande agitazione del campanello, ed una vispa ragazza entrò di fretta, salutando lo speziale e i garzoni per nome.

Sulla faccia del padrone e dei due accoliti si schiuse tosto il più grazioso sorriso di cui le loro fisonomie fossero capaci: e tutti tre si affrettarono verso la giovane con premurosa galanteria.

La carità del prossimo

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